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da teatro.org

a fondo pagina la maschera di ricerca per gli spettacoli

giovedì 31 gennaio 2008

La Hedda Gabler di Elena Bucci: la drammatica impossibilità del tragico

(da loschermo.it)
SCANDICCI (Firenze) - La compagnia Le belle bandiere di Elena Bucci e Marco Sgrosso alle prese con il capolavoro ibseniano Hedda Gabler, un allestimento allucinato in cui la nuda scena teatrale smaschera l’ipocrisia salottiera e borghese: quella dell’epoca (1890) e anche la nostra

S’inizia con una visione, confusa e ipnotica: sul fondale scuro di una scena scarna ai limiti dell’inverosimile, un cicaleccio di voci, sovrapposte e polifoniche, accompagna il crescendo di una fredda luce che miscela blu e bianco. Otto presenze, umane o demoniche?, danno vita a un torrente di voci, descrivendo, ma questo lo si percepisce solo dopo che l’orecchio si è abituato al brusio granuloso delle parole, la situazione. Gli attori, agghindati in fogge retro degne dei migliori salotti fine Ottocento, sovrappongono frasi, indicazioni didascaliche del testo ibseniano, e descrivono l’immaginaria scena con dovizia di particolari. In realtà sono seduti su otto sedie, all’estremità opposta della scena rispetto al pubblico. Magnificano le nozze di Hedda Gabler, desiderata e avvenente figlia di un importante generale, con Jørgen Tesman, intellettuale di belle speranze ma dall’incerto presente. I personaggi, di cui nulla ancora sappiamo, parlano, sino a che una signora agghindata con un buffo cappello, zia di Tesman, si reca al centro della scena, in corrispondenza di un quadrato perfetto disegnato sul pavimento: riporta la storia, la racconta, e gli altri, sempre sul fondo, le fanno da coro. Ne emendano le parole, intervengono, chiosano. In attesa dell’epifania della protagonista che, anch’essa seduta, offre soltanto le spalle nude verso gli spettatori.

La scena diviene scacchiera, spazio magico di linee pavimentali cui corrispondono rapporti di forza, distanze, scarti. Al dialogo tra Tesman e la zia, Hedda si volta, inizia a camminare. È bella, sensuale e spaventosa, i passi cadenzati, felini: femme fatale il cui caschetto di capelli corvini riporta la mente un po’ la Uma Thurman di Pulp Fiction. I personaggi si animano, danno vita a movimenti coreografici, concertati, a metà tra una dimensione onirica e movenze da carillon.

La storia è, peraltro, nota: Hedda, sposata malvolentieri con Tesman, è personaggio femminile complicato, moderno in senso assoluto: scaltra e tormentata, aggressiva e fragile, preda di eventi che tenta invano di governare. La (ri)comparsa di un vecchio e più talentuoso "avversario" accademico di Tesman, l’affascinante ed ex alcolizzato Eilert Løvborg (Roberto Marinelli), fa precipitare una situazione apparentemente tranquilla in una spirale di verità inconfessate, odi ipocriti, tranelli e bugie che termina con due morti: quella di Eilert, spinto al (mancato) suicidio dall’aver smarrito l’unico originale del proprio capolavoro letterario ritrovato e celatogli da Hedda e Tesman, e quella della protagonista, sconfitta, impossibilitata ad altra azione se non a quella del sacrificio, del rifiuto estremo di una vita falsa, dettata da convenienze e rapporti di forza coatti, senza scampo.

L’allestimento di Elena Bucci sottolinea compiutamente la violenza sottesa nei rapporti umani, amplificata dalla totale nudità della scena, un grado zero teatrale in cui gli oggetti, la villa (che sarebbe l’ambiente in cui si svolge il dramma), sono evocati ma mai presenti alla vista del pubblico. Tutto traspare, per lo spettatore, e la mente va a quel Dogville di Lars Von Trier, opera filmica in cui il discusso regista danese dava prova di somma padronanza di linguaggio teatrale. Se le linee della scena dettano i rapporti di forza tra personaggi, i dialoghi celano, spiazzano, mentono: sono sempre testa a testa tra due, massimo tre personaggi, quasi che le linee pavimentali segnassero un ring immaginario in cui disputare degli incontri di boxe.
La Hedda di Elena Bucci è, peraltro, magnifica: profonda, bovariana, scaltra e sofferta, eppure mai, mai ammirevole, quasi a voler mantenere l’occhio del pubblico in una dimensione di algida distanza, di ironica critica comportamentale. È a proprio agio anche Marco Sgrosso nei panni marionettistici di Tesman, sospeso tra un bonario ottimismo e il presagio strisciante di una tragedia imminente e irrealizzabile: pur nell’abisso degli accadimenti volti al precipizio, i personaggi mancano il tragico, mancando del tragico. Anche nella rievocazione di potenti immagini shakespeariane (dall’insinuante Lady Macbeth ad Amleto, di cui Hedda è spesso considerata muliebre interpolazione moderna), l’inettitudine del personaggio contemporaneo (chiave classica di letteratura e teatro novecenteschi) impedisce alla storia l’interezza del tragico, la sua assoluta fatalità. Gli uomini si ritraggono, sfuggono, facendo della mediocrità la propria cifra comportamentale. Ed è per questo che Ibsen, anche in un allestimento come quello di Bucci e Sgrosso, apprezzabile per recitazione e per le opzioni scenografiche ma ancora troppo distante per sfondare nelle emozioni dello spettatore, riesce sempre a parlare (anche) della nostra umanità.
Applausi convinti.

Visto a Scandicci, Teatro Studio, il 30 gennaio 2008.

