Articoli pubblicati altrove e qui raccolti: non il classico, egolaico, ennesimo blog

da teatro.org

a fondo pagina la maschera di ricerca per gli spettacoli

venerdì 25 aprile 2008

Il dito nella piaga di Marco Baliani

(da loschermo.it)
PRATO - Debutto nazionale per La pelle, allestimento curato da Marco Baliani e ispirato al capolavoro di Curzio Malaparte. Spettacolo visionario e lancinante nell'illustrare il decadimento di un'umanità allo sbando, derelitta e sconfitta

Un delirio di corpi, forme nude, carni plastiche e luminose che accolgono il guardo incredulo d'un pubblico basito. La nudità come ennesima veste, fasciatura ultima nell'ossessiva indagine di Curzio Malaparte, una tra le migliori penne del Novecento italiano.
Napoli, ultimi giorni della guerra, gli Alleati in città: la miseria umana deborda, diffusa senza vergogna, estranea alla vergogna, estranea a ogni buon senso, figuriamoci alla morale. Roba da ricchi, la morale, da chi, stando bene, può arrogarsi il lusso pure di benpensare. Non a Napoli, non nell'allucinatorio intrico di vasci, stesso teatro di una città milionaria nel disincantato racconto di Eduardo De Filippo.

Malaparte, toscano meticcio, splendido rappresentante di un pensiero contrario, nel suo esser Bastian in controtendenza, narra quella Napoli, quel furore violento di carne, metastasi morale d'una plebe sconfitta in una guerra incompresa e incomprensibile. L'impatto coi liberatori è una deflagrazione d'istinti, barbarie e liquami, nella prostituzione, nel mercato cruento di una nuova e inedita schiavitù. Un sottoproletariato ben già corrotto nella totale assenza di freno, nell'incontrollabile discesa agli inferi della disperazione.

Marco Baliani coglie l'intima essenza di questa pelle malapartiana, la sua effimera saldezza a contenere capillari, vene, carne e sangue. La pelle è forma senza sostanza, sottile straccio di roseo rivestimento, paradossale e spaventoso. Comprensibile, quindi, che l'intera compagnia appaia totalmente nuda, al principio dello spettacolo, nella ricerca affrettata degli indumenti.
Sono scene di vita, quadri strappati di un'umanità slabbrata dalla sofferenza, che nel delirio postbellico escogita espedienti per tirare a campare. Come la penna malapartiana registra, con freddezza, l'abisso esistenziale di una Napoli trasfigurata, così il corpo e la voce di Baliani attraversano il carname infernale commentandone gli eventi, spesso ribaltando gli inerti assunti d'una morale ordinaria e scontata.

Gli attori sono bravi, ben piegati al mélange di storie, di situazioni estreme, nell'illustrazione di uno sfascio totale, senza requie né speranza. La recitazione è rapida, strappata, i lacerti del dettato romanzesco sfociano in scene lancinanti, cui non difetta un impatto visivo di grande effetto.
Se ha un pregio, questo La pelle di Baliani è proprio nella levigatura dionisiaca delle immagini proposte, la loro visionaria violenza che mai rinuncia a una bellezza dolorosa. I quadri, vere e proprie stazioni d'un dramma frammentato e al contempo unitario, sono memori dello sguardo allucinato di Francis Bacon e sfruttano l'ottima coordinazione di scene, costumi (curati dall'attrice Marion D'Amburgo) con una puntuale illuminazione (di Roberto Innocenti). Ed è notevole come un progetto quale La pelle coinvolga due teatri importanti e fondamentali come il Fabbricone di Prato (ormai parte del Metastasio - Stabile della Toscana ) e il napoletano Mercadante: Prato e Napoli, poli vitali e romanzeschi dello scrittore d'origine austriaca, quel toscano che, proprio in quanto meticcio, ha saputo essere il più toscano di tutti.

Allestimento di certo importante, che farà discutere nella sua disperata dimensione esistenziale e nel forte impatto visivo, La pelle sconta qualche lungaggine di troppo, risultando in alcuni tratti faticato, pesante, dal non fluido scorrere di scene.
L'impressione lasciata, nel decantare del ricordo, processo fondamentale per l'elaborazione di un giudizio critico sensato, è di incerta stanchezza, non necessariamente implicita alla difficoltà del tema affrontato e questo, detto con la dovuta cautela, dispiace, dato che lo spettacolo ha senza dubbio ottimi presupposti, e nella scelta del testo e nella filosofia di fondo.
Lo consigliamo comunque, dato che, tutto sommato, si tratta di una messinscena che non bara, che non cerca scorciatoie e, sia chiaro, non è certo poco.

