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mercoledì 28 maggio 2008

L'urlo disperato della "Gomorra" di Garrone

Lucca - Gomorra , dopo il successo ottenuto a Cannes, ha ben figurato nelle sale durante il fine settimana appena trascorso. Un film sorprendente, per niente banale, che si segnala per la tragica e disperata lucidità, estetica e politica

È lacerante la Gomorra cinematografica di Matteo Garrone, ispirata al saggio-romanzo di Roberto Saviano, caso letterario tuttora inesaurito. Il testo, che già conta una declinazione teatrale di cui abbiamo già dato conto, è in effetti particolarmente adatto al grande schermo, ben più del palcoscenico, che abbisogna di potenti metafore visive per trovare la via dell’efficacia.
Garrone ha optato per un crudo realismo, equilibrato e consapevole, privo però d’ogni compiacimento, di qualsiasi strizzata d’occhio verso lo spettatore: sarebbe stato facile ispirarsi alla simpatica guapperia dei gangster-movie più recenti (si pensi a Tarantino, a Le iene, Pulp Fiction, Jackie Brown), alla sospensione del giudizio apprezzabile ma un po’ paracula di certa cinematografia recente. E altrettanto facile sarebbe stato imbastire il pistolotto moralista, la lagna un po’ disonesta del film sociale, coi suoi ricatti morali, il tirar per la giacchetta lo spettatore, tentando la strada ingolfata della retorica: i vari muri di gomma, le centinaia di passi son lì a testimoniare come nel nostro cinema sia arduo tenersi a distanza dalla pastoia didascalica con mezzi spesso intellettualmente non proprio cristallini.

Matteo Garrone, invece, è stato in grado di tradurre sullo schermo una realtà in cancrena, delirante e dolorosa, fatta di sangue, miseria, strage e sofferenza, senza perdere né mano né testa. I movimenti di camera concitati (è lo stesso Garrone a imbracciare la cinepresa e seguire gli attori nelle varie storie), la frammentarietà del montaggio, consonante a una realtà spezzata, incomprensibile dall’esterno ma chiara per chi vi sia cresciuto. Cinque storie, cinque tragedie, cinque fili intrecciati, ambientati nel giro di pochi chilometri.
A stupire non è soltanto la pulizia morale della scrittura e della regia, che non giudica, non sdottoreggia, ma presenta e segue, con rigoroso pudore, i personaggi nell’abisso infernale di trame agghiaccianti, in apparenza lontane mille miglia, eppure così vicine, alle comode poltrone dei cinema italiani gremiti di spettatori. Stupiscono gli attori, la qualità della recitazione, e un plauso va attribuito a Teatri Uniti, la compagnia di Toni Servillo, che fornisce gran parte del cast. Grandissima prova per il Don Ciro di Gianfelice Imparato, “contabile” della cosca addetto a pagare i mensili alle famiglie affiliate, così come per Maria Nazionale, che rende con vivida interpretazione una delle tante mogli di camorra. Ottimi Marco Macor e Ciro Petrone, gli sprovveduti guaglioni, suggestionati dal Tony Montana di Scarface , illusi di poter dare battaglia al clan “adulto”: sembrano usciti da un film di Pasolini, con la loro corrotta gioventù bruciata, buttata al macero, nella munnezza, la stessa che viene smantellata dal Franco di Servillo, personaggio chiave nel tradurre uno degli aspetti più importanti del libro e che il film non ignora, ossia l’indissolubile contiguità tra camorra e liberismo, la loro endemica e malata prossimità. Come tacere, peraltro, del connubio stretto e vergognoso tra case di alta moda e produzione a cottimo svolta nei capannoni tra Caserta e Napoli, con tanto di aste per appaltare i prodotti destinati alla haute couture? È il bravissimo Gigio Morra a dare volto e sguardo sghembo all’imprenditore che mantiene Pasquale (Salvatore Cantalupo), in una delle pagine più incredibili del testo, quella del sarto che, per il solo essere a nato in una parte di mondo da cui è impossibile fuggire, vede i suoi vestiti indossati dalle star hollywoodiane a fronte della propria ineluttabile miseria.

La connessione camorra-liberismo è un punto cruciale per Saviano: lo si intuisce costantemente nel suo strano libro, metà saggio metà romanzo intimo, scritto non bene ma intenso, sofferto e ossessionato. La camorra è, tra le mafie, la più versatile, la più adatta a interpretare il capitalismo contemporaneo, rappresentandone la forma più pura e distillata, nella deregulation completa, nell’inseguimento del profitto quale unico feticcio, stella polare e direzione. Il film, dal canto suo, non cela questo aspetto nodale, pur privilegiando la dimensione esistenziale e disperata dei protagonisti, la loro endemica precarietà, totale e disperante.

Parlare di un film come Gomorra, però, non può limitarsi alla sola estetica, al successo, meritato, del Grand Prix conseguito a Cannes, né dell’ipotetico rinascimento del cinema italiano, corroborato anche dall'’atteso Divo del bravo Paolo Sorrentino.
È una strana Italia quella in cui stiamo vivendo.
Un paese che, proprio quando due suoi film ottengono riconoscimenti importanti (non accadeva da trent’anni), vive una delle pagine più nere sotto il profilo culturale, a livello accademico e spettacolare. Un paese spezzato, parcellizzato in segmenti sociali e umani incomunicanti tra loro, ammesso che siano mai stati capaci di farlo: da un lato le ronde, le aggressioni, il fascismo travestito da qualunquismo militante e fiero, dall’altro gli slogan laceri e svuotati, nell’attesa che qualcosa cambi quasi per inerzia.
In mezzo, le mafie, la camorra. Che non è distante da noi, anche se non pare: è veloce, investe, si muove a colpi di clic sulle tastiere dei pc dell’alta finanza, finanzia le grandi opere, sovvenziona la politica, guadagna con le ricostruzioni (persino quella delle Torri Gemelle), s’insinua nei gangli del potere ovunque vi sia da guadagnare e speculare. Non è più solo droga, edilizia, munnezza, quello sporco che il Nord smaltisce altrove turandosi il naso, chiudendo occhi, bocche e orecchie. La camorra è appalti, strade, case, vestiti, armi, negozi. E il Paese non vede, non sente, non sembra soffrire di tutto ciò, se non a Scampia, in quelle terre devastate e farcite di lordura. Chi parla, chi grida aiuto è accusato di remare contro, di non collaborare a promuovere l'immagine e il made in Italy, in una logica perversa e suicida da "rotocalchi e da ente del turismo" (Giorgio Gaber).
Esistono ancora artisti come Garrone, meno male, ma chissà che ruolo può avere un'opera d'arte in tutto questo sfacelo: la situazione è più che disperata e in pochi sembrano accorgersene.
(da www.loschermo.it)

Film
Regia: Matteo Garrone
Anno di produzione: 2008
Durata: 135'
Paese: Italia
Produzione: Fandango, in collaborazione con Rai Cinema, Sky Cinema
soggetto: Roberto Saviano
sceneggiatura: Matteo Garrone, Roberto Saviano, Maurizio Braucci, Ugo Chiti, Gianni Di Gregorio, Massimo Gaudioso
musiche: Massive Attack
montaggio: Marco Spoletini
costumi: Alessandra Cardini
scenografia: Paolo Bonfini
fotografia: Marco Onorato
suono: Maricetta Lombardo, Daniela Cassani, Leslie Shatz