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a fondo pagina la maschera di ricerca per gli spettacoli

domenica 30 marzo 2008

Natura o cultura? Il dilemma muliebre di Arturo Cirillo

(da loschermo.it)
LUCCA - Chiude in grande la stagione del Teatro del Giglio: un bravissimo Arturo Cirillo alle prese con Le intellettuali di Molière. Tra smanie di donne saccenti e sapienti fasulli, una commedia divertente che non ignora l’inquietudine

Una serie di lunghi specchi collocati a semicerchio disegnano la scena in cui si svolge la vicenda delle donne saccenti di Molière, Le intellettuali secondo la bellissima traduzione del compianto Cesare Garboli. L’ottima scenografia di Gianluca Falaschi è semplice senza rinunciare alla nota barocca d’una verosimiglianza storica: aperta su più lati da ingressi, si anima con le rapide entrate (e uscite) dei personaggi, in un formicolare d’esistenze ridicole che è il centro vitale del meccanismo comico.

Una famiglia ostaggio di donne risolute a emanciparsi mediante la cultura (madre, primogenita e zia sciroccata, convinta di ammaliare ogni maschio in circolazione) è preda delle mire interessate d’un fasullo sapiente, che ammalia le povere intellettuali con poesia d’accatto spacciata per grande arte. Subiscono la situazione, pur tentando di reagire, un marito ragionevole ma succubo, la secondogenita Enrichetta ben decisa a divenir donna e moglie contro la volontà materna, e Clitandro, di lei pretendente ed ex innamorato della maggiore.

Arturo Cirillo, artista sulla soglia della grandezza da riconoscere universalmente, ha scelto questo particolare testo molièriano per sbizzarrire il proprio talento innegabile, d’attore e regista, in una messinscena di grande pulizia e coscienza teatrale. Il “suo” Trissottani, il farlocco letterato, è formidabile ostentatore d'una cultura tutta esteriore e, si vedrà, frutto di plagi e taroccamenti vari: entra in scena direttamente dalla platea, là dove tornerà alla fine e verso la quale ammicca spesso nel corso delle proprie esibizioni. La lettura alle donne di un improbabile sonetto è un piccolo capolavoro di comicità: la quarta parete è lambita, carezzata, affrontata e sfondata, pur con l’intima consapevolezza della sua totale irriducibilità. C’è Eduardo, senza dubbio: del resto, la parentela con Cirillo è una discendenza diretta se si pensa che il quarantenne napoletano è il miglior allievo di Carlo Cecchi, e quanto quest’ultimo abbia tratto dal recitare al fianco del grande attore e autore partenopeo. E c’è da dire che, pur non credendo sino in fondo nei premi e nei riconoscimenti ufficiali, il fatto che a Cirillo sia stato assegnato il Premio Ubu 2006 come miglior attore non protagonista per l’interpretazione di Trissottani ci sembra una conferma che, di tanto in tanto, i riconoscimenti vadano anche a chi li merita realmente.

A contorno dell’attore e regista, che entra in scena quando la commedia è già in fase avanzata, una compagnia di attori fidati e, va detto, bravissimi: ottime le voci, ottime le movenze, sempre a tempo, senza sbavature né affettazioni. Salvatore Caruso, Beatrice Ciampaglia, Michelangelo Dalisi, Rosario Giglio, Monica Piseddu, Antonella Romano, Luciano Saltarelli e Sabrina Scuccimarra, interpreti che ormai costituiscono un irrinunciabile strumento per il regista di Castellammare.

La commedia, come si può immaginare, procede nell’esibizione satirica delle storture dovute alla "mania" per la cultura, una mania pedantesca e, in quanto mania, goffa, ridicola; ma attenzione: Molière non “bastona” le donne in quanto tali, non condanna il desiderio d'elevazione in sé, quanto la stupidità nell’affidarsi a ciarlatani, senza avere la capacità, ossia la vera cultura, di saper scegliere, distinguere e riconoscere chi vale e chi finge. Cirillo è bravo nel trattare l’argomento, riuscendo a tenere lo spettacolo su un equilibrio mirabile, senza, peraltro, rinunciare a inserti di comicità irresistibile: la scena finale con la serva (l’ottima Sabrina Scuccimarra) che, in piedi sul tavolo del finto notaio, espone le ragioni della “Natura” e del sesso, contro le velleità intellettualistiche delle femmes savantes è un capolavoro di pulcinelleria che unisce efficacia comica pur nella recitazione sopra le righe. Difficile da descrivere altrimenti, se non sottolineando come anche l’esibizione d’un impulso eccessivo necessiti, a teatro, d’una sua grande misura per poter essere efficace e credibile.