Visto a Prato, Teatro Fabbricone, il 24 aprile 2008.

Spettacolo
La pelle
di Curzio Malaparte
adattamento e regia Marco Baliani
con Marco Baliani, Elisa Cuppini, Marion D’Amburgo,Alessandra Fazzino, Maria Maglietta, Simone Martini,Guido Primicile Carafa, Michele Riondino,Giuseppe Sangiorgi, Caterina Simonelli
scene e costumi: Marion D’Amburgo
luci: Roberto Innocenti
musica: Mirto Baliani
regista assistente: Barbara Roganti
assistente alle scene: Lorenzo Martinelli
costumista assistente: Marco Baratti
produzione: Teatro Metastasio Stabile della Toscana Mercadante Teatro Stabile di Napoli

Il libro: Curzio Malaparte, La pelle, Milano, Mondadori, 2001 (prima edizione 1949)

venerdì 18 aprile 2008

Alla corte di un genio: la scena crudele di Antonio Rezza


Livorno, Teatro del Porto - Sulle tavole di un interessante spazio scenico, ottimamente gestito, la performance dell'attore e autore più geniale dell'attuale panorama teatrale italiano. Storie di (a)/(s)variata (dis)umanità per un pubblico divertito e spiazzato, in una costruzione spaziale visionaria e originale

Due settimane or sono, chiacchierando con Daniele Luttazzi , è capitato di citare il nome di Antonio Rezza , artista-culto (per quanto, a nostro avviso, non ancora noto nella misura che meriterebbe) del teatro italiano contemporaneo. Luttazzi, col tono di chi afferma cosa scontata, dichiarava: "Vabbè, ma Rezza è un genio... Talmente bravo che il successo di nicchia è solo la conferma della sua unicità... un genio, appunto". Inutile dire che sottoscriviamo l'opinione del satirico e che la visione di Pitecus, sulle tavole del labronico Teatro del Porto di via Negrelli, ha semplicemente confermato l'assunto. Del resto, se ve ne fosse bisogno, basterebbe la lettura di uno dei suoi tre romanzi, bellissimi, lancinanti, eppure assai diversi dal lavoro teatrale, più vicino invece, per temi, situazioni e scrittura, al percorso audiovisivo fatto di cortometraggi e di quattro interessantissime pellicole lunghe.

La sala del Teatro del Porto, priva di sipario, presenta una scena strana, unica nel suo genere: il palco è totalmente occupato da una struttura a sbarra, simile a un appendiabiti, cui è attaccato un numero imprecisato di panni fantasiosamente variopinti, distesi o piegati. La luce a giorno, bianca, illumina tutto senza particolari effetti. Cala il silenzio: s'odono i primi passi dietro le tele. Sulla sinistra, una di queste, chiara, lacerata in alcuni punti, s'anima d'una presenza, un volto magro, scarnificato, l'espressione buffa, grottesca. È Gidio, beato nella propria solitudine, della propria nullafacenza. Blatera un dialetto improbabile, di marca centritaliana, d'influssi abruzzesi e burini. Le parole mozzicate soffrono una sorta d’analfabetismo di ritorno. Sparisce. Poco più in alto, un'altrettanto improbabile figura femminile occhieggia da un'altra feritoria del tessuto. S'interroga sull'andare a casa di Gidio, a trovarlo. Sparisce anch'essa, in favore di un terzo volto che spunta di profilo sul lato destro: "Siamo noi, Gidio... Siamo noi...", di lì a poco tormentone irresistibile del numero.

