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da teatro.org

a fondo pagina la maschera di ricerca per gli spettacoli

lunedì 26 novembre 2007

Ultrà in scena, tra curva e teatro

(da loschermo.it)
MONTECARLO (Lucca) - Edgarluve ha presentato uno spettacolo sul fenomeno del tifo calcistico basandosi sull'esperienza degli ultras livornesi. Lo spettacolo svoltosi presso il Teatro dei Rassicurati di Montecarlo ne ha evidenziato i pregi e, soprattutto, i difetti

Non è agevole il compito di critico quando si tratta di scrivere una stroncatura, a meno che non ci si faccia prendere dal divertito sadismo che è proprio della distruzione. Allo stesso tempo, c'è da intendersi su quale sia il ruolo della critica e delle recensioni e, in questo che potrebbe essere un discorso assai complicato e pure fuori dalla portata di chi scrive, di sicuro si può affermare che il compito di esse sia d'esser motivo di riflessione per tutti coloro che partecipano, in qualche modo, a un evento artistico. Nella fattispecie di uno spettacolo teatrale, quindi, i destinatari del messaggio sono molti, ossia gli autori, i realizzatori tecnici, gli attori e, infine, gli spettatori, e quelli reali (che hanno visto una recita) e quelli potenziali (che la vedranno o che non la vedranno mai).

Purtroppo viviamo in un periodo in cui la critica negativa è vissuta con sospetto, acrimonia, come un attacco scorretto: giudicare (operazione che ogni soggetto pensante compie d'istinto nella propria relazione col mondo) e per di più giudicare negativamente è spesso interpretato come un qualcosa di abominevole, di inaccettabile.
Ebbene, è con questa consapevolezza, cui fa da contraltare la coscienza lucida e incrollabile che sia utile, bello e, se ben fatto, interessante parlare (anche male) di un'opera, che ci apparecchiamo a discutere di Ultrà, spettacolo a firma di Edgarluve, visto qualche giorno fa nel bel teatrino dei Rassicurati di Montecarlo di Lucca.

Si tratta di un allestimento che, da un lato, prende di petto un argomento d’attualità quale il tifo calcistico con le sue propaggini violente e, dall'altro, tenta una reinterpretazione del libro I furiosi di Nanni Balestrini, testo chiave, e artistico, ossia d'artificio (Balestrini è uno scrittore e mai fu un ultrà), nella rappresentazione di questo peculiare fenomeno sociale, non solo italiano.

In scena, un solo attore (Marco Mannucci), alle cui spalle, su una pedana, sta un batterista. Ai lati della scena, due striscioni verticali rossi riportano scritte in cirillico, le stesse che facevano parte dell'armamentario retorico-politico delle Brigate Autonome Livornesi, la frangia più estrema, sotto il profilo politico e pratico (almeno questa era la rappresentazione data dai media) del tifo calcistico labronico. Le BAL, ora sciolte, hanno rappresentato un caso particolare nel panorama delle curve italiane: non solo di sinistra, non solo dichiaratamente comuniste, le Brigate si sono segnalate per l'intransigenza sia rispetto il fascismo dilagante nel tifo nazionale sia rispetto alle supposte debolezze delle altre curve variamente di sinistra e antirazziste, talvolta accusate di essere troppo accondiscendenti o troppo "morbide". Il dato che colpiva maggiormente, però, era l'aperto stalinismo sciorinato dai livornesi, tratto esibito ed evidente, cui s'accompagnava una lucida analisi del senso e della funzione del tifo nella società contemporanea: le BAL, infatti, sostenevano il primato della politica sugli aspetti calcistici, dando spesso vita a sottoscrizioni per cause umanitarie e distinguendosi per un'attività sociale da non sottovalutare. Notevole, in questo senso, che lo spettacolo sia stato scritto con la consulenza della curva Nord livornese.