La vicenda si chiude come da commedia, col matrimonio desiderato a sancire un nuovo, chissà quanto duraturo, ordine. Sulle note d’una musica barocca, suoni striduli e stranianti: le luci calano sino a rendere un’atmosfera lunare, con gli attori che voltano le spalle al pubblico e s’approssimano agli specchi con smorfie da maschere deformate, espressionistiche, forse a instillare il dubbio che, nonostante tutto, l’ordine, qualsiasi ordine, sia necessariamente destinato a essere illusorio.
Applausi convinti del pubblico per una chiusura di stagione che, forse, non poteva essere migliore.
Visto il 29 marzo 2008, a Lucca, Teatro del Giglio.

Spettacolo
Le intellettuali
di Jean-Baptiste Poquelin Molière
traduzione di Cesare Garboli
con Salvatore Caruso, Beatrice Ciampaglia, Arturo Cirillo, Michelangelo Dalisi,Rosario Giglio, Monica Piseddu, Antonella Romano, Luciano Saltarelli, Sabrina Scuccimarra
regia di Arturo Cirillo
scene: Massimo Bellando Randone
costumi: Gianluca Falaschi
musica: Francesco De Melis
luci: Andrea Narese
assistente alla regia: Pino Carbone
Produzione: Nuovo Teatro Nuovo - Teatro Stabile di Innovazione Mercadante - Teatro Stabile di Napoli in collaborazione con Città di Urbino/Teatro Sanzio e Amat

lunedì 17 marzo 2008

Lavia e Amleto, tra spettacolo e lezione

(da loschermo.it)
PISA - Gabriele Lavia al Verdi, solo in scena, si confronta con Amleto, in una performance che tenta un viaggio profondo nei molti temi del capolavoro shakespeariano. Oltre quattro ore di racconto misto a digressioni, spunti filosofici e riferimenti sia storici sia linguistici. Teatro che unisce narrazione, recitazione e lezione dotta, ma che, pur rappresentando probabilmente una delle direzioni della scena italiana contemporanea, non sgombra certo il campo delle perplessità

Ha iniziato Dario Fo, sin dagli anni Settanta: del resto, quel gran capolavoro che è il suo Mistero Buffo (spettacolo chiave per tutta la nostra comicità contemporanea, e non solo quella) era, ed è, allestimento, anche in ottica didascalica o didattica, forte di un gran numero di puntualizzazioni, riletture poetiche e spunti di riflessione a gettare un ponte tra Medioevo e giorni nostri. Certo, Fo è un istrione, un attautore, e agli attori (come agli artisti) non si deve creder del tutto: dire che la Letteratura Italiana (con entrambe le maiuscole) sia strettamente legata alla cultura popolare è, grossomodo, una boiata, ma ciò non toglie che il Mistero sia uno spettacolo (e un testo) mirabile e che la sua rilettura di Rosa fresca et aulentissima sia servita a rendere di pubblico dominio questioni letterarie di non poco conto.

La sequenza di spettacoli-lezione non si esaurisce certo col nostro Nobel scenico e i suoi successivi Ruzante, né coi vari Albertazzi, Sermonti e con il recente Tuttodante di Roberto Benigni, vero e proprio caso non solo per questioni di prossimità temporale, ma per impatto sul pubblico di massa. In questo senso, Lavia racconta Amleto rappresenta un ulteriore capitolo di questa linea di performance sceniche a fondere teatro (l'attore di fronte al pubblico) e lezione (la spiegazione di ciò che si dice), in una commistione invero particolare e certo interessante.