Pitecus, cavallo di battaglia di Antonio Rezza (il debutto è del 1995), è un collage di esistenze bizzarre e cattive. Sono disumane nella loro comica miseria intima: animano scene chiuse, numeri quasi cabarettistici in un quadro d'insieme lacerante e doloroso, nella crudeltà d’una rappresentazione che non si sottrae a un riso folle, misterico e semi-isterico. Rezza è anzitutto un agonista: in senso fisico, dato che infligge al proprio corpo, longilineo e magrissimo, bizzarre contorsioni e notevoli sforzi (la cosa sarà ben più evidente con Bahamut, quarto capitolo della teatralogia di cui Pitecus è incipit), e soprattutto in senso più propriamente scenico, teatrale. Il pubblico è bestia da domare, umiliare, mettere di fronte alla mediocrità d’una vita spesa nella triangolazione inevitabilmente borghese metro-boulot-dodo (dal francese: metropolitana-ufficio-nanna a indicare il banale tran tran della “gente normale”). Rezza lo affronta, direttamente, senza la minima pietà: sia esso il malcapitato spettatore in ritardo che raggiunge la poltrona ingobbito per farsi notare meno sia la bambina in fasce cullata dalla mamma, cui l'attore prefigura un futuro inevitabilmente pieno di sofferenze e dolori, sia, infine, il bambino che deambula a briglia sciolta per la sala, ben presto assunto quale ulteriore bersaglio da parte dell'artista. Rezza è spiazzante, corrosivo, a tratti irritante, nella sua crudele ostensione d'inumanità, di verità. Gli applausi inseguono i personaggi terribili che animano le magnifiche tele di Flavia Mastrella (a tutti gli effetti paritaria partner di Rezza nell’elaborazione degli spettacoli) e sono perennemente sconfessati sia dalla scrittura scenica sia dalla recitazione dell’attore-tiranno. Fuori tempo, il pubblico applaude sempre fuori tempo, giacché il pezzo sarebbe finito due battute più tardi, oppure non applaude, attendendo una chiosa che non arriverà. Rezza gioca su questi inciampi, ben previsti dalla drammaturgia franta d’uno spettacolo che nella frantumazione esistenziale di personaggi cinici, brutti, sommamente grotteschi, guadagna l’unitarietà d’uno sguardo spietato sul mondo e sulla vita.

Rezza scarta, salta, ironizza, si sottrae al plauso, rischia in prima persona nell’ostensione di un potere innegabile e al contempo problematico, quando aggredisce verbalmente un singolo spettatore per il divertimento smarrito dell’intera platea. E anche il bis si trasforma in uno scontro all’arma bianca: dapprima, l’artista minaccia d’andare avanti ad libitum, dopo quattro ulteriori numeri (notevole quello sull’inesistenza di dio) è invece la platea a sconcertare l’attore, con innumeri chiamate, quasi la sala fosse oggetto d’occupazione.

L’attore ringrazia, tace e invita silente a lasciare il teatro. Si applaude ancora, tra le risate, sempre più ghignanti, paradossali. È un riso terribile quello suscitato con sapienza da questo allampanato genio riccioluto, un riso gravido di dubbi, dionisiaco nel minare qualsiasi certezza, anzi, nella certezza sulfurea della totale gratuità dell’esistere. Non è tempo di tragedia, il nostro, mancano grandi valori universalmente accettati, manca un altrove mitico: lo spirito tragico non ci appartiene, venduto e compromesso secoli fa. E, dunque le verità indicibili dell’insensatezza del tutto non possono che essere affidate al ghigno tremendo di una grande comicità.
(da www.loschermo.it)

Spettacolo:
Pitecus
regia: Antonio Rezza, Flavia Mastrella
con Antonio Rezza
quadri di scena Flavia Mastrella
(mai) scritto da Antonio Rezza
assistente alla creazione Massimo Camilli

giovedì 10 aprile 2008

L'abisso teatrale di Anna Karenina

(da loschermo.it)
ROSIGNANO SOLVAY (Livorno) - L'impegnativo allestimento curato da Eimuntas Nekrošius affronta Anna Karenina, capolavoro di Lev Tolstoj, sondandone con puntualità le potenzialità teatrali, la profonda natura scenica di un romanzo polifonico, incentrato su un corpo a corpo sentimentale e le insanabili contraddizioni che ne derivano. Il risultato è una messinscena intensa, coraggiosa, che sfronda e vivifica il soggetto, denunciandone paradossi e potenzialità inespresse

