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lunedì 24 novembre 2008

Franca Valeri, o dell'inarrivabile comicità

(da teatro.org)
C'è da chiedersi, sinceramente, in quali condizioni versi la comicità italiana contemporanea.
Forma-contenuto invasiva, insinuante e insinuatasi in ogni interstizio della comunicazione pubblica, dal giornalismo alla politica, ben oltre i vecchi confini spettacolari. Il nostro paese pullula da tempo di comici, trasmissioni a essi dedicate, riflessioni sul fenomeno, delineando una tendenza in atto da almeno tre decenni e che vede gli attori-autori assurgere a pulpiti inediti, finendo per sostituire una classe intellettuale distratta o, ancor peggio, assente.

Eppure, c'è sempre meno da ridere (il che spiegherebbe, in effetti, la necessità endemica di comico) e gli interpreti sono, spesso, sempre più scarsi, i numeri sempre più veloci, corti e banali, attaccati con le unghie ai tormentoni, reiterazioni inerti ma facili per imprimersi nelle memorie di spettatori sempre più di bocca buona.
"I comici mi rendono triste", cantava De Gregori quindici anni or sono, e difficilmente si può dargli torto.

Tocca affidarsi ai mostri sacri, e meno male che godono di sufficiente salute e, soprattutto, amano il proprio lavoro a tal punto da calcare ancora le scene, come nel caso felicissimo di Franca Valeri, al secolo Norsa.
La più grande attrice comica del Novecento, alla soglia degli ottantotto anni, torna a esibirsi con un titolo che più attraente non si può, Carnet de notes 2008, citazione evidente dello spettacolo che la portò al successo al fianco di Alberto Bonucci e Vittorio Caprioli, prima a Parigi, poi in Italia. E già pensare all'importanza di questa attrice minuta nel corpo, ma gigantesca per statura artistica, basterebbe per correre a vederla, tributarle quell'affetto doveroso per un'interprete del suo rango. Tanto per capirci: se cabaret v'è mai stato in Italia, paese culturalmente alieno da un genere di matrice borghese e colta, questo lo si deve ai vecchi Gobbi (Valeri-Caprioli-Bonucci, appunto) e a quel Paolo Poli, frutto cresciuto all'ombra della Lanterna, in quella fucina d'idee che fu la genovese Borsa di Arlecchino di Aldo Trionfo. Neppure il Fo dei Dritti (affiancato da Franco Parenti e Giustino Durano) ha mai accampato la pretesa d'esser cabarettista: "controrivista" definiva le cose proposte da quel trio il cui nome era tributo rispetto ai Gobbi di Franca e compagni.

Cabaret, rivista da camera, comicità pura, affilata come un rasoio intriso nel cinismo necessario per un disincanto che strappa risate a iosa, tutte precise, puntuali, intelligenti. E l'idea di riprendere il vecchio titolo, da parte di Franca Valeri, non è répechage in mancanza d'idee, secondo la logica del best of tanto in auge al giorno d'oggi. Se qualcosa non difetta a questa grande artista della risata è, pure in quest'occasione, il coraggio.

Nessuna autocitazione, nessun cedimento autocompiaciuto: uno spettacolo nuovo, riapplicando vecchie strategie (ma la comicità si basa su meccanismi quasi invariabili), allestito secondo una gustosa logica "diversa", recuperando quella polifonia di forme che è tratto tipico del cabaret d'antan. Franca si presenta in scena, vestita di blu: il fisico è segnato dall'età, ma le movenze non sono affatto claudicanti, tutt'altro. Il passo è sicuro e la coscienza scenica, la gestione del corpo è incredibilmente lucida: ne soffre, specie all'inizio, la voce, a tratti faticata, ma appena "si scalda" si dimenticano gli insulti dell'età a fronte di una padronanza del palco praticamente mai vista.