Solo in scena, abito scuro neutro, l'attore e regista entra: si presenta come se stesso (del resto il titolo non lascia dubbi al riguardo), saluta il pubblico, a dire vero scarso, e inizia una prolusione sul senso, etimologico e filosofico, della tra-dizione legata ai concetti di tra-duzione e tra-dimento.
La voce, ben amplificata da un impianto audio che indugia con malizia sulle tonalità baritonali, è piana, spesso preoccupata di risultare comprensibile.
Il filo di Lavia si svolge e riavvolge ogniqualvolta l'artista abbia il dubbio di poter non essere capito: in certi momenti sembra quasi parlare a un pubblico di bambini, con toni bonari, rassicuranti. Quando si lancia in paralleli filosofici e contestualizzazioni storiche, pur proponendo concetti ben risaputi da chiunque si sia interessato minimamente negli ultimi trent'anni al corpulento testo shakespeariano, l'artista corre sempre sul filo del rasoio, rischiando ora la banalità ora la banalizzazione, cose diverse tra loro. Banalità è dire ciò che tutti, in un dato ambito, sanno, tipo "Amleto è un testo sull'essere", frase tanto abusata (e banale) da risultar (quasi) falsa. Banalizzazione è quando si tratteggiano temi complicati in due parole, impugnando metaforicamente un'accetta e tagliando la Storia (con la maiuscola) in tronchi perfetti, mescolando filosofia e letteratura, scienza e poesia, tranciando giudizi che sono sempre discutibili, se (im)posti come verità assolute.

Man mano che l'attore s'inoltra nel testo, lo vediamo mescolare narrazione a interpretazione, in un continuo passaggio dal piano discorsivo a quello recitativo. Questo, forse, l'aspetto interessante della performance: assistere al passaggio, ripetuto e continuo, dal fuori al dentro il testo, quasi fossimo di fronte a un regista che spiega le parti a una compagnia di attori. E via quindi, a sfrondare Amleto, giustamente, dalla cristallizzazione, dall'odor di muffa cui lo costringono sin dall'Ottocento, con interpretazioni psicanalitiche e banalità che oramai l'hanno reso inerte, per non dir noioso.
E sottoscriviamo anche l'assunto (di George Bataille, ma Lavia non lo cita) secondo cui "per essere fedeli a un'opera è necessario tra-dirla" (lo stesso valga per un artista, un autore, un filosofo), concetto a più riprese ribadito dal regista-attore e che pure noi abbiamo, con assai meno autorità, ribadito in varie occasioni.

Il fatto, piuttosto, è un altro e non è nemmeno costituito dalle quattr'ore suonate dell'esibizione: troppe, non perché siamo contrari a priori alla lunga durata, ma perché Lavia non riesce a reggere tutto il tempo su un ritmo accettabile, che sappia avvincere il pubblico. Probabilmente, non è necessario parlare per così tanto tempo e spiegare Amleto. O, quantomeno, dovremmo metterci d'accordo: ben venga la filologia, le note a margine, a chiarire i riferimenti osceni e sessuali che innervano le battute del principe di Danimarca e della giovane Ofelia, ben venga lo svecchiare un testo complesso come la tragedia più lunga del Bardo Inglese, ma non è necessario, a questo scopo, parlare, parlare e parlare per quattr'ore in un teatro. Carmelo Bene, uno tra gli Amleti più profondi, ricchi e iconoclasti del Novecento italiano (e di certo il più iconoclasta), risolveva il suo corpo a corpo con Billy (nomignolo col quale indicava William Shakespeare) in un'ora di pura musica, rasentando e oltrepassando in abbondanza le soglie della comunicazione: perché ciò che conta, a teatro come in qualsiasi fruizione artistica, non è la comprensione, la comunicazione, bensì la capacità di sentire ciò che avviene in scena. E a sentire, forse, non s'insegna, neppure con ore e ore di lezione.
Si può affinare il gusto, ma non è detto che la scuola, le lezioni, le letture, siano la strada indicata. Anzi.