Spettacolo
Hedda Gabler
di Henrik Ibsen
regia: Elena Bucci, con la collaborazione di Marco Sgrosso
progetto ed elaborazione drammaturgica: Elena Bucci e Marco Sgrosso
con Elena Bucci, Maurizio Cardillo, Roberto Marinelli, Salvatore Ragusa, Giovanna Randi, Marco Sgrosso, Elisabetta Vergani
disegno luci: Maurizio Viani costumi: Ursula Patzak
assistente all’allestimento: Francesco Ghiaccio, con l’aiuto di Giulia Torelli
direttore tecnico e datore luci: Loredana Oddone
direttore di scena e macchinista: Giovanni Macis
elettricista fonico: Valentina Bruno
amministrazione: Marco Sgrosso
sarta: Marta Benini
produzione: Compagnia Le Belle Bandiere

mercoledì 23 gennaio 2008

Il Faust(o) illuso di Arturo Cirillo, tra Petito, Goethe e Don Chisciotte

(da loschermo.it)
BUTI (Pisa) – Al Teatro Francesco di Bartolo il Don Fausto di Antonio Petito, rielaborato e allestito con acume da Arturo Cirillo. Tra reminiscenze cervantiane e spunti comici d’effetto, uno spettacolo musicale e intenso, che rende giustizia sia alla grandezza dell’autore originario sia al coraggio di una messinscena che non si sottrae al confronto, parodico ma non semplicistico, col mito

Divertente e per niente facile (nel senso di banale) il Don Fausto che Arturo Cirillo allestisce riservando per sé la sola veste di regista. Testo tra i più raffinati e sinuosi di quel geniaccio che fu Antonio Petito, acrobata scenico ottocentesco affatto incline alla parodia colta: presso il "suo" San Carlino (sito in Largo Castello, Napoli), dirimpetto al ben più quotato Teatro Fondo (l’attuale Mercadante) ove andavano in scena opere e spettacoli "alti", il celebre Pulcinella era uso mettere in scena le formidabili farse ch’egli stesso scriveva, pardon dettava (era praticamente analfabeta), reinterpretando con arguzia corrosiva i modelli aulici proposti dal rispettato spazio concorrente.

Parodia goethiana, il testo di Petito narra la paradossale vicenda di Fausto, appunto, Barilotto, uomo d’una certa età che principia a pazziare causa l’omonimia con il demonico personaggio tragico. Sorta di Don Chisciotte in versione partenopea, egli vede ciò che vuol vedere, recludendosi nell’ambito di una sognante e ridicolosa follia. Nel tentativo di rinsavirlo, all’interessato scopo di concludere la serie di matrimoni già combinati e strettamente connessi alla sanità mentale del personaggio, i familiari, assieme a un Pulcinella in versione femminile, vengono aiutati da una compagnia di guitti: ripercorrere in modo fittizio il mito faustiano sarà la chiave di volta per far rinsavire chi, vanamente, sogna di tornare giovane e innamorato.

Cirillo assume e riadatta la storia, quindi, sondandone profondamente le potenzialità linguistiche, con un lavoro di intenso carotaggio fonetico: Fausto, l’eccellente Salvatore Caruso, finto guappo dalle movenze a tratti marionettistiche e sempre rapide, si esprime con un napoletano sporco e musicale, non sempre intelleggibile, ma d’assoluta presa emotiva. Al suo fianco, il carontesco e fittizio Mefistofele di Rosario Giglio, dalla declamazione robusta e rotonda, colui che, attorucolo di provincia, elabora il piano per curare l’(in)Fausto protagonista. Lo aiutano i comprimari Antonella Romano e Luciano Saltarelli, nonché la sorprendente Pulcinella di Sabrina Scuccimarra, del tutto a proprio agio, soprattutto sotto il profilo mimico. La maschera napoletana è declinata al femminile, demone inferica e oggetto del desiderio che guiderà il viaggio sapienziale del pazzo Barilotto. Una storia simbolica, topos esemplare della modernità, che fa del teatro e dell’illusione veicolo terapeutico e inganno salvifico: si pensi ai giorni nostri, pur nelle copiose differenze, agli stratagemmi di La vita è bella, Train de vie o Good bye, Lenin o, di nuovo con Benigni, all’ordine ritrovato (ma trattavasi di caso inverso) nella riconduzione agli inferi del pinocchiesco Giuditta ne Il piccolo diavolo, scortato dalla "diavolessa" Braschi.

Petito, va detto, è per Cirillo un trampolino: della storia originale, infatti, rimane la cromatura linguistica, nonché la situazione di partenza, giacché la messinscena del teatrante di Castellammare di Stabia sembra invece concentrarsi su un aspetto peculiare della vicenda, quella saldatura profonda e irrisolvibile tra mito (germanico) e cultura popolare mediterranea. È una gioventù negata quella cui aspirerebbe don Fausto, sconfessata dal teatro nel teatro allestito per la sua terapia, a cui lui crede sino alla fine. La musica è volano dell’allestimento, con canzoni intonate con maestria dagli stessi attori, così come certi arredi scenici plurifunzionali e simbolici, quale il gigantesco uovo su cui siede Pulcinella e che si rivela nicchia e riparo iniziale da cui compare Fausto.
Desta forse qualche rammarico il fatto che le ridotte dimensioni del palco del di Bartolo certo penalizzano in parte sia l’effetto visivo, creando un involontario sovraccarico scenico, sia, forse, quello sonoro, con volumi non sempre uniformi.

Di certo, la prospettiva di Cirillo, che forza il tessuto farsesco in favore d’un effetto magico non privo di un’amarezza stranita, rappresenta un’ulteriore evoluzione nella poetica del regista, proficuamente inserita nel solco di un continuo e inesaurito dialogo con la tradizione e che lo segnala quale (ennesimo) valido esponente di un moderno teatro napoletano, così come il grande Enzo Moscato in scena venerdì e sabato a Scandicci.

Visto a Buti, Teatro Francesco di Bartolo, il 22 gennaio 2008.