Ecco quindi una serie di perle, scenette recitate rigorosamente da sola, inscenando le "classiche" telefonate, o dialoghi con interlocutori immaginari. È la "cattiveria" a farla da padrone, una visione disincantata sull'umanità, prescindendo dalle specificazioni di genere: regina tra le attrici comiche italiane, Franca mai è stata "femminista", non perdonando niente, anzi, neppure alle "proprie" donne, dalla Signorina Snob all'indimenticabile Cecioni. Tra un pezzo e l'altro, le esibizioni di tre cantanti (il soprano Eleonora Caliciotti, il tenore Edoardo Milletti, il basso Emanuele Casani) accompagnati dal pianoforte di Ida Iannuzzi e anche questa parte di allestimento guadagna applausi convinti e giustificati: sui palchi d'opera d'oggi capita di sentir di tutto e trovarsi dinanzi a tre giovani voci belle, piene, precise rappresenta un vero e proprio sollievo. Le arie (da Verdi a Puccini, passando per Mozart, Rossini e Donizetti) sono non solo ben eseguite, ma, dote rara al giorno d'oggi, ottimamente interpretate, unendo canto a vocazione attorica. Una perla che impreziosisce ancor di più il piccolo capolavoro teatrale che è questo Carnet de notes contemporaneo.

Poco concede alla nostalgia, a quel senso del tempo che ne segna il fisico, inevitabilmente: Franca Valeri dimostra una sensibilità e una statura scenica inarrivate, persino dalle sue eredi più degne. Fossimo anglofili e credenti in dio, sarebbe da intonare, con affetto, convinzione e speranza, God Save The Queen.
Grazie Franca, non fermarti mai.

Visto a Lamporecchio (PT), Teatro Comunale, il 22 novembre 2008

Spettacolo
Carnet de notes 2008
di e con Franca Valeri
regia: Giuseppe Marini
con Franca Valeri, Eleonora Caliciotti (soprano), Edoardo Milletti (tenore), Emanuele Casani (basso), Ida Iannuzzi (pianoforte)
Produzione: Spoleto 51 - Festival dei due mondi - Società per attori

mercoledì 19 novembre 2008

"Troppo buono", ma non basta per il teatrocanzone

(da teatro.org)
Leggero, pure troppo, questo Troppo buono (in prima nazionale) con Giulio Scarpati, volto noto della nostra televisione (Un medico in famiglia su tutti) e attore apprezzato per il bell’aspetto, la recitazione “naturale” e un certo garbo, moneta quasi fuori corso nell’attuale panorama spettacolare.

In scena lui, giacca e camicia bianca ben evidenziata dal riverbero dei fasci di luce candida, e poco altro: uno sgabello, un leggio e un baule sul fondo; sulla sinistra, un pianoforte a coda dietro il quale suona e canta Bob Messini, partner e spalla di questa minuta riflessione sulla bontà. Lo sfondo è uno schermo dai colori cangianti, sul quale vengono proiettate immagini di repertorio, film d’epoca a sottolineare, talvolta contraddire, quanto detto o cantato dai due interpreti.

Scarpati prende subito di petto il pubblico, infrangendo la “quarta parete” secondo uno schema cabarettistico: “Sono troppo buono”, la sua ammissione, in un principio d’invettiva all’indirizzo delle insidie implicate dalla gentilezza, la disponibilità, l'altruismo.
Aneddotica infantile, riflessione semiseria, iperboliche considerazioni frutto delle penne di Nora Venturini (regista dell’allestimento) e Marco Presta, autore comico di buon spessore (all’opera ne Il ruggito del coniglio, programma mattinale ormai storico nel palinsesto di Rai Radio Due). Un umorismo misurato, non ipocrita, ma sempre attento a non graffiare troppo il pubblico, il quale risponde, gradisce con tepore: l’impressione è di non essere a teatro, ma a una cena con invitati che, non conoscendosi, si misurano col metro della gradevolezza spiritosa.