Torniamo però allo spettacolo: all'ingresso degli spettatori, il sipario è aperto, l'attore sdraiato indossa qualcosa che somiglia a un'armatura, mentre s'aggrappa a un'asta microfonica. In sottofondo, una musica dal sapore epico, a suggerire il presagio d'una battaglia. Entra il batterista: Mannucci inizia a respirare nel microfono, effetto invero piuttosto abusato da almeno trent'anni di teatro d'avanguardia. Si alza e inizia il racconto di una trasferta dei livornesi a Palermo. Ben presto, però, si ha la netta sensazione che lo spettacolo zoppichi, faccia acqua da tutte le parti. Cerchiamo di spiegare perché:

1. L'eloquio di Mannucci non è credibile. Non è questione di dizione: l'italiano standard spesso suona falso, proprio perché siamo un paese di comuni, di città diverse. Allo stesso modo, però, un accento senza cura, senza la giusta riflessione su ciò che si sta pronunciando, comunica solo sciatteria ed equivale a un suicidio, specialmente in un monologo, per sua natura legato alla voce e al discorso dell'attore. Con questa premessa, è impossibile che la recitazione suoni anche lontanamente verosimile. "Non ci credo" è la frase-condanna che Stanislavskij rivolgeva ai suoi attori, nello sforzo di indurli a infondere "verità" nella recitazione. Purtroppo, a Mannucci, non si riesce a credere nemmeno per un attimo.
2. Il testo è scritto male: a fronte di alcuni elementi potenzialmente sfruttabili (certe immagini ripetute, certe allocuzioni), il racconto di Edgarluve è un florilegio di "e poi", "ma", "e lui dice". Difficile da spiegare, ma l'impressione finale è di una narrazione sprecisa, senza centro, linguisticamente insufficiente. Stiamo parlando in termini di efficacia, ben consci che una comunicazione franta possa essere appropriata a teatro (come in letteratura). Il problema è che questo testo è carente di elementi forti e, soprattutto, risulta del tutto privo di una lingua teatrale efficace: si pensa, ascoltando, molto di più all'incespicare dell'attore-personaggio che a ciò che viene detto e dubitiamo che questo sia un effetto cercato dall'autore.
3. La scenografia non partecipa dello spettacolo: la gente (ce ne siamo resi conto personalmente) non la interpreta per quello che è, col risultato che essa risulta del tutto inutile. Meglio un fondale nero, "neutro". Per di più le luci sono elemento accessorio dell'allestimento, con l'eccezione della parte centrale, quando il personaggio subisce una sorta d'interrogatorio, immobilizzato sulla sedia e racconta il proprio approccio con la curva.

Il monologo è articolato in tre distinti momenti: nel primo si narra la trasferta palermitana dei livornesi, con tanto di "ragioni" a favore degli spesso "irragionevoli" ultras; nel secondo, come già detto, si svolge una sorta di confessione "privata" del protagonista che racconta il proprio percorso personale; nel terzo, si sfrutta la parte più importante (e bella) de I furiosi di Nanni Balestrini, ambientandola in chiave livornese e legandola alla diatriba con i tifosi palermitani che costituisce la trama dello spettacolo. Ma anche quest'ultima parte, per quanto "aiutata" da una struttura forte come il testo letterario di Balestrini finisce per zoppicare e risultare inefficace.
Nel libro si narra, in modo espressivo, il clamoroso scontro nelle campagne vicine a Pontecurone (AL) che il 6 giugno 1993 si verifica all'incrocio di due treni carichi di tifosi sampdoriani e milanisti: ne scaturisce uno scontro durato per ore, coinvolgendo quasi un migliaio di persone, forse la "battaglia" più grande mai svolta tra due tifoserie italiane. Lo scrittore riesce a tradurre in modo esemplare l'aspetto epico dell’avvenimento attraverso l'eliminazione totale della punteggiatura, nel tentativo di riprodurre la frenesia e il caos implicito nei fatti narrati.