Spettacolo
Don Fausto
di Antonio Petito
regia: Arturo Cirillo
con: Salvatore Caruso, Rosario Giglio, Luciano Saltarelli, Antonella Romano, Sabrina Scuccimarra
scene: Massimo Bellando Randone
costumi: Gianluca Falaschi
musiche: Francesco De Melis
luci: Andrea Narese
produzione: Nuovo Teatro Nuovo Stabile di Innovazione e Vesuvioteatro

giovedì 17 gennaio 2008

Ovadia, un Novecento da esiliato al fianco di Brecht, Benjamin e Kafka

(da loschermo.it)
PRATO - Al Metastasio, Le storie del Signor Keuner, pastiche multimediale in cui il celebre attore s’interroga sulla realtà contemporanea, tra lazzi grotteschi, canzoni espressioniste e mafiosi russi, in continuo dialogo con teatro, letteratura e saggistica

Un palco senza sipario, in cui campeggia una scena tripartita in senso verticale dal pallido color iuta. Sulla sinistra, un manichino-mummia, inerte; sulla destra un vecchio decrepito siede a un tavolino di fronte a una macchina da scrivere. Vicino a quest’ultima, una rosa rossa. A circa due metri dal suolo, una bizzarra costruzione che attraversa tutto l’arco scenico, alla stregua di un binario su cui far scorrere carrelli e oggetti, futuro doppio del palco sottostante. Oltre questo insieme di sbarre, due schermi, ai lati, in cui iniziano a scorrere delle didascalie, i titoli di testa dell’allestimento, alla stregua di un film o, meglio, di un allestimento brechtiano.

Ovadia propone una lettura plurale di quello che fu un diario intimo di Bertolt Brecht, prima esule negli Stati Uniti per fuggire la persecuzione nazista, poi, beffardamente, esule in patria, di ritorno a Berlino, nell'amara constatazione che quel comunismo non corrispondeva affatto all’ideale tanto sperato, per cui egli stesso aveva lottato e scritto.
Tra questi due differenti esili, di natura opposta ma dall’analogo scacco morale, Moni Ovadia inserisce un’ipotesi di riflessione che usa l’atmosfera grottesca dell’espressionismo tedesco come trampolino di lancio per riferirsi all’oggi, al mondo contemporaneo. Senza, ed è un bene, la fregola dell’attualità banalizzata, piuttosto con l’emergenza di pensare e (ri)pensare un mondo complicato come l’attuale.

È forse in questo senso che la mise en scéne s’ispira evidentemente alla parcellizzazione dei segni, alla contemporaneità degli stimoli sensoriali: infatti, mentre gli schermi propongono stralci delle Storie del titolo lette da personaggi del nostro tempo (tra cui Alessandro Bergonzoni, Massimo Cacciari, Gherardo Colombo, Gino Strada, Milva e Oliviero Diliberto), Lee Colbert, cantante espressionista, si esibisce in perfetto stile da Kabarett teutonico sul palco a mezz’aria, mentre la Moni Ovadia Stage Orchestra, i cui membri sono grottescamente agghindati in muliebri costumi rossi con tanto di seni finti, suona e gli attori danzano, declamano, parlano. Un caos che replica quello della comunicazione, della molteplicità degli stimoli, dell’impossibilità d'uno sguardo che riesca a contenere tutto, a dominare la scena.
È necessario scegliere, valutare, giudicare.

In questo cortocircuito di parole, suoni e immagini, Ovadia, completo scuro, filosofeggia di teatralità brechtiana, citando ampiamente gli scritti del Maestro sulla recitazione straniata, sul rapporto attore-personaggio, sull’essenza intima del teatro epico. Al fianco, un irresistibile Ivo Bucciarelli nei panni del vetusto custode di un museo d’arte socialista, Roman Siwulak è un attore orfano del grande Tadeusz Kantor, ormai ridottosi a pantomima di se stesso, mentre Maxim Shamkov è un pingue mafioso russo appassionato d’arte, dalle metamorfosi repentine e risibili, che lo portano a entrare in scena vestito da ballerino alle prese con improbabili e buffi jeté.

In un periodo confuso, in cui l’arte non basta più a confrontarsi col mondo, è necessario che a essa s’accompagnino saggistica e letteratura: seguendo tale suggestione godardiana, Ovadia e Roberto Andò (al pari dell’attore, coautore dello spettacolo) tessono una fitta trama di relazioni tra l’opera brechtiana, le sue suggestioni, i precetti teatrali del Dramaturg, e brani di Franz Kafka, fratello nemico dell’autore tedesco. All’esilio, politico e umano, dell’uno, corrisponde l’esilio come condizione permanente ed esistenziale dell’altro, nella sua comica e tragica dimensione di-sperata.
Trait d’union tra i due artisti, sia in vita sia nell’allestimento, le teorie di Walter Benjamin, filosofo, saggista, traduttore, pensatore raffinato e profondo, morto suicida sul confine francospagnolo durante una fuga dalla persecuzione. Benjamin, ebreo, comunista, studioso di Baudelaire, Nietzsche, della mistica ebraica, è stato uno dei più grandi intellettuali del Novecento per ciò che concerne la riflessione letteraria e artistica (da leggere la raccolta Angelus Novus, il cui titolo è tratto da un dipinto di Paul Klee) rappresenta nello spettacolo una sorta di chiave di volta, di personaggio (evocato con citazioni, riferimenti e addirittura la narrazione della morte da parte del curatore intellettualoide interpretato da Moni Ovadia) necessario e fondamentale per carpire il senso dell’allestimento, che, va detto, non è suggerito, propugnato dagli autori.