Il rischio che Lavia non evita, e in questo ci ha ricordato il ben diverso Benigni dantesco, è quello dell'appiattimento estetico: perché alla fine è tutto un florilegio di "magnifico", "grandissimo", "stupendo", che non rende giustizia all'effettiva grandezza di un testo, come di qualsiasi altra opera d'arte degna di tal nome. Allora, parafrasando, visto che ci siamo, il Bardo (o la Tigre di Cremona...), diciamo che le parole, parole, parole lasciano il tempo che trovano e che, per sprofondare nel mistero di Amleto (che è quello del teatro e della sua dolorosa e ineluttabile prospettiva tragica nei confronti della vita) bisognerebbe ammettere semplicemente che "tutto il resto è silenzio", rappresentarlo (operazione che a cui Lavia si è dedicato in passato) e, eventualmente, dis-farlo, cosa che solo i grandi (Carmelo Bene, Leo De Berardinis e, in certa misura, Eduardo, per citare italiani del recente passato) riescono a fare.

Visto a Pisa, Teatro Verdi, il 16 marzo 2008.

Spettacolo
Lavia legge Amleto
di e con Gabriele Lavia
liberamente tratto da Amleto di William Shakespeare
produzione: Compagna Lavia Anagni

domenica 9 marzo 2008

Non solo racconti: tanto, tanto teatro

(da loschermo.it)
PISTOIA – Al Teatro Bolognini Racconti, solo racconti di Ugo Chiti, con la sua storica compagnia Arca Azzurra Teatro. Spettacolo che fonde narrazione, azione scenica e ottima recitazione con il gusto nero delle storie del drammaturgo chiantigiano, a ulteriore conferma della bravura della compagnia e del suo autore

Il racconto a teatro assume necessariamente un contorno paradossale. Da un lato, esso è una delle principali strategie di seduzione che l’attore ha nei confronti dello spettatore. Non si deve per forza scomodare Fo e i suoi mitici Affabulatori del lago per capire quanto la narrazione sia il grado zero della comunicazione teatrale: un uomo racconta storie di fronte ad altri uomini, questo basta a fare se non il teatro, almeno un teatro. D’altro canto, narrare rappresenta uno scarto rispetto a quello specifico scenico che è la drammatizzazione, ossia la visione di personaggi che, senza commenti esterni, didascalie o altre indicazioni, danno vita a un’azione o, ancor meglio, a un atto. Per questi, e molti altri motivi, ciò che è stato definito teatro di narrazione rappresenta un fenomeno chiave della nostra drammaturgia contemporanea, filone fecondo (e ormai ampiamente sfruttato) che ha permesso a una generazione di nuovi attori e autori (Celestini, Enia, Cosentino, ma anche il più attempato Marco Paolini) di segnalarsi a livello nazionale, svincolandosi dalle pastoie produttive che da decenni paralizzano la scena nostrale.

Racconti, solo racconti, allestimento del 2006 al secondo anno di tournée, rappresenta quindi uno spettacolo doppiamente interessante. In primo luogo, perché si tratta di un lavoro di Ugo Chiti (uno dei nostri maggiori autori teatrali) e della sua storica compagnia Arca Azzurra Teatro, formata da attori che ci hanno da sempre abituati a standard di bravura non solo alti, ma differenti rispetto a ciò che si vede in giro per i palcoscenici.

Chiti, in più, è toscano, terragno, la sua lingua s’avviluppa, si sprofonda nelle incavature sonore d’un vernacolo reinventato, antipodico al fiorentino d’esportazione di certa bolsa comicità da cartolina. La sua lingua si fa carico di tutta la magia d’una Toscana nera, aggrappata a parole che sono gli ultimi sterpi agguantati da chi precipita in un borro: non è vernacolo in senso stretto, non fotografa, non campiona, non registra un linguaggio esistente, bensì lo filtra poeticamente alla ricerca d’una lingua teatrale, che trova compimento nel corpo dell’attore. Per questo, forse, Chiti non è scrittore da pagina o, meglio, il Chiti teatrale (che ha il difetto d’esser pure bello da leggere) necessita ineluttabilmente dell’attore in scena, sia esso il massiccio Salvianti, baritonale e risoluto, o il Frosali in grado di passare da partigiano a parrucchiere omosessuale, con struggente verità, eleganza, senza quella patologia insoffribile della recitazione che è il cliché.