La traduzione scenica del passo balestriniano soffre, però, degli stessi problemi sopra esposti e in più presenta una vera e propria "caduta", quando, alla fine del racconto, Edgarluve aggiunge un dialogo tra il protagonista e un amico tifoso che sottolinea la "vittoria" della battaglia appena conclusa. È lì che il personaggio, contestando il compagno, afferma di non sentirsi affatto vincitore, di esser convinto d'aver sempre perduto, da tanto tempo, forse da trent'anni.
L'effetto, da un punto di vista scenico, funziona, è uno dei pochi momenti, forse il solo, in cui la recita riesce a essere significativa in senso teatrale: peccato che per un tale risultato si debba utilizzare una retorica, quella della sconfitta esistenziale, malata di morale, pure facile, come se bastasse un dialogo per provocare un passaggio psicologico tanto forte da compiere una metamorfosi totale nel protagonista. Non contestiamo che per qualcuno, nella vita reale, possa essere andata realmente così, ma all'interno di una rappresentazione artistica, spesso la realtà perde completamente di forza. Per questo, a nostro avviso, il fatto che nell'elaborazione dell'allestimento siano intervenuti dei veri tifosi è un elemento trascurabile: Salgari scriveva dell'India dalla propria scrivania, senza aver mai vedute le terre tanto bene illustrate nei propri racconti. Allo stesso modo l'arte è, in gran parte, artificio, e quindi gli attributi reali di un racconto sono certo importanti ma non necessariamente fondamentali.

Chiariamo: il tifo è, potenzialmente, tema teatrale di tutto rispetto. Vi sono insigni studiosi di teatro greco, come Harold C. Baldry, a sostenere non senza ragioni che l'atmosfera degli attuali stadi calcistici è ciò che maggiormente si può avvicinare a quell'incomprensibile (per noi "moderni") clima di delirio collettivo sotteso in occasione degli allestimenti tragici ateniesi. La tragedia spesso tratta della hybris umana, toccando quel lato oscuro, pericoloso e insondabile dell'uomo, nella dimensione di un delirio distruttivo che rappresenta tuttora un tema inesaurito e certo interessantissimo. Vi evitiamo, in tal senso, menate da intellettuali, alludendo "soltanto" a La nascita della tragedia di Friedrich Nietzsche.

Non solo: sono numerose le suggestioni contemporanee legate alla rappresentazione artistica del fenomeno del tifo. Pensiamo, per esempio, allo scozzese Irvin Welsch, già autore celebre di Trainspotting, che ha dedicato vari racconti, divertentissimi, con protagonisti ultrà. Ma anche Arancia Meccanica (sia nella versione filmica sia nell'originale letterario di Anthony L. Burgess) è una rappresentazione potente di un atteggiamento comportamentale non distante da una certa follia violenta.
Diciamocela tutta: i tifosi hanno un fascino innegabile proprio perché violenti e irriducibili rispetto a una mentalità borghese. In ciò, sono inevitabilmente un'attrazione irresistibile per i borghesi stessi: non a caso, molti responsabili di violenze legate al tifo non sono (più) disadattati sociali, ma gente più o meno "per bene", con un lavoro e, in ogni caso, non necessariamente degli "irregolari".

Proprio per queste ragioni, unitamente al moralismo semplicistico del finale, a un sociologismo abbozzato e superficiale e, ciò che è peggio, a un linguaggio teatrale del tutto involuto (nel testo, nella recitazione e nella concezione complessiva dell'allestimento) che Ultrà risulta uno spettacolo da rivedere, ripensare in ogni sua componente. Prima di tutto nella struttura retorica e in ciò che deve esprimere, in seconda istanza nel linguaggio scenico, che ha una propria sintassi precisa, da cui solo i geni possono, forse, prescindere.
L'argomento è troppo interessante e d'attualità per lasciarlo cadere, ma proprio per questo merita un maggior approfondimento, emozionale e intellettuale, in grado di spiegare in termini teatrali sia il fascino, perverso e incontestabile, sia il complesso aspetto sociale del mondo ultras, fenomeno in grado di tenere occupate ogni fine settimana migliaia di persone senza nessuna prospettiva se non quella di trovare un nemico, nella ricerca, disperata e irrisolvibile, di uno straccio d'identità.

Visto a Montecarlo di Lucca, teatro dei Rassicurati, 22 novembre 2007.