A fronte di escursioni finali che toccano anche l’attualità, la fatale e innegabile collusione tra capitalismo e guerra, lo spettacolo, non mondo da qualche perdonabile lungaggine, riesce nel suo intento, ossia quello di porre innanzitutto un quesito allo spettatore che, a sua volta, è costretto a collaborare con la scena per giungere a una riflessione. Non si deve credere, peraltro, che l’allestimento, così privo di progressione narrativa (di trama), frammentario nello stile epico o cabarettistico (chiaro riferimento alla temperie culturale dell’autore evocato), sia poi noioso, ché numerosi sono i momenti di alleggerimento, in cui l’orchestra en travesti recita la parte del leone.
In questo senso, l’operazione di Ovadia è integralmente brechtiana, impreziosita dal fatto d’esser frutto di una rielaborazione, giacché Le storie del signor Keuner non furono pensate per la scena, riconducendo a quell’assunto paradossale, condiviso a suo tempo anche da Benjamin, per cui, sovente, per essere fedeli a un artista, o a un pensatore, è necessario tradirlo, pur di mantenere in vita lo spirito del suo lavoro.
Il pubblico, divertito e per niente stanco, ha applaudito e dimostrato di aver apprezzato.

Visto a Prato, Teatro Metastasio, il 16 gennaio 2008.

Spettacolo
Le storie del signor Keuner
di Bertolt Brecht
traduzione Roberto Menin
uno spettacolo di Roberto Andò e Moni Ovadia
con Moni Ovadia, Lee Colbert, Roman Siwulak, Maxim Shamkov, Ivo Bucciarelli e con la Moni Ovadia Stage Orchestra (Luca Garlaschelli - contrabbasso; Janos Hasur - violino; Massimo Marcer - tromba; Albert Mihai - fisarmonica; Vincenzo Pasquariello - pianoforte; Paolo Rocca - clarinetto; Marian Ŝerban - cymbalon; Emilio Vallorani - flauti/percussioni)
portavoce in video del signor Keuner: Alessandro Bergonzoni, Massimo Cacciari, Gherardo Colombo, Philippe Daverio, Daniele Del Giudice, Oliviero Diliberto, Dario Fo, Arnoldo Foà, Don Gallo, Claudio Magris, Michele Michelino, Milva, Eva Robins, Sergio Romano, Sabina Rivetti, Roberto Scarpinato, Gino Strada, Annamaria Testa
scene: Gianni Carluccio
costumi: Elisa Savi
luci: Gigi Saccomandi
repertorio video: Luca Scarzella
suono: Mauro Pagiaro
arrangiamenti: Mario Arcari, Emilio Vallorani, Vincenzo Pasquariello, Massimo Marcer
direzione musicale: Emilio Vallorani
realizzazione video: Elisa Savi
paesaggi sonori: Marco Olivieri
regista assistente: Gabriele Tesauri
assistente alla regia: Tiziana Di Masi
assistente ai costumi: Tommaso Lagattolla
produzione: Nuova Scena - Arena del Sole - Teatro Stabile di Bologna / ERT - Emilia Romagna Teatro Fondazionein collaborazione con il Mittelfest 2006

lunedì 14 gennaio 2008

Ascanio Celestini, o del dilemma della lotta di classe

(da loschermo.it)
CASCINA (Pisa) - Ieri sera (14 gennaio) alla Città del Teatro è andato in scena l’ultimo spettacolo dell’ attore romano , attuale punta di diamante del teatro di narrazione, filone che ha caratterizzato la scena italiana contemporanea degli ultimi anni. Storie di precariato, canzoni e spunti comici che non fugano alcune (sacrosante?) perplessità.

È già in visibilio la sala, il pubblico freme, rumoreggia, ben prima che lo spettacolo abbia inizio: si percepisce che Ascanio Celestini, classe 1972, tuttora giovane (francamente non si capisce quando, in Italia, si raggiunga l’età adulta), è entrato di diritto nell’immaginario collettivo del pubblico di sinistra, tappando probabilmente una delle innumerevoli falle aperte da una politica sempre più incapace non solo di dare risposte, ma persino di fornire pallide e remote speranze.

Dopo aver variamente occhieggiato nel foyer per poi spuntar qua e là dalle quinte d’una scena senza sipario, ecco l’attore, camicia rossa e capello scarmigliato ad hoc, compiere l’agognato ingresso, in compagnia di tre musicisti: battimani convinto, ai limiti dell’ovazione. Non v’è dubbio, il consenso è già guadagnato e, da questo punto di vista, sembra d’assistere a un giallo di cui hanno già provveduto a raccontarci la fine.

Appunti per un film sulla lotta di classe è uno spettacolo particolare, work in progress cui l’attore sta lavorando da almeno due anni e che aveva trovato una prima forma nel giugno 2006, a Milano, in occasione del centenario della CGIL. La narrazione teatrale che vede in Celestini uno dei suoi migliori esponenti (e il più acclamato della propria generazione) abbandona i rivoli della (micro)storia per sporcarsi le mani col presente, con la realtà attuale. L’attore avverte il pubblico, direttamente, della natura in fieri del lavoro, affermando che proprio di appunti si tratta: una trentina di storie d’ordinaria follia precariale, di sfacelo sociale e umano, da cui, a ogni replica, l’artista pesca quindici pezzi, tra racconti e canzoni, diversificando costantemente le numerose performance. Le storie trattano in modo ora ironico, ora surreale, la (vera) vicenda occorsa negli ultimi due anni ai lavoratori romani della Ericsson, in una sacrosanta battaglia per i propri diritti (per esempio, il fatto che la precarietà contrattuale dovrebbe, di logica, essere profumatamente pagata e non costituire, come avviene da noi, l’anticamera della miseria). Battaglia peraltro fiaccata con rigorosa puntualità da un articolo della Finanziaria 2007, quella votata, tanto per intenderci, dal centro-sinistra.