Sono svariati i motivi di interesse intorno a questo nuovo spettacolo diretto da Eimuntas Nekrošius, prodotto da una sinergia tra Emilia Romagna Teatro, Teatro Biondo di Palermo e Aldo Miguel Grompone. Per la prima volta, infatti, il geniale regista lituano si confronta in Italia con un testo letterario, un romanzo tra i più importanti della letteratura russa e mondiale tout court, e altrettanto per la prima volta, dirige una compagnia interamente "straniera", nella fattispecie composta da attori italiani.
Il romanzo tolstojano è una profonda riflessione sulla natura dei sentimenti, la loro potenzialità distruttrice, nonché il rapporto inevitabilmente conflittuale che questi nutrono rispetto ai modelli di comportamento imposti dalla società. Anna è amletica protagonista di un adulterio prolungato, destinato a finire col suicidio al termine di un complicato processo di scarnificazione sentimentale. Attorno a lei, l'alta società russa dell'epoca (la storia è ambientata negli anni Settanta del XIX secolo), ipocrita e contraddittoria, altro bersaglio polemico degli strali di Tolstoj.

Nekrošius affronta il testo distillandone ventinove quadri, scene che talvolta si susseguono senza apparente soluzione di continuità, a scandire le tappe di un paradossale martirio. Alla storia di Anna, una Mascia Musy potente e particolarmente efficace, si affianca l'amore, prima combattuto e poi felice, di Konstantìn Dmìtrič Lévin (l'ottimo Paolo Pierobon) con Kitty (Corinne Castelli), alla stregua di controesempio virtuoso. Nel romanzo, infatti, Levin è immagine dell'autore, nella sua critica alla mondanità. Attorno a questi, l'universo di personaggi che animano l'intricata vicenda: Paolo Musio è un intenso e sofferto Aleksjéj Aleksàndrovič Karénin, marito di Anna, destinato a perdere la donna pur senza concederle il divorzio; Alekséj Vronski, amante di Anna, è interpretato dall'atletico Paolo Mazzarelli, attore in grado di suggerire con puntualità le sfumature emotive del personaggio, uno tra i più complessi dell'intero romanzo. Da citare, in questo senso, la figura interpretata dal silente Alfonso Postiglione, accreditato come il Destino: spettatore quasi costante della vicenda, assiste lateralmente alle scene, in apparenza affaccendato in altri affari. Figura paradossale e comica, alla stregua di un improbabile Buster Keaton, sembra sconfessare continuamente ciò che accade, come a insinuare il tarlo del dubbio circa l'intima verità dei fatti rappresentati.

In tal senso, il disegno di Nekrošius, mirabile nell'utilizzo di arredi scenici poveri che in mano agli attori acquisiscono valori iconici altamente potenti e significativi, sembra quello di recuperare al teatro, al dubbio del teatro, una storia tanto tragica ed esemplare. A partire dalle cornici vuote, dagli occhiali, dai panni scossi e strappati sino agli specchi che i personaggi utilizzano variamente in scena, gli oggetti sono protagonisti assoluti di un sapiente utilizzo scenico. Essi, infatti, suggeriscono, alludono, tessendo con gli attori (e le luci) rapporti che mutano equilibri e spazi. Su tutti, i giganteschi orologi-grancasse, bianche ruote che un laconico Nicola Cavallari utilizza alla stregua di ingranaggi del treno, oggetto feticcio del romanzo e termine ultimo della vicenda di Anna. Una tragica paradossalità mina ogni certezza, senza però banalizzare la storia: siamo, per fortuna, nei paraggi del Gioco, cosa ben più seria rispetto allo Scherzo. I personaggi non sono mai interamente persone, perennemente sospesi tra l'inverosimile operistico, un macchiettismo da commedia dell'arte e l'invenzione scenica che solo l'attorialità può conferire (pensiamo all'efficace modo di suggerire il pattinare sul ghiaccio grazie a semplici, indovinate movenze e al sibilio stesso pronunciato da Kitty). Certi inciampi linguistici, la pronuncia rutilante del nome Vrònskij, l'improbabile duetto canoro inscenato da Anna e Kitty, fanno parte di una strategia complessa, a unire clowneria farsesca a decorso tragico. L'effetto è straniante, probabilmente intensificato dal fatto che la compagnia d'attori è in toto italiana: spesso, gli spettacoli del lituano strappano risate, paradossali e ironiche, pure nei momenti più tragici. In questo caso, prevale una sensazione di dubbio, di sospensione, in cui il riso sconfessa la seriosità senza completare la detronizzazione prevista.