Spettacolo
Ultra
tratto da I furiosi di Nanni Balestrini
ideazione e regia: Edgarluve
drammaturgia: Alessio Traversi
con: Marco Mannucci
batteria: Francesco Zerbino
organizzazione: Federico Bernini
con il contributo di alcuni ultrà della Curva Nord di Livorno
Finalista del premio Tuttoteatro.com Dante Cappelletti edizione 2006

giovedì 22 novembre 2007

Il festino terribile di Emma Dante

(da loschermo.it)
BUTI (Pisa) - Debutto stagionale per il Teatro Francesco di Bartolo con l'ultimo allestimento di Emma Dante, regista e drammaturga tra le più apprezzate del momento. Gran prova d'attore per il bravo Gaetano Bruno a fronte di alcune perplessità circa le scelte implicite dell'allestimento. Il pubblico, ha in ogni caso, dimostrato di apprezzare molto lo spettacolo, premiandolo con applausi calorosi e prlungati

In questi ultimi anni la Sicilia (ma il discorso potrebbe estendersi all'intero meridione) ha scoperto una rabbiosa vivacità artistica, in grado d'esprimere, in forme e contesti differenti, una generazione di talenti d'indubbio valore. Se un tratto, non senza forzar la mano, riesce ad accomunare certi fenomeni musicali (si pensi, su tutti, a Carmen Consoli, che salda sicilianità profonda su tessutiture debitrici di un female rock graffiante e ricercato) a contemporanee epifanie sceniche (la rivisitazione del cunto da parte di Davide Enia, gli spettacoli di Vincenzo Pirrotta), questo è certo una magmaticità dolorosa, ribollio sotterraneo e grottesco di pulsioni in grado d'accostare la nostra modernità a quell'aura mitica di cui il Sud, o ciò che comunemente s'intende per tale, sembra essere intriso.

Emma Dante, quarant'anni, è forse la capofila di una drammaturgia arrabbiata e dolente, che nel rapporto complesso con le proprie radici culturali ha trovato una chiave di lettura per i temi principali del proprio teatro, concentrato sui temi del disagio, della comunicazione saltata, dell'insuperabilità del dolore. Del resto, l'attrice-autrice-regista palermitana ha, negli ultimi anni, fatto incetta di premi e riconoscimenti, segnalandosi, non senza merito, tra i più significativi fenomeni del teatro d'oggi. Basti pensare agli spettacoli scritti e diretti, quali mPalermu (2001), Carnezzeria (2002), Vita mia (2004) sino ai recenti Mishelle di Sant'Oliva (2005) e Cani di bancata (2006).

La stagione del Teatro Francesco di Bartolo di Buti ha quindi scelto per il debutto l'ultimo lavoro dell'artista sicula, Il festino, monologo cucito "addosso" al bravo Gaetano Bruno e prodotto dall'interessante sinergia tra la compagnia "storica" della Dante, Sud Costa Occidentale, con Nuovo Teatro Nuovo di Napoli e il Festival delle Colline Torinesi.

In scena una figura antropomorfa, capo coperto da un panno, si muove a scatti, a singulti, senza far capire se a rivolgersi verso il pubblico siano il busto o le spalle. La luce si diffonde e, lentamente, compare il profilo di Paride, pinocchiesco personaggio a metà tra fanciullo e idiota, "doppio" d'un gemello costretto su una sedia a rotelle. Lo stralunato carattere parla, si rivolge direttamente al pubblico, frangendo reiteratamente la quarta parete, squittendo con modi infantili nel perpetrare il tormentone del suo contorto e buffo eloquio: "Te la posso dire una cosa?"
È solo, a ricuperare la memoria d'un abbandono paterno, della disattenzione materna e dell'accidentale fratricidio: un racconto dolorosamente grottesco, buffo nel continuo interrogar la sala e nel tratteggiare un'umanità abbandonata, calata in una dimensione onirica e inquietante. Pierrot imbevuto d'una Palermo mai nominata, ma evocata dagli scarti linguistici volutamente macchiati d'accenti siciliani, Paride vive proiettando passato e presente in una dimensione quasi giocosa, come quando, nel tentativo di curare l'infermità del fratello, inizia a mettere in equilibrio tutti gli oggetti che trova, stuzzicadenti, sedie e scope... Queste ultime sono le altre protagoniste della scena, proiezioni di persone a amici che animano il festino del trentanovesimo compleanno del personaggio (e del di lui gemello, se solo fosse vivo...), ragione degli scarni addobbi colorati e dei palloncini che adornano la scena.