L’argomento offrirebbe il destro per uno spettacolo satirico, o per tirate cariche d’indignazione, ma Celestini, per fortuna, non è Grillo e se ne rende conto. La scelta è quindi quella di raccontare, in prima persona, dando vita a una serie di personaggi coinvolti nella storia, protagonisti, loro malgrado, d’una lotta che è uguale a se stessa in tutta Italia: giovani malpagati, sfruttati, costretti a campare con stipendi da fame, spesso a fronte di un’istruzione più che decente, con tanto di laurea e (abbandonate) aspettative professionali. La cifra celestiniana sta nella sua particolare lingua, verbale e scenica: quell’italiano lordato di romanesco, e tuttavia delicato, d’una sua eleganza, anche quando cede alla tentazione della battutaccia, cavalcando la coprolalia per raggiungere invero una visionarietà satirica di buon effetto. I personaggi, ma potremmo dire il personaggio, di Celestini è declinazione capitolina e contemporanea del fool , presenza fanciullesca in grado di raccontare il mondo con stupefatto candore, mai privandosi, però, della morsicata (anzi, mozzicata) feroce, resa più efficace dal contrasto con i toni naïf. La posizione, a sedere su un’ordinaria sedia di legno, è di leggero scarto, a minare l’equilibrio, col busto proteso in avanti, le mani spesso a indugiare su gambe e ginocchia, corrispettivo gestuale della s-centratura linguistica ed esistenziale.

A commento delle storie paradossali e innamorate raccontate dall’attore, le musiche di Roberto Boarini (violoncello), Gianluca Casadei (fisarmonica) e Matteo D’Agostino (chitarra), sospese tra reminiscenze popolaresche e melodie che pescano da sonorità est-europee attingendo da ritmiche d’impianto smaccatamente latino. Le canzoni intervallano il racconto: parlano d’amore e di lotta, con testi a dire il vero interessanti, in cui le parole risultano calibrate, puntuali, anche quando implicano una pronuncia serrata, ai limiti della mitragliata di sillabe. Il canto è naturale: Celestini non è vocalist di professione, e si sente. Ciononostante l’interpretazione riesce a comunicare, persino a toccare, al di là della mera (e spesso inerte) sintassi vocale. A racconto segue canzone, cui segue un altro racconto, in una spirale che potrebbe estendersi all’infinito. Il fool romano tesse con dimestichezza i fili narrativi, reiterando battute, ripescando immagini, sfruttando a fondo la retorica d’un umorismo che non fatica ad avvincere il pubblico. Due ore di spettacolo sono forse eccessive: alla fine la stanchezza si fa sentire, in sala più che in scena, dal momento che Celestini al commiato pare fresco come una rosa e in grado di proseguire ad libitum. Gli applausi sono convinti, scroscianti, maggioritari, anche di fronte al discorso finale, evidentemente a braccio, confusamente politico: fuori di spartito, toccando il tema sacrosanto dei lavoratori dello spettacolo, l’attore sembra arrancare, senza essere convincente.

In ogni caso, a nostro avviso, non qui sta il punto. Recensire uno spettacolo che ottiene un generale consenso è sempre difficile, soprattutto se il giudizio maturato non è affatto positivo. A complicare le cose è poi sopraggiunta un’interessante querelle sollevata a margine dell’ultimo caso-Luttazzi: non parliamo di tv e di censura, ma d’onestà intellettuale e di recensioni. Nel dibattito legato ai recenti fatti che l’hanno coinvolto, Daniele Luttazzi ha espresso posizioni interessanti circa metodi e finalità della critica "artistica" in genere, citando persino John Updike, celebre romanziere e saggista statunitense, il quale sostiene che una recensione dovrebbe rispettare i tre seguenti principi:

1. Cerca di capire cosa l'autore desidera fare, invece di accusarlo di non aver raggiunto ciò che non si è prefisso.
2. Riporta brani dell'opera in modo che il lettore della critica possa formarsene una impressione personale.
3. Se l'opera è giudicata insufficente, cita un esempio riuscito dello stesso tipo, da lavori dell'autore o di altri. Cerca di capire l'errore. Sei sicuro che sia dell'autore e non il tuo?

Un’altra affermazione, stavolta di Luttazzi in prima persona, ci ha particolarmente colpito: "Quando un critico dice che sbagliano sia l'artista che il pubblico, sbaglia il critico".
Ebbene, per quello che riguarda i precetti di Updike, non c’è molto da dire, se non che essi appaiono del tutto condivisibili. Insidioso è invece il corollario del (miglior) satirico italiano, poiché rischia d’impedire un giudizio analitico negativo da qualsiasi fenomeno che raccolga consensi unanimi e generalizzati. Come se un critico, di fronte a un concerto di Gigi D’Alessio, non potesse affermare con tranquillità che lo spettacolo offerto è mediocre (ovviamente argomentando con dovizia la propria posizione) per il semplice fatto che l’evento corrisponde esattamente sia alle intenzioni dell’artista sia a quelle del pubblico sopraggiunto.

Tornando a Celestini, si deve ammettere che, con tutta probabilità, l’autore è riuscito in pieno nel proprio intento, realizzando uno spettacolo soddisfacente sia per sé sia per la sala che l’ha applaudito in gran copia. Nondimeno c’è qualcosa che non convince, che proprio non riesce a placare un disagio pulsante, palpabile, che ci obbliga ad affermare che no, Appunti non è un gran spettacolo, no, non abbiamo assistito né a una gran performance né a un evento significativo sotto il profilo politico, in barba al battimani e alla consolata soddisfazione dei convenuti.

Il fatto è che l’arte, e il teatro è o dovrebbe essere arte, non funziona come qualsiasi altro prodotto. L’equazione acquisto-soddisfazione non è analoga a quella sottesa nel comprare una macchina, della carne, una bottiglia di vino, un televisore o un maglione. L’arte, e il teatro, hanno bisogno d’essere alimentate dalla sorpresa , dall’ inatteso , categorie irrinunciabili per tutto ciò che sia legato alla creatività. Un artista, e questo lo diceva Brecht, un tale che di teatro politico qualcosa intendeva, dovrebbe essere sempre un passo avanti alla massa : non troppo distante, pena l’incomprensibilità, né al fianco di essa, pena la prevedibilità, cancro fatale per l’efficacia di qualsiasi enunciato artistico. Se vogliamo poi parlare di teatro politico, di fronte a uno spettacolo che riporta in titolo la categoria marxista della lotta di classe , ci pare quantomeno il minimo vagliarne la qualità e dal punto di vista estetico e da quello legato alla praxis.