Al monologo vero e proprio, proposto in prima persona, Scarpati mescola citazioni, canzoni (sottolineiamo Le beatitudini, capitolo ingiustamente minore di Rino Gaetano), poesie e “numeri” chiusi: dalla lettura/reinterpretazione del Cuore deamicisiano al Qualcuno era comunista dell’ormai ultracitato Giorgio Gaber.
Ed è proprio il milanese d’origini istriane a venirci in soccorso per capire cosa non vada in questo Troppo buono: non si tratta dell’ennesima proposizione deboluccia del pezzo sul comunismo (utilizzato anche dalla Melato, per non dir di Giulio Casale, Neri Marcorè e molti altri), che ne fanno, forse giustamente, un “classico” dei nostri tempi, quanto l’ennesimo tradimento dello spirito con cui fare monologhi teatrali, con cui proporre teatrocanzone.
Il testo di Scarpati-Presta-Venturini è debole, garbato ma debole, nella stessa misura in cui l’attore risulta non completamente in grado di sostenere una scena tutta da solo: la recitazione è un po’ scompaginata, Scarpati gesticola troppo, ondeggia sui fianchi, in modo forse inutile, di certo inefficace. Messini tenta la controscena, con facce e interventi, ma pare un po' fuori centro, sorta di spalla non troppo a proprio agio nella parte.
Ne esce un’interpretazione simpatica, ma nulla più, a fronte di un tema che potrebbe certo riservare sorprese e riflessioni profonde.
La musica rappresenta un punto particolarmente debole: Scarpati, benché abbia nel curriculum anche Aggiungi un posto a tavola, non sembra avere la voce del cantante, in grado di assumersi la “responsabilità” musicale dell’allestimento, mentre Messini è un sovrappiù, in perenne cerca d’incerta collocazione.
Il problema è che, a fronte di fondi sempre più scarsi, fare teatrocanzone rappresenta un’ottima strada per andare in scena: poche spese (un attore solo, in genere), musiche registrate o suonate da pochi strumentisti (Giulio Casale nel primo caso, Marcorè e Scarpati nel secondo), una certa facilità d’allestimento. Con una non trascurabile differenza: la professionalità necessaria al teatrocanzone è doppia e non basta un’attitudine scempia, tra attore e cantante: Gaber era un fior di interprete, sia nei monologhi sia nelle canzoni, con una voce indimenticabile, una misura nella gestione del corpo tuttora insuperata. Non sono cose che si possano improvvisare o quasi.

Non per citare sempre il compianto Gaberscik (ma non siamo noi a tirarlo sempre in ballo, quanto chi lo cita in scena), ma già dagli anni Ottanta il cantattore lombardo cantava le insidie, e le profonde ipocrisie, della bontà, mettendo a nudo le contraddizioni di una borghesia, spesso coincidente col “suo” pubblico”, progressista e intimamente convinta d’essere “dalla parte giusta”.
Ebbene, uno spettacolo sulla bontà dovrebbe quantomeno avere il coraggio di graffiare lo spettatore e non lasciarlo con un sorrisino interte sulle labbra, a chiedersi se sia stato proprio il caso, per una sera, d'andare a teatro.
(visto a Pistoia, Teatro Manzoni, il 16 novembre 2008)

Spettacolo
Troppo buono
di Marco Presta, Giulio Scarpati, Nora Venturini

con Giulio Scarpati, Bob Messini
Produzione:
Associazione Teatrale Pistoiese

Si parte...

...eccoci qua.

Non che se ne sentisse poi la mancanza, però, visto che ci siamo, perché no?
Almeno potremo raccogliere qui gli articoli pubblicati in questi ultimi anni di attività anarchica e incessante.

Sempre meglio che essere in balia di editori sfuggenti, direttori astiosetti e chincaglieria varia.
Chi c'è, c'è, e di quello che c'è non manca niente.

Con calma e sangue freddo riporteremo via via recensioni, articoli e interventi, inserendoli con la data, ove sarà possibile, originale della prima pubblicazione e riportando sempre l'eventuale testata (quasi) sempre col rispettivo link.

Buona lettura, a tutti e tre.
Aloha.