C'è una macerata desolazione nelle parole smozzicate di Paride, una resa di fronte alla realtà dell'abbandono per rifugiarsi nella dimensione autoreclusiva dell'immaginazione, gioco al massacro non distante dalle orribili (e comiche) famiglie di Kafka e certe tirate satiresche di marca fassbinderiana.
Le musiche sottolineano questa scelta drammaturgica, spaziando dai Blur al finto (?) thrash di Limonata cha cha cha della, non a caso palermitana, Giuni Russo, rafforzando la dimensione grottesca e, al contempo, patetica della storia, soprattutto con il crescendo dei Sigur Ros nel finale.

Gaetano Bruno è senz'altro la nota migliore dell'allestimento, certo per la plasticità corporea, a suo modo aggraziata nella disarmonia del personaggio, in grado però di lanciarsi in balletti quasi Broadway style usando le scope quali compagne di danza.
Non altrettanto si può dire circa le altre scelte registiche: innanzitutto una scenografia che, volendosi povera e desolata, risulta invece sciatta, esageratamente dilettantesca, forse costretta dalle dimensioni esigue del palcoscenico (ma v'è da dubitare, dopotutto, si tratta di un monologo).
Di certo la decisione è ponderata, e proprio perché tale, dunque, la si può mettere in discussione.
Allo stesso modo, discutibile appare la concezione complessiva dello spettacolo, soprattutto nel finale dolceamaro, col protagonista solo e, forse, felice, nel proprio festino di proiezioni fantasmatiche e miccette esplose in scena, con tanto d'invasivo crescendo musicale al servizio del costrutto retorico e, diciamocela tutta, lacrimevole dell'insieme.

C'è del manierismo, in tutto questo: un mettere in scena alla maniera di. Non si discute che il primo scopo d'un artista sia la ricerca d'un proprio stile, ma, Calvino docebat, una volta trovatolo (spesso per accidente), il successivo passo d'un percorso poetico dovrebbe essere lo smarcamento, lo scarto, la sorpresa. A meno che, nel percorso, non subentrino logiche, assolutamente comprensibili, di tipo commerciale: formula che vince non si cambia.
Questa l'impressione che, al di là di Emma Dante, danno gli ultimi "fenomeni" della scena italiana contemporanea: spunti interessanti, a tratti discutibili ma di sicuro merito, cui seguono spesso lavori di minor coraggio, corroborati da un'autoreferenzialità tipica dell'ambiente teatrale, in cui esistono gerarchie ben precise, ancorché avvalorate da patenti di qualità conferite dal "circuito d'intenditori".
Gli applausi del pubblico in sala sono convinti, ai limiti dell'ovazione per Gaetano Bruno che, ripetiamo, è bravo, ma le perplessità appena proposte, francamente, restano tutte.

Visto a Buti, Teatro Francesco di Bartolo, il 21 novembre 2007.

Spettacolo
Il festino
testo e regia: Emma Dante
con Gaetano Bruno
luci: Antonio Zappalà
produzione: Sud Costa Occidentale in collaborazione con Nuovo Teatro Nuovo di Napoli e Festival delle Colline Torinesi

Foto tratte da http://www.emmadante.it/, http://www.sudcostaoccidentale.com/ e http://www.nuovoteatronuovo.it/

domenica 11 novembre 2007

Il Decamerone leggero ma non troppo di Ugo Chiti

(da teatro.org)
FIRENZE - Decamerone, amori e sghignazzi, nuovo allestimento di Arca Azzurra Teatro , ha iniziato la tournée invernale sul palco del Teatro di Rifredi . In scena sino al 17 novembre

Non è esattamente un debutto quello cui abbiamo assistito al suggestivo Teatro di Rifredi, ormai vero e proprio luogo storico, e vivo, del panorama scenico fiorentino e toscano tout court: Decamerone, amori e sghignazzi, infatti, era già andato in scena d'estate, a Mantova e a Radicondoli (Siena). Nonostante ciò, l’aria respirata a Rifredi è quella dell’esordio, perché lo spettacolo si ripresenta arricchito, rivisto e lo schiudersi del sipario sancisce la vera conclusione del periodo di prove e l’inizio della tournée.