In tal senso, la convinzione intima è che un’opera d’arte che sia tale dovrebbe, come gli oracoli greci, fornire una domanda e non una risposta o, quantomeno, dovrebbe proporre una domanda ben più grande e irrisolvibile della risposta avanzata dall’autore. Perché la domanda, quando ben posta, è sempre superiore a qualsiasi soluzione, in quanto contiene sia lo scioglimento dell'enigma sia tutte le altre possibili risposte implicate dal quesito. Si pensi ad Arancia Meccanica : Kubrick ha certo una posizione netta circa il senso della violenza, ma quello che conta maggiormente nella pellicola è la potenza (e la complessità) insanabile della questione posta allo spettatore. Che non è coccolato, blandito e, implicitamente, sottovalutato, ricattato alla stregua di un infante da istruire, nutrire o consolare, come accade puntualmente in certi spettacoli che si vorrebbero politici.

Un’opera d’arte, soprattutto se vuol esser politica, dovrebbe stimolare la riflessione, non imboccarla. Dovrebbe piuttosto disturbare, indignare, disgustare il pubblico, e non lisciargli il pelo sprofondando nella pastoia insoffribile della consolazione, della bella coscienza sciacquata, dell’illusione intima d’aver assistito a qualcosa che possa aver (peccato imperdonabile) reso migliore lo spettatore. Il teatro dovrebbe essere morbo, tumore, malattia che mina le certezze, che mostra una verità dolorosa e indicibile, qualcosa che metta a repentaglio prima d’ogni altra cosa la placida (e borghese) certezza d’essere giusti, appropriati, in armonia con il mondo circostante. La denuncia della precarietà (tema di per sé urgente e rispettabile, sia chiaro), che si risolve nel plauso senza critica, nella risposta senza domande è, prima di tutto, impasse politica, ancor più colpevole perché tale vorrebbe essere l’allestimento. Per questo Celestini non ci ha convinto, per niente, a fronte del successo, a fronte del consenso, a fronte dell’unanimità.

Sempre più spesso ci ritroviamo a rimpiangere Giorgio Gaber, in particolare quando ci spiazzava, quando ci disturbava, anche e soprattutto quando aveva la grazia infinita di sbagliare: quello era, a suo modo, teatro politico, al di là della lotta di classe (in chiave marxista, peraltro, lo spettacolo di Celestini è quanto di più confusamente anarcoide si possa pensare, così privo d’analisi rigorosa e di prassi, come del resto l’attuale sedicente e buffa sinistra-sinistra), era porre, prima di tutto, delle domande.

Torniamo a casa, John Lennon alla radio grida disperatamente "A working class hero is something to be", in una canzone che non smette di sfuggirci, di non farsi catturare del tutto, conservando irriducibili residui di senso, che ci obbliga a riascoltarla senza mai aver la sensazione di poterla afferrare. Questa, pensiamo, è un’opera d’arte politica. Non sappiamo se la presente stroncatura rispetti lo stimolante crisma luttazziano, possiamo solo dire che è sentita, sofferta e più che convinta. Al lettore giudicare. Brecht non ce ne voglia se, anche stavolta dopotutto, ci siamo seduti dalla parte del torto.

Visto il 13 gennaio 2008, Città del Teatro, Cascina (Pi).

Spettacolo
Appunti per un film sulla lotta di classe
Non è uno spettacolo ma è proprio quello che dice il titolo
con Ascanio Celestini
e i musicisti Roberto Boarini, violoncello; Gianluca Casadei, fisarmonica; Matteo D’Agostino, chitarra
suono e luci di Andrea Pesce
produzione: Fabbrica, in collaborazione con Teatro Stabile dell’Umbria, Fandango e Associazione Centenario Cgil

domenica 13 gennaio 2008

Alice nel meraviglioso paese del teatro

(da loschermo.it)
FIRENZE - Ta Fantastika Black Light Theatre di Praga ha presentato presso il fiorentino Teatro di Rifredi lo spettacolo Aspects of Alice, suo cavallo di battaglia. Tra suggestioni carroliane, mirabilie sceniche e fantasticheria pop, la vicenda di una fanciulla destinata a crescere

Praga e la Repubblica Ceca rappresentano un polo importante per il teatro contemporaneo, sin dal periodo a cavallo tra i due conflitti mondiali, quando la capitale boema contava gli studi più avanzati in materia di semiotica teatrale. Di pari passo andava la pratica scenica, con importanti fenomeni artistici spesso all’avanguardia, soprattutto dal punto di vista gestuale, non disgiunti da un certo gusto comico e absurdiste. Una delle principali caratteristiche della temperie culturale praghese era la capacità di analizzare, studiare e reinterpretare idee apprese dall’estero, denotando una vocazione alla comunicazione verso l’esterno.
È in questa particolare atmosfera osmotica che vede la nascita, a metà anni Sessanta, del Black Light Theatre, tecnica rappresentativa basata sull’illusione ottica e in grado di sfruttare antiche suggestioni del teatro cinese, passate poi in Giappone nel corso del XVIII secolo e giunte in Europa, nella fattispecie in Francia, attraverso il cinema di George Méliès. Si tratta di un teatro in cui la scena è totalmente nera, sorta di scatola che sfrutta l’oscurità e il principio che un corpo vestito di nero risulta indistinguibile dal fondale del medesimo (non)colore: ciò permette agli "attori" di essere invisibili, al contrario degli oggetti da essi portati in scena e puntualmente illuminati da una precisa direzione di fasci di luce. Il risultato è una mirabilia illusionistica, in cui l’occhio dello spettatore vede oggetti realmente librati in aria, volteggianti nello spazio, a creare coreografie coloratissime e fantasiose.