Cinque ore sono senza dubbio molte, ma non eccessive: la grandezza della regia (cui si affianca una perfetta selezione musicale, curata da Tauras Čižas, adattatore del testo e aiutoregista) sta nel saper armonizzare la polivalente scena di Marius Nekrošius e il sapiente lavoro illuminotecnico di Audrius Jankauskas, in uno spettacolo che rappresenta un continuo e a tratti abbacinante gioco scenico.
Non sappiamo se questo allestimento potrà, come altrove è stato detto, cambiare il modo di leggere Anna Karenina, ma di sicuro costituisce un'ulteriore tappa del percorso poetico di Nekrošius, artista col quale si dovrà fare i conti ancora per molto tempo.

Visto a Rosignano Solvay, Teatro Solvay, il 9 aprile 2008

Spettacolo
Anna Karenina
da Lev Nikolaevič Tolstoj
adattamento: Tauras Čižas
con Mascia Musy (Anna Arkàdjevna Karénina), Paolo Musio (Aleksjéj Aleksàndrovič Karénin), Paolo Mazzarelli (Alekséj Vrònskij), Alessandro Lombardo (Stepàn Arkàdjevič Oblònskij - Stiva), Vanessa Compagnucci (Dàrja Aleksàndrovna - Dolly), Paolo Pierobon (Konstantìn Dmìtrič Lévin), Nicola Russo (Nikolàj Lévin), Gilberto Colla (Principe Aleksàndr Ščerbàtskij), Renata Palminiello (Principessa Ščerbàtskaja), Corinne Castelli (Katerina Aleksàndrovna Ščerbàtskaja - Kitty), Gaia Zoppi (Vàren’ka), Annalisa Amodio (Bàbuška e Vrònskaja), Nicola Cavallari (Treno, Kornèj, Portinaio), Alfonso Postiglione (Destino)
regia: Eimuntas Nekrošius
scene: Marius Nekrošius
costumi: Nadežda Gultiajeva
luci: Audrius Jankauskas
musiche: Tauras Čižas
suono: Marco Olivieri
assistenti alla regia: Tauras Čižas, Daria Deflorian, Claudio Longhi
Produzione: Emilia Romagna Teatro Fondazione, Teatro Biondo Stabile di Palermo in collaborazione con Aldo Miguel Grompone

venerdì 4 aprile 2008

Lezioni di sesso con l’inarrestabile dottor Luttazzi

Firenze – Il Saschall ha salutato con calore le due serate del comico romagnolo, impegnato nella ripresa di un suo cavallo di battaglia, Sesso con Luttazzi . Un’ora e mezza di fou rire, toccando e infrangendo ogni tabù. Non semplice riproposizione di un vecchio spettacolo, ma una nuova interpretazione con significative novità di carattere attoriale. A Montecatini (Nuovo Teatro Verdi), venerdì 11 aprile.

Si rischia di essere ripetitivi quando si parla di Luttazzi, perché trovarsi di fronte a un professionista serio, autocosciente e rigoroso, in fin dei conti, obbliga sempre a sondare nuove vie per illustrarne le qualità cristalline.
La versione 2008 di Sesso con Luttazzi viene però in soccorso: frutto di anni di riflessione su un argomento classico della comicità, spettacolo formalizzato sia in ambito televisivo (Magazine 3, nella seconda serata del sabato della terza rete Rai, era del 1991) sia in chiave editoriale (memorabili, tra gli altri, gli interventi sulla rivista Comix nonché il libretto omonimo, uscito poi con allegata la videocassetta d’una tournèe anni Novanta), questo irresistibile one man show ha subito nel tempo una notevole evoluzione espressiva. I testi sono gli stessi, fatta salva qualche comprensibile attualizzazione: chi scrive, come del resto altri spettatori del Saschall, conosce a menadito le battute, al punto da poterle persino anticipare (non l’abbiamo fatto in quanto consci del tacito galateo dello spettatore…); la novità investe piuttosto la recitazione, soprattutto nella prima parte della serata. Al ritmo feroce e forsennato, topos del satirico romagnolo, alla sillabazione frenetica che costringe il pubblico a "inseguire" le battute (nei vecchi spettacoli un effetto divertentissimo era sentire gli spettatori ridere e restare "indietro" rispetto alle gag sparate senza tregua), si è sostituito un altro tipo di scansione ritmica. Luttazzi rallenta, assapora la battuta, la porge in modo diverso, inedito, alla stregua d’una degustazione a centellinarne a fondo paradossi, scarti di senso, le sorprese spiazzanti che scatenano inevitabilmente il riso. Al cambiar d’enunciazione corrisponde peraltro un profondo mutamento delle medesime gag, in un procedimento alchemico e sbalorditivo. La comicità è pura tecnica, a prescindere dall’argomento che le fornisce un semplice pretesto d’applicazione. L’abisso anarchico da cui si origina la risata, quella scossa elettrica che s’innerva nel corpo dello spettatore impossessandosi di esso, è frutto d’un gioco puramente teorico, gioco di slittamento, condensazione, ritmo e sorpresa. Intervenire sul tempo di una battuta equivale a produrne una nuova, giacché la variazione agisce sull’intima natura di questa. Ecco la vera perla, apprezzabile da chi ha un’esperienza pluriennale d’osservazione luttazziana, contenuta in questo one man show.