Ugo Chiti è tra i migliori autori di teatro in Italia, in barba alla reiterata lagna sull’assenza di drammaturghi e ai meccanismi kafkiani di finanziamenti, favori e maneggi che imperano e ammorbano il sistema scenico nazionale. Da oltre venticinque anni, infatti, sforna testi e spettacoli con Arca Azzurra Teatro, la compagnia da lui fondata, con l’aiuto dei “suoi”, peraltro eccellenti, attori, oppure con collaborazioni illustri come Alessandro Benvenuti o Lucia Poli. Chiti è anche acuto interprete d’una strada toscana distante dall’uggiosa tendenza alla cartolina o al versaccio, malattia morbosa che attanaglia i “nostri” attori regionali, troppe volte inchiodati a un macchiettismo tanto di successo (ma le cose stanno cambiando) quanto inerte e, diciamocelo, ormai irritante. La Toscana di Chiti è nera, grottesca d’una comicità che sporca la bocca, che ha un retrogusto amaro, irriducibile ma di grandissima emozione. In questo senso, Boccaccio è stella polare per l’autore chiantigiano, giacché il confronto col suo capolavoro novellistico, il Decamerone appunto, rappresenta strada più volte battuta in carriera: Amori e sghignazzi è, infatti, almeno la terza rielaborazione ispirata al libro delle cento novelle, dopo Decameron – Variazioni e il bellissimo Buffi si nasce, compendio di storia della comicità burlesca toscana (da Boccaccio allo stesso Chiti, passando per Machiavelli, Palazzeschi e Augusto Novelli) il cui primo episodio era ispirato alla novella di Calandrino gravido.

Amori e sghignazzi ha una struttura a cornice costituita dalla gustosa vicenda di Masetto da Lamporecchio, contadinello finto mutolo per entrar a servizio in convento e che, in breve, si vede “costretto” a soddisfare le brame sessuali di tutte le monachelle, badessa inclusa. La novella è leggera, distesa e inebriante: la vita, e in questa il sesso, è troppo bella e importante per poter essere ingabbiata da una moralità mortificante ad annichilire corpo e piacere.

In scena, quindi, subito un cicaleccio di suorine, indifferentemente interpretate da attori e attrici: quasi uno spettacolo di Paolo Poli, da tanto il clima carico di licenza e malizia s’impelaga nel mescolar sacro e profano grazie anche all’alternanza di svariati e indovinati costumi. E l’inversione sessuale trova la sua quadratura nel buffo Masetto, vivacemente interpretato da Lucia Socci: interessante la soluzione d'alternare narrazione e dramma, con i personaggi che ora raccontano le vicende come se ne fossero esterni, ora “tornano” nel personaggio della rappresentazione.

La scenografia scarna (una struttura centrale con una porta sghemba dalla quale entrano ed escono i personaggi) è però funzionale alla recita, allorquando, nel corso della storia di Masetto, s’innestano i racconti di altri episodi boccacciani. Ai pochi arredi fanno da contrappasso i già citati costumi, sgargianti o rustici secondo necessità, che moltiplicano gli attori (sette nel complesso) in un ben maggior numero di personaggi. Dopo il primo assalto sessuale subito dal giovane contadino, ecco narrata la paradossale vicenda di Alatiel, principessa orientale destinata a matrimonio d’interesse politico, che prima di giungere in sposa al marito promesso affronta una serie infinita d’esperienze, ovviamente erotiche, per poi riacquisire, con l’artificio, una riparatrice verginità. Massimo Salvianti è un irresistibile Soldano, costantemente affranto dalle peripezie filiali narrategli dal buffo servo con tanto di squillante trombetta. Dopo un primo ritorno alla “cornice” del convento muliebre di Masetto, ecco il secondo innesto, la celebre vicenda dell’aspirante cristiana Alibech che, alla ricerca di un eremita che le apra la via alla santità, finisce per accogliere e placare lo diavolo (ossia il membro virile) del probo Neerbale nel proprio inferno (ossia la di lei vagina), dando vita a un irresistibile misunderstanding di natura morale.