Quattro storie, tutte alla Chiti, e quindi dure, a doppio fondo, in cui il perturbante trasuda sin da principio. Il sesso, il sangue, la violenza della cultura contadina, l’orrore umano dei rastrellamenti nazisti, il tragicomico smarrimento d’uno scemo di guerra a contatto con un coiffeur di mezz’età cui il cuore non smette di battere all’impazzata. Storie umane e disumane al tempo stesso, giacché l’uomo risulta essere un impasto doloroso di pulsioni irresolute e per questo comico e al contempo tragico. C’è una toscanità di fondo anche in questa dimensione che diremmo esistenziale della trama chitiana, uno struggente pessimismo innervato di compassione, quasi a tirar le fila con certo Machiavelli teatrale, quando non con un Boccaccio amaro, due autori polari nella costellazione regionale che Chiti ben conosce e ha variamente attraversato . Non che manchino riferimenti altri nell’opera del chiantigiano: da Shakespeare a Rabelais, da Wilde a Pasolini, senza trascurare certe nervature veriste, ma il discorso rischia di esulare dalle finalità della presente recensione.

Ci sono alcuni aspetti che colpiscono, in questo intenso Racconti, solo racconti: innanzitutto la raffinatezza, in grado di affrontare con tatto ed eleganza temi terribili (su tutti la pedofilia) senza mai sputtanarli in banalità, cosa che avviene di norma ogni giorno sui media d’ogni fatta. Dal punto di vista scenico, è interessante la strategia sfruttata da Chiti per svincolarsi dalle insidie della narrazione: mescidare racconto e dialogo, impiegando una frammentazione del soggetto in cui l’attore passa da narratore a personaggio in slittamenti progressivi che implicano grande maestria recitativa. Nell’ultima storia, poi, si nota un ulteriore preziosismo semantico, giacché il ruolo di protagonista passa, senza traumi né forzature inutilmente virtuosistiche, dal polveroso e irresistibile fool bellico di Alessio Venturini al già citato parrucchiere omosessuale di Frosali, in una dissolvenza incrociata a tradurre comicità e disperata dolcezza, una compassione che è forse la gemma preziosa della dimensione umana di questi racconti. Scene e luci sono misurate, ridotte al minimo, ma appropriate, ben in grado di supportare la recitazione e le storie, vere protagoniste dell’allestimento. Di grande suggestione il telo bianco ondeggiante prima dell’ultima scena, un effetto di bianca marina spumosa (benché il riferimento balneare sia tutto nostro, senza riscontri nella vicenda) che ci ha fatto venire in mente quel poco che abbiamo visto nelle foto di un mitico spettacolo dei Giancattivi, L’isola di ieri (1979), di cui Chiti era non a caso scenografo.

Gli attori poi, non ci stanchiamo di ripeterlo, sono proprio bravi, ma soprattutto differenti dalla media scenica italiana: si sposano perfettamente alla lingua chitiana, alla dimensione scarnificante e dolorosa delle storie. Ottime le attrici, dalla lupa toscana di Giuliana Colzi, alla madre ossuta e lancinata d’una becera e umana Lucia Socci, attrice che non manca mai di stupirci per l’ampio spettro di soluzioni recitative a disposizione.

Il pubblico applaude e per una volta tanto siamo in totale sintonia con esso. Fare teatro è possibile, narrare è possibile, e non è sempre necessario impiegare scene e costumi dispendiosi: bisogna avere qualcosa da dire e la bravura necessaria per esprimerlo.

Visto il 7 marzo 2008, a Pistoia, Teatro Bolognini.

Spettacolo
Racconti, solo racconti
di Ugo Chiti
con Giuliana Colzi, Andrea Costagli, Dimitri Frosali, Massimo Salvianti, Lucia Socci, Alessio Venturini
regia: Ugo Chiti
produzione: Arca Azzurra Teatro
Foto: courtesy Arca Azzurra Teatro