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lunedì 25 febbraio 2008

Re-citare Gaber: fedeltà, tradimento e (tanto, tanto) business

(da loschermo.it)
PISTOIA – Nella suggestiva cornice del Teatro Bolognini, all’interno della rassegna In verso veritas, abbiamo visto Giulio Casale, astro nascente del teatrocanzone italano e acclamato interprete di Polli d’allevamento, indimenticabile spettacolo (e incisione) di Giorgio Gaber

Lo ribadiamo a scanso d’equivoci: mettere in scena Gaber si può, si potrebbe, non è di per sé lesa maestà. Lo dicevamo di fronte al deludente Un certo signor G con Neri Marcorè, ce lo ripetiamo a mo’ di mantra nel recarci fiduciosi al cospetto di Giulio Casale, di cui si parla un gran bene e la cui operazione, allestire non un the best of bensì uno spettacolo intero, un’opera conchiusa, del cantattore d’origine istriana, è iniziativa interessante e non da bocciare a priori.

Sipario aperto, una sedia. Filologia scenica perfetta, con la differenza della mise (e del portamento) dell’interprete: Gaber compariva di nero vestito, il consueto "costume" neutro, Giulio Casale, più alto e bello del maestro, indossa una camicia semiaperta e un paio di jeans. Capello sulle spalle, andatura dinoccolata, molto rocker e, in questo, diverso dal modello: del resto, l'epigono ha alle spalle una dignitosa carriera di cantante, senza essere mai riuscito a sfondare (il curriculum tratto dal suo sito ufficiale sembra spararla un po’ grossa, ma tant’è…), segnalandosi però attraverso gli anni Novanta con discreti risultati nel circuito italiano del genere.
È pure bravo, Casale: voce potente, bella, mai a disagio con l’intonazione. Certo, meglio il canto della recitazione, non aiutato da un’amplificazione che impasta il timbro del parlato, mentre invece con Gaber (basta ascoltarne i dischi) il problema non sussisteva.

Però, perché un però c’è sempre, Casale fa il verso all'originale. Ne è un calco (quasi) clonale: di Gaber sono le inflessioni d’accento, certe minuscole variazioni del tono di voce, certi fiati flautati, persino quando ringrazia il pubblico! Già dopo il primo pezzo la cosa è sin troppo evidente, tanto che la tentazione sarebbe di alzarsi e andarsene: s’è capito, s’è capito…
A peggiorare il tutto, c’è, come se non bastasse, il fatto che Casale è infinitamente più debole di Gaber, non ne ha la forza evocativa, la potenza. Lo spettacolo, uno dei migliori della collaborazione tra il cantante-attore e Sergio Luporini, in questa riproposizione-calco non trascina, non fa incazzare, non devasta. E, data la situazione, non ha nemmeno il buongusto di sottrarsi al confronto col modello. Confronto sia, dunque, e, dato che chi scrive, il disco Polli d’allevamento l’ha frustato, ascoltato, suonato e cantato, non si può certo dire che l’operazione di Casale possa reclamare un qualsiasi senso di per sé.

Che significato ha riproporre un’opera senza avere il coraggio, la faccia tosta, la bravura di reinterpretarlo? Di piegarlo alle proprie esigenze, di sondarne i sensi nascosti, tra le pieghe del testo, di renderlo vivo. Quello che Casale fa, con una certa bravura nel canto, è operazione sterile, poco rispettosa e dell’opera e dei suoi autori. Il teatro, comunque lo si voglia interpretare, è arte politica, parla qui e ora, sia che s’insceni Eschilo o Dario Fo. Allestire uno degli spettacoli più furiosi, complessi, difficili politicamente di Gaber non può consentire la monumentificazione, l’archeologia, la riproposizione inerte (non tanto del testo, quanto dell’interpretazione) di ciò che veniva fatto trent’anni prima (Polli d'allevamento esordisce infatti nell’ottobre 1978).
Anche perché, e qui sta il punto più importante, Gaber e Luporini scrivevano al presente, del presente, intervenivano e sviluppavano di anno in anno una propria poetica visione della realtà che, altro aspetto fondamentale, mai era consolatoria, rassicurante. Gaber è stato il Grillo Parlante di un’inquietudine interna alla sinistra italiana, la sua spia, il suo tarlo continuo e poco convinto, il Bastian contrario che, alla lunga, ha inchiodato i veri conformisti, quelli che duri e puri all’epoca fischiavano Quando è moda è moda e adesso prendono, o hanno preso, stipendi e regalie da potentati vari, testate e partiti.

Riproporre senza discutere, anche al limite contestare, qualsiasi disco di Gaber (ma si potrebbe dire qualsiasi opera in assoluto) è un’operazione depravata, deprivata, che ha solo un senso, quello commerciale. Non conoscitivo, soprattutto in questo caso, dato che basta una mezza ascoltata al disco per capire quanto Casale sia in questo caso debole, inessenziale, inerte, inutile. Roba da Fondazione Gaber, ovviamente, che non per nulla pone il sigillo su questa ennesima operazione che si rivela speculativa e in sé disonesta. Per essere veramente fedeli a un modello artistico, è necessario tradirlo. Come non notare, infine, che là dove Gaber suonava con un gruppo di musicisti alle spalle, in questa occasione le musiche (originali, elaborate da Franco Battiato e Giusto Pio) sono invece preregistrate? Manco il brivido del live...

E, come in occasione di Marcorè, si pone per l’ennesima volta la stessa questione: a chi sono destinati gli applausi del pubblico festante? Stavolta non c’è dubbio: tutti, tutti, per il Gaber evocato, telefonato e distante, quasi offensivo per chi abbia minimamente presente la potenza dell’originale.

Sarebbe il momento di porre con forza la questione: basta con i tributi, basta coi Festival disonesti e le fondazioni per far girare il contatore di cassa, basta con questi avvoltoi, basta con lo sfruttamento dei morti.
Non per rispetto morale, ma estetico, che è l’unico modo di essere morali.
Chi ha qualcosa da dire, lo dica, chi ne è privo, si dedichi una volta per tutte ad altro.

Visto a Pistoia, Teatro Bolognini, il 24 febbraio 2008.

Spettacolo
Polli d’allevamento
di Giorgio Gaber e Sandro Luporini
con Giulio Casale
musiche originali arrangiate da Franco Battiato e Giusto Pio
produzione: Teatro Filodrammatici - Fondazione Giorgio Gaber

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