Sino a questo momento lo spettacolo è godibile, leggero, forse anche troppo lieve: bravi gli attori, ma questo Decamerone sembra a tratti edulcorato, eccessivamente levigato, pur nelle indovinate scelte linguistiche d'un Chiti in grado d’essere fedele al toscano boccacciano e, al contempo, moderno nel mettere in scena una lingua a tratti inventata. Ma è proprio il terzo inserimento novellistico a costituire la svolta dell’intero allestimento: le note struggenti di Cinquecento catenelle d’oro, bellissima canzone popolare toscana, aprono la triste storia di Lisabetta da Messina: la ragazza, interpretata dalla bella e brava Teresa Fallai, canta e ricama, subendo senza nemmeno accorgersene, tanto è svagata, le insidie dei suoi stessi fratelli, tre figuri tendenti al bifolco. Sulla continenza della fanciulla, veglia la matrigna Celeste (Giuliana Colzi), sempre a maledir la morte del marito che le ha lasciato un’incombenza tanto improvvida quale l’ostacolar il corso della natura giovanile, ossia l’amore. Lisabetta, infatti, s’innamora d'un servo, con cui nemmen riesce a capirsi parlando. Questi, un notevole Alessio Venturini nel ruolo che un tempo sarebbe stato dell’amoroso, ne diventa amante, finendo per giacere con la fanciulla: viene scorto dai fratelli che, gelosi, decidono di ucciderlo. Dopo l’esecuzione, il ragazzo appare in sogno a Lisabetta, rivelandole i dettagli macabri della propria fine: lei impazzisce e, aiutata dalla comprensiva e ora solidale matrigna, dissotterra il corpo violato dell’amante per conservarne la testa nella terra d’un vaso di basilico. La canzone prima intonata da Lisabetta diventa presagio d’amor folle e doloroso, eppur inscindibile e bellissimo. I fratelli, però, scoprono sia la pianta sia la testa ormai tumefatta e, in una scena grottesca quanto straziante, improvvisano una serie di passaggi calcistici con ciò che resta del corpo amato dalla giovane.

Conclusa questa cupa novella, lo spettacolo torna alla cornice di Masetto, alla sua voce “scoperta” dalle monache e sapientemente camuffata da evento miracoloso, per fare in modo che il lieto ménage conventuale possa protrarsi con soddisfazione e del villano e delle monachelle ormai aduse al sesso. Ma il sapore prevalente che resta impresso nello spettatore è quella amarezza nera, dolorosa e sublime, della vicenda di Lisabetta, in cui si saggia il peculiare senso del grottesco che rappresenta una delle corde principali del teatro di Chiti, in grado di far ridere e allo stesso di emozionare in modo ambivalente e profondo lo spettatore.
Lo spettacolo, che pareva tradire la complessità del dettato boccacciano, acquista invece una dimensione tragica insanabile, senza però rinunciare al gioco comico, al sorriso sino al ghigno, e recuperando una certa consonanza col Pasolini violento e vitale della Trilogia della vita, di cui Il Decameron (1971) rappresenta il primo mirabile episodio. Il Boccaccio di Chiti, quindi, rappresenta bene il paradigma di un incessante lavoro sulla toscanità del drammaturgo e regista chiantigiano, mai sputtanata nella banalità volgarotta di molti colleghi attori o autori e, anzi, affrontata nella sua violenta e profonda complessità: l’unica vera speranza per sfuggire alla prospettiva, inquietante o meno che sia, dell’omologazione.
Applausi meritati, si replica sino a sabato 17.

Visto il 9 novembre 2007, a Firenze, Teatro di Rifredi.

Spettacolo
Decamerone, amori e sghignazzi
dal Decameron di Giovanni Boccaccio
libero adattamento e regia di Ugo Chiti
con Giuliana Colzi, Andrea Costagli, Dimitri Frosali, Massimo Salvianti,Lucia Socci, Teresa Fallai, Alessio Venturini
costumi: Giuliana Colzi
luci: Marco Messeri
musica originale e adattamento: Vanni Cassori, Jonathan Chiti
oggetti di scena: Lucia Socci
Produzione: Arca Azzurra Teatro
Foto: courtesy Teatro di Rifredi e Arca Azzurra Teatro