Peter Kràtochvil, nativo di Brno, è il fondatore di Ta Fantastika, una delle maggiori compagnie praghesi ad applicare la tecnica del Teatro Nero, oltre ad averla resa celebre in tutto il mondo, arrivando a toccare oltre 30 differenti nazioni in oltre 25 anni di attività.
In questo senso, la presenza in Toscana di Ta Fantastika, peraltro con il cavallo di battaglia Aspects of Alice, rappresenta un autentico evento, non foss’altro perché trattasi di una tipologia teatrale diversa, distante dalla pastoia psicologizzante della consueta prosa nostrana.
Il pubblico del Teatro di Rifredi è infatti numeroso, accalcato all’ingresso: numerosi i bambini, incuriositi dal riferimento al capolavoro di Lewis Carroll, altrettanto numerosi gli adulti.

Lo spettacolo inizia con una scena lugubre, sorta di prologo della storia: un grido, delle ombre che sembrano compiere un delitto, in sottofondo una colonna sonora in sintonia con quanto mostrato (o, meglio, occultato) in scena. Dietro una tenda a strisce ecco apparire una figura maschile, in frac scuro. Dopo questi, una fanciulla, Alice. L’uomo la introduce in una sorta di mondo onirico e lo spettacolo vero e proprio inizia: il corpo della ragazza si libra nell’aria, inizia a roteare, disegnando mirabili figure nello spazio della scena. Intorno, un mondo di oggetti colorati inizia a danzare, in una coreografia di grande impatto visivo. La musica segue le differenti scene: Alice si moltiplica (più attrici, somiglianti tra loro, contribuiscono all’effetto) dando vita a scene gustose, tutte contraddistinte da una delicatezza di fondo, un gusto leggero, non senza punte di misurato umorismo.

Di particolare suggestione la scena in cui la fanciulla gioca con delle piccole fiamme che finiscono per circondarla e danzarle intorno, tanto che il pubblico applaude apertamente. Allo stesso modo, dobbiamo sottolineare l’efficacia della sequenza in cui le mani della ragazza sono "doppiate" da altre dieci mani guantate di bianco, apparentemente libere e prive di prolungamenti umani. Disposte in verticale, ripetono all’unisono le movenze di Alice: l’effetto è potente, tanto da chiedersi se stiamo assistendo a uno spettacolo teatrale o a una sequenza filmica.
Cala uno schermo trasparente a mo’ di sipario ed ecco che la protagonista interagisce con le proiezioni, in una serie di sequenze che strizzano l’occhio al cinema d’animazione. Di seguito, si vede una serie di scenografie rappresentanti colorati disegni in stile pop raffiguranti monumenti e luoghi di Praga: i suppellettili si muovono, quasi fossero personaggi, andando a creare un’onirica ambientazione cittadina con cui Alice rinnova l’interazione giocosa. Il momento più sorprendente è forse l’apparizione dei due grandi e mostruosi fantasmi, alti oltre tre metri e in grado di avanzare sino al proscenio, conducendo una svolazzante Alice quasi in braccio al pubblico. C’è da chiedersi come gli attori (e soprattutto quanti) riescano a gestire un movimento del genere, riuscendo soprattutto a far sembrare reale ciò tale non può essere.

Lo spettacolo presenta una pausa, per poi riprendere: la seconda parte, da un lato, replica le soluzioni coreografiche della prima (proiezioni, illusioni ottiche, candido umorismo), dall’altro, pare invece presentare uno sviluppo più forte dal punto di vista della storia, pur non abbandonando mai la dolciastra tonalità naïf dell’impianto generale. Le proiezioni diventano espressamente di carattere biblico, con scene dalla Creazione e dal furto della mela per mano di Eva: Alice, che da dietro il velo compare nuda, scopre il sesso, affronta una crescita. Quasi a sviluppare la storia da dove Carroll aveva lasciato la fanciulla, Kratochvil segue invece la ragazza nel completamento della formazione, del passaggio dalla fanciullezza all’età adulta, sinché il finale non allude alla nascita di una nuova vita. La circolarità del tempo, inarrestabile e perenne, è affermata come motore intimo della vita: Alice è ormai una donna, non più una bambina. Lo spettacolo non perde l’elegante naturalezza, i nudi sono presentati con sorprendente dolcezza, senza però negare un erotismo palpabile. Questa forse la nota più interessante, a fronte di un allestimento che, dati i mezzi e la bravura degli artefici, potrebbe pure osare di più, in ogni senso.

Gli applausi del pubblico sono convinti e, tutto sommato, giusti. Ci si alza con una strana dolcezza nel cuore, certi di aver visto, comunque sia, uno spettacolo da ricordare.

Visto a Firenze, Teatro di Rifredi, il 12 gennaio 2008.

Spettacolo
Aspects of Alice
di Petr Kratochvíl
liberamente ispirato ad Alice in Wonderland di Lewis Carroll
scene e costumi: Emma Srncová
musica: Petr Hapka
suono e luci: Stanislav Grepl
interpreti: Kateřina Navrátilová e Lenka Čermáková (Alenka/Alice), Matěj Kopecký, Vladimír Gut e Marcel Jakubovie (Mag), Simona Cendelínová e Tereza Chudobová (Clown femmine), Pavel Hejný e Vladimír Gut (Clown maschi)
regia: Petr Kratochvíl
produzione: Ta Fantastika Black Light Theatre Praha

Foto courtesy http://www.tafantastika.cz/en/

domenica 6 gennaio 2008

Riflessioni sul teatro, tra dolciumi e Cyrano

(da loschermo.it)
PRATO - Al Fabbricone il divertente Pasticceri di Roberto Abbiati e Leonardo Capuano. Tra dolci (veri) preparati in scena e intoppi (falsi) della recitazione, la buffa e agrodolce storia di due fratelli alle prese coi ricordi passati e un amore presente, il tutto condito da citazioni cyranesche e tanta, tanta musica

È una dolce sorpresa, questo Pasticceri, debuttato due stagioni fa in occasione del festival Inequilibrio di Castiglioncello (Li) e che, nei giorni precedenti, è andato in scena presso il Fabbricone di Prato. In un laboratorio di dolciumi, contraddistinto dalle cromature metalliche e da due lunghi tavoli disposti simmetricamente a dividere in due lo spazio del palco, due fratelli, Roberto e Leonardo, s'industriano nella produzione artigianale di dolci manicaretti, al ritmo d'una trionfante Sweet Home Alabama che segna l'incipit dello spettacolo. I due, vestiti di bianco, ancheggiano, ammiccano al pubblico con guitta sicumera: la coreografia li vede cucinare a ritmo, scambiar gli arnesi, danzare sul tavolo, per l'occasione ulteriore e parodico palcoscenico.