Va da sé che lo spettacolo è irresistibile, a prescindere dalla filologia d’attore illustrata poc’anzi, e che pure il pubblico non iniziato ha potuto godere della carica corrosiva della sua comicità. Si tratta di una questione classica della fruizione artistica: più si conosce, più si gode.

Preferiamo evitare un campionario di battute: si rischia, proprio per i motivi sopra enunciati, di rovinarle, banalizzarle e, quindi, ci limitiamo a registrarne le tracce preziose, nella convulsione continua dell’intero auditorium, nell’orgasmico (termine mai così appropriato) processo sotteso dalla risata collettiva. Luttazzi mina ogni certezza, abbatte ogni limite, sfonda ogni tabù, compresa la cornice della propria opera d’arte: prima della performance, una voce femminile registrata raccomanda al pubblico presente di spegnere i telefoni cellulari, avvertenza consueta (e purtroppo necessaria) in molte sale teatrali. Un attimo dopo l’annuncio l’attore fuori scena, intonazione piana ma al contempo insinuante, chiosa: "I trasgressori verranno mangiati" (gag già in Barracuda 2007 ). La risata che segue fa venir giù le pareti. Qui la sorpresa, il senso del ritmo. Il comico ha una sua intima matematica, ovviamente interpretabile in molti modi, ma sempre legata a una puntuale scansione del tempo. Da questo punto di vista, la comicità ha un’intima connessione con il sesso, pure confermata dalla particolare euforia che riesce a infondere nel soggetto ridente, soprattutto se il riso è coltivato, reiterato e, una volta innescato, automatico. Simile agli orgasmi multipli, ripetuti, caratteristici del sesso femminile (almeno nei casi più fortunati): e tali sono le risate, replicate all’unisono e all’infinito, che travolgono il pubblico di Luttazzi in vere e proprie ondate.

Man mano che lo show prosegue, allo scaldarsi dell’atmosfera, la recitazione registra una progressione, abbandonando la dilatazione ritmica in favore di una più incalzante rapidità d’enunciazione. La strategia attorica è, comunque, quella consueta: Luttazzi è un player in stile anglosassone, laterale, scientifico. Perenemmente un passo distante dall’uditorio, egli è il Clown, il fool che lacera il velo della Retorica, scoprendo il mistero del riso, sfruttando e, al contempo, facendosi strumento della Matematica, intesa come struttura intima del discorso comico e come ritmo di esso.