Leonardo (Capuano) è, solo in apparenza, forte, dominante: parla "sciolto", gli rinfaccia invidioso il balbuziente Roberto. A tratti guappo, il primo fa pesare al fratello la maggior esperienza professionale. In realtà è fragile, perennemente al limite d'una crisi di nervi, sensibile com'è all'affetto e, ancor più, alle ambasce amorose nei confronti d'una cliente irresistibile di fronte alla quale non combina che disastri. Dal canto suo, Roberto è succubo e baffuto, vittima della prepotenza fraterna, ma assai più comico e furbo: inchecca, rasenta l'afasia, celando una debolezza in tutto complementare all'esteriore baldanza dell'altro. Basta infatti uno sguardo, una parola sola, per capovolgere l'equilibrio a rovesciare i rapporti di forza, riducendo Leonardo in lacrime a implorare l'affetto altrui. Coppia comica dal sorprendente dinamismo, dunque, poco incline al tormentone o ad altri mezzucci che, in ambito ridicolo, sono moneta corrente della scena contemporanea. Con la faccia un po' Frank Zappa (di cui s'intravede un "santino" appeso tra i suppellettili e gli arnesi da cucina) e un po' Jean Rochefort (ma, senz'offesa, ci ricorda un po' anche il "baffo" dei Ricchi e Poveri, al secolo Franco Gatti), Abbiati avrebbe buon gioco a indugiare sull'inciampo, fisico e psicologico: al contrario, dosa con pudore maschera e personaggio, senza insistere o cercare la risata gratuita.

Alle spalle dei due, un orologio fermo alle quattro antimeridiane, l'ora più intensa per i produttori di dolciumi. In realtà, gli a parte ai margini della scena (luce chiara dall'alto a isolare gli attori) ci informano che quella è l'ora della morte del padre, evento luttuoso rievocato a fatica dai loro scontri verbali. L'atmosfera comica si vena di inquietudine, i due personaggi, quasi maschere, quasi clown, acquisiscono uno spessore che non è psicologico in senso stretto, ma teatrale. Nel susseguirsi di torte realmente prodotte in scena (l'olfatto è senso non poco stimolato da questo spettacolo) e di canzoni buone per ulteriori balletti Mel Brooks style, il gioco si complica, spirale che s'insinua nel profondo del meccanismo rappresentativo: la storia amorosa prevede infatti le proiezioni di dialoghi tra Leonardo e la "sua" Rossana, col nasuto Roberto a fungere da Cyrano. Le parole sono quelle di Edmond Rostand, la situazione non dissimile, dal momento che ben presto si capisce che pure il cuore di quest'altro è prigioniero della fascinosa (e vanamente attesa) cliente. Ma non è forse il capolavoro romantico a costituire l'ossatura profonda dello spettacolo, quanto la vena absurdista: due personaggi, contraddittori, clowneschi, in attesa di qualcosa che non arriverà e che nel frattempo, parlano, si confrontano, si assalgono, si abbracciano. Se, nel mezzo, non vi fossero in sequenza cioccolata fusa, pasta sfoglia, pan di Spagna, meringhe, torta russa, biscotto alle mandorle e torta bavarese, sarebbe arduo non pensare a una versione, giocosa ma con rispetto, di En attendent Godot.

Il momento migliore, a nostro avviso, coincide con i momenti in cui lo spettacolo smette d'apparir tale: i due attori, in almeno tre diverse circostanze, sfondano la quarta parete, fingendo la rottura del gioco teatrale. "E ora, come faccio a continuare?", chiede Capuano alla mancata accensione del riflettore dalla luce color arancio che illumina le scene "di" Cyrano... E il pubblico vacilla, non sa se cedere alla provocazione e credere all'interruzione del teatro o considerare tutto come già ordito, preordinato, previsto dagli autori-attori. Eppure, nell'indugio a seguito di un racconto incentrato su una specie animale che nulla ha che vedere con lo spettacolo, nella domanda che Roberto rivolge all'altro: "Li dovremo mandare a casa, prima o poi?", alludendo quindi al pubblico in sala, nel chiedersi "E ora che facciamo?", il gioco regge, regge eccome. E non è soltanto, scherzaccio da avanspettacolo, o reinterpretazione buffonesca d'istanze brechtiane (lo straniamento e il cabaret come messa in discussione dell'impianto teatrale tout court), ma sputo in faccia alla "rappresentazione", ché non si può "rappresentare "un bel niente, ché "rappresentare" serve a ben poco. In questi scarti, che terminano con il finale dello spettacolo, tavola imbandita e candele spente da Capuano che annuncia la fine, sta la felice sorpresa di un allestimento dolce, e nella forma e nel contenuto: in grado di parlare d'amore senza smanceria, e di riflettere sul teatro senza prosopopea. Del resto, si sa, solo i comici, quelli veri, possono essere credibili parlando di cose serie.

La recita termina, con l'offerta, dopo il copioso battimani d'un pubblico divertito e convinto, dei gustosi dolciumi alla degustazione, dapprima timida, degli spettatori. Non male, davvero.

Visto a Prato, Teatro Fabbricone, il 5 gennaio 2008.

Spettacolo
Pasticceri
Io e mio fratello Roberto
di e con Roberto Abbiati e Leonardo Capuano
Assistente alla regia: Elena Tedde
Tecnici: Corrado Mura, Alessandro Calabrese e Luca Salata
Produzione: Benvenuti srl - Armunia