Il vetriolo luttazziano non si ferma di fronte a niente, come già fatto in tv quasi vent’anni or sono (la domanda, retorica, sarebbe: c’è stato da allora un progresso o un’involuzione?): ecco il dottor Luttazzi (che, confermiamo, è realmente laureato in medicina, benché non in sessuologia), camice bianco d’ordinanza, assaggiare sangue mestruale come fosse gran vino rosso, decantare le virtù alimentari dello sperma spalmando liquido seminale su una fetta di pane, in una pletora grottesca di deiezioni e infrazioni comportamentali. Dal sesso anale alle improbabili domande sulla riproduzione e sulla fellatio, un campionario di irresistibili sconcezze che fanno sussultare di riso eccitato l’intera sala. Un universo di comicità si rinnova nell’immaginario luttazziano, nel suo cannibalismo satirico: da Rabelais a Shakespeare, da Fo all’adorato Woody Allen, di cui il romagnolo è diventato traduttore esperto e puntuale. Difficile, dato il tema, non pensare all’indimenticabile Tutto quel che avreste voluto sapere sul sesso ma non avete mai osato chiedere , pellicola che il cineasta newyorkese realizzò nel 1972. Ma attenzione: anche quando Luttazzi riprende una battuta, si tiene ben distante da calchi e plagi di sorta: il materiale è sottoposto a un raffinato processo di distillazione, di slittamento, evitando grossolane riapplicazioni. Per questo non ha senso né giustificazione parlare di copia: ogni battuta ripresa diviene, in mano a un grande autore come in questo caso, una nuova battuta. È sempre stato così, dai tempi di Aristofane a Groucho Marx, da Rabelais al nostro Dario Fo e al (compianto, il primo) Roberto Benigni

Quasi del tutto assente la satira politica, eccettuati alcuni maliziosi en passant: scelta consapevole e meditata, peraltro illustrata nell’intervista di due giorni or sono . La gente deve ragionare con la propria testa e un autore satirico deve aiutarla a pensare, a indignarsi, ma non cedere alla tentazione di ergersi a leader. La satira dev’essere esercitata anche, e soprattutto, contro il proprio potere, deve minare ogni certezza, persino quelle da essa stessa suggerite.
La fine è brusca: dopo l’ennesima battuta di un repertorio pressoché infinito, l’attore saluta ed esce. Gli applausi sono scroscianti, convinti, bramosi di altro riso, di altro panico godimento. Luttazzi non si fa pregare, anzi: smonta persino la meccanica ordinaria (spesso ipocrita) del bis, anticipando ogni richiesta e ripresentandosi in scena sua sponte per due volte. Il tempo di riprendere alcune gag dai testi di Bollito misto con mostarda e, soprattutto, da 101 cose da evitare a un funerale , leggendario libretto "Mille lire" edito da Comix, un campionario di gustosissime crudeltà sulla morte, degno del miglior humour noir dadasurrealista. Difficile che i fuoriclasse deludano, ne abbiamo avuto l’ennesima dimostrazione.

Da vedere. Appuntamento a Montecatini, venerdì 11 aprile.
(da www.loschermo.it)

Spettacolo
Sesso con Luttazzi
di e con Daniele Luttazzi
produzione: Krassner

martedì 1 aprile 2008

Il pubblico in scena

(da Giudizio Universale, n. 32, aprile 2008, p. 81)
In Madre coraggio di Brecht (regia firmata da Cristina Pezzoli) la quarta parete cade: gli spettatori sono coinvolti nell’azione con un forte impatto emotivo. Il capolavoro epico attualizzato, con Isa Danieli e una compagnia che mescola attori esperti a talentuosi prospetti

Un corpo fragile, straziato: si piega, col peso di una morte dolorosa e incomprensibile. Silenzio estraneo e tombale di platea semivuota. La dita della mia mano sinistra sfiorano con pudore le costole di questa ragazza sconosciuta. Le batte il cuore: le pulsazioni impazzite sono scosse per le mie falangi imbarazzate da un contatto inatteso e fraterno. È un corpo esanime, trafitto dal fucile che ci ha tenuto sotto tiro e ha esploso i colpi.
Mi chiedo se anch’io sia morto, e mi difendo in un sorriso: i personaggi di un dramma non possono
uccidere gli spettatori. C’è la quarta parete, pellicola metaforica invisibile e invalicabile, schermo a separar illusione e realtà. Infrangerla è paradosso, trucco da guitto cabarettaro o infrazione d’avanguardia in ritardo.
Non può far effetto. Non ora, non qui.
Siamo colti, smaliziati e scafati, ne abbiamo viste accadere di cose in scena, usi a spettacoli d’ogni sorta, consci dei meccanismi della teatralità.

Eppure qualcosa sfugge.
Vuoto allo stomaco, dolore incompiuto. E quegli occhi magici e maledetti d’una madre che implora per la restituzione del corpo di una figlia.
Eccolo, il critico, il recensore, la cui consueta sicumera fa solo ghignare di fronte all’impasse eterna di questo momento che si rinnova nel ricordo. Tra le braccia, fragile come una foglia caduta, Kattrin, la muta figlia di Anna Fierling, Madre Coraggio. È la matrona brechtiana che si rivolge a me da quella “linea di confine” per riaverne le spoglie. Il dramma, per compiersi, ha bisogno di quel corpo.

Esito. Dove finisce lo spettacolo e ha inizio la realtà?
Lo spettatore che è in me è terrorizzato: teatro significa vedere le cose che sono nascoste, rapportarsi alla morte, e gli occhi di Isa Danieli vengono da una dimensione liminare, un altrove inconcepibile. Non possono fissarmi senza annientarmi.
Al contempo, la persona che è in me, l’uomo, sente il bisogno di agire, di prendere parte, in barba alle dissertazioni su vero e falso, maschera e volto.
Devo agire. Mi alzo. Il corpo di Kattrin è una bambola di pezza, lieve e delicata, come la sua pelle dal profumo dolce, inasprito dalla fatica sudata di tre ore di spettacolo.
Supero le poltrone, guadagno la corsia. Depongo il cadavere ancora caldo sul legno del proscenio. Mutti Courage mi ringrazia, ed è un cortocircuito, intellettuale ed emotivo.
Il dramma può proseguire e terminare, ora che il corpo straziato può essere
pianto, celebrato e seppellito. Novello Antigone, compiuta la missione me ne resto lì, immoto, ad ammirare Isa Danieli che finalmente chiude la storia.
Ecco tutti i personaggi, giovani e vecchi, comparse e protagonisti, a urlare verso la platea, fronteggiare la realtà, nella babele di accenti, italiani, esteuropei, orientali, che Cristina Pezzoli ha voluto mescolare nella propria versione del capolavoro brechtiano.

L’impatto è fortissimo, al di là della lungaggine macchinosa della prima parte, al di là dei prevedibili intoppi d’una prova filata, al di là di scelte discutibili, come l’attualizzazione delle Song originali: da un lato, fare archeologia di Brecht sarebbe un controsenso e la regista lo sa bene, dall’altro, il bagno d’attualità renderebbe necessaria una pari dimensione estetica che le bellissime musiche originali di Paul Dessau non consentono con facilità.

È l’emozione che vince su tutto: sulla bella scenografia irta e inclinata verso il pubblico di Bruno Buonincontri, dai colori sabbiosi e desolati, sulla recitazione d’una compagnia che unisce
mostri sacri a giovani attori di ottime speranze.
Finisce la prova, Isa Danieli mi ringrazia, con la gentilezza distante degli artisti che hanno concluso il proprio lavoro. Cristina Pezzoli, tra una raccomandazione e l’altra a tecnici e attori,
mi sorride.
Kattrin (Xenia Bevitori), invece, se n’è andata.
Vorrei cercarla, dirle quale sconvolgimento sia riuscita a provocarmi, ma so che sarebbe superfluo, come parlare dopo un amplesso. È il teatro, arte bistrattata dai medesimi teatranti che
troppo spesso ne ignorano potenzialità emotive e intellettuali, ma che, quando tocca l’animo, lo fa con la violenza inusitata d’una marchiatura a fuoco.

Visto a Lucca, Teatro del Giglio, 23 gennaio 2008.

Spettacolo
Madre Coraggio
di Bertolt Brecht
elaborazione di Antonio Tarantino
regia: Cristina Pezzoli
con Isa Danieli, Alarico Salaroli, Marco Zannoni, Lello Serao, Arianna
Scommegna, Carlo Caracciolo, Matteo Cremon, Antonio Fabbri, Tiziano Ferrari, Vesna Hrovatin, Paolo Li Volsi, Fabio Mascagni, Aurora Peres, Sergio Raimondi, Shi Yang, Luigi Tabita, Xenia Bevitori
scene: Bruno Buonincontri
costumi: Gianluca Falaschi
musiche: Pasquale Scialò
luci: Cesare Accetta
produzione: Gli Ipocriti
Giudizio: 3 soli
Scheda
> Il privilegio del critico: assistere alle prove
> Non si fa: usare la prima persona in una recensione
> Però: una tale emozione non deve essere taciuta
> Quindi: licenza “critica”, sperando che il lettore capisca che abbiamo
comunque parlato dello spettacolo
> Il giudizio: due soli alla messinscena, quattro alla forza del finale