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a fondo pagina la maschera di ricerca per gli spettacoli

sabato 26 luglio 2008

Lo schizoide 'Mady in Italy' di Babilonia Teatri

(da loschermo.it)
VOLTERRA (Pisa) - Valeria Raimondi ed Enrico Castellani, corpi e cervelli di Babilonia Teatri, presentano il loro Made in Italy (vincitore del Premio Scenario 2007) nell'ambito della kermesse Volterra Teatro 2008. Messinscena rapida, nevrotica, urlata e musicata, a rappresentare per flash abbaglianti il delirio massmediatico dell'Italia contemporanea

Un urlo lancinate. Luce bianca, sparata per un secondo, due corpi nudi. Buio. Made in Italy di Valeria Raimondi ed Enrico Castellani (attori, autori e registi dell'allestimento) inizia con un flash violento. Musica. Raccolgono nella penombra i vestiti caduti dall'alto di un'americana posta in corrispondenza del centro della scena. Torna la luce. Sono vestiti. Si passano la parola, senza dialogo: frasi sconnesse, lacerti di slogan, forme idiomatiche rubate a massmedia, gente comune, varia umanità, tra italiano standard e veneto sporco, denuncia d'un Nord Est malato irrecuperabile.

Lui è alto, vestito d'un curioso completo verdastro, maglia a righe. Sarebbe un bello, e lo è, ma colpisce la dimensione buffa, una certa fissità di maschera a costituire la cifra migliore della sua interpretazione. Lei, gonna scura e maglia rossa ricalcante le rotondità, è ammiccante, parodica, sfrontata, tendente all'aggressivo, sopra le righe, ma non troppo efficace. Testo che funziona per accumulo, immagini, fotografie sovresposte di un'umanità, quella italiana, al delirio: da un lato proiettata verso un futuro di rumorosa velocità, dall'altro tetragona nel perseguimento di eterne e minime certezze, millenarie paure, a chiusura stagna verso qualsiasi forma di diversità.
Le voci s'alternano, sovrappongono, recitano all'unisono parole che, conflagrando, danno vita a nuovi residui di (non)senso. E le bestemmie, matrice tradizionale di un Veneto beghino quanto blasfemo nella sua rusticità, partecipano d'un delirio verbale disperato e nevrotico. Il tutto, d'altro canto, assume i contorni d'un colossale già visto: già visto il lavoro sul testo (da Nanni Balestrini a Bergonzoni, pur rispettandone le differenze d'ambito), gie viste (e sentite) le bestemmie (il Benigni di Cioni Mario di Gaspare fu Giulia era un trionfo dell'escrologia, topos letterario satirico basato sull'insulto rituale di matrice arcaica), già visti e sentiti i contenuti (attacchi al papa, al razzismo diffuso, al fascismo strisciante). Il vero problema, però, non è neppure un'assenza di originalità che, francamente, potrebbe pure passare. Il punto è la difficoltà a sfondare il muro d'un consenso previsto (così come l'altrettanto prevedibile dissenso), col risultato di perpetrare una prospettiva destinata al residuale. Rassicurante, rispetto all'ambiente destinatario naturale di un certo tipo di spettacolo.

Gli inserti musicali, ispirati a un pout-pourri schizoide e variopinto, riflettono la multiformità del testo, così come i movimenti, a scatti, vibranti e secchi, degli attori. L'insieme ricorda certe scelte dei film di Roberta Torre, deportate, però, dal caleidoscopico e vitale Sud Italia alla claustrofobica e mortifera dimensione d'un Nord Est alla frutta. Il momento più intenso della performance è quello in cui si diffonde la voce del telecronista Flavio Caressa in occasione della vittoria dell'Italia al mondiale di calcio tedesco: all'esultanza urlata, malata, macchiata d'un buonismo perverso e simulato (l'invito ad abbracciarsi, a celebrare un evento come fosse totalizzante per una nazione di sessanta milioni d'abitanti...), corrispondono le movenze di gioia epilettica di Castellani, con una cannottiera con su scritto "Io sto bene".
Ci sono, appunto, i CCCP di Ferretti e (soprattutto) Zamboni, dietro questo spettacolo, ben al di là della citazione sonora: c'è la disperazione d'una porzione d'Italia che vive una metastasi uguale e contraria rispetto a quelle subite in altre zone (si pensi a Roma, per non scomodare il "solito" Meridione o la Napoli "ripulita" dall'ex cantante di crociera...) e che fatica a trovare forme efficaci esprimerla.

Si chiude con un terzetto da immagine sacra: il corpacciuto tecnico di palco, che aveva agito ai margini della scena, spostando riflettori e azionando i rudimentali giochi scenici dello spettacolo (presenza umana se non esibita, certo non celata allo spettatore, alla stregua dei manovratori di pupazzi nel teatro No), si veste da improbabile angioletto, fuoriuscito, si direbbe, da un film di Ciprì e Maresco. L'audio è quello della ripresa televisiva dei funerali di Pavarotti, offerti nella prospettiva inumana d'una celebrazione monstre da massmedia, vorticosa banalità catodica d'idiozie assortite. I movimenti in scena sono ora compassati, quasi ieratici, a seguire ironici l'immaginaria kermesse delle Frecce Tricolori.

Non si salva, purtroppo, uno spettacolo sembrato pretenzioso nelle intenzioni e poco riuscito negli esiti, pur tenendo conto che la peculiare poetica espressa da Raimondi-Castellani si muove su un rifiuto (post-punk, di certo cosciente e meditato) d'una qualsiasi enucleabile dimensione estetica.
Il pubblico plaude, ma è relativo (come, ovviamente, il presente giudizio): sono, siamo, tutti d'accordo (forse). Il problema non sono i contenuti, quanto la forma che li esprime e che, facendo teatro, è essa stessa contenuto al massimo grado.
O sarà, forse, che, dopo aver visto il Beckett di Cluchey, è veramente difficile non essere del tutto intransigenti.

Visto a Volterra, teatro di San Pietro, 23 luglio 2008.

Spettacolo
Made in Italy
scritto, diretto e interpretato da Valeria Raimondi e Enrico Castellani
scene: Babilonia Teatri / Gianni Volpe
costumi: Franca Piccoli
movimenti di scena: Luca Scotton
produzione: Babilonia Teatri, in coproduzione con Operaestate Festival Veneto e con il sostegno di Viva Opera Circus/Teatro dell'Angelo
foto originali di Igor Vazzaz

giovedì 24 luglio 2008

La lezione teatrale di Beckett e Cluchey

(da loschermo.it)
VOLTERRA (Pisa) - Ospite d'onore della ventiduesima edizione di Volterra Teatro, l'attore e regista Rick Cluchey, esempio vivente di un teatro non solo possibile, ma necessario e urgente. L'ex ergastolano ha presentato un suo cavallo di battaglia, quel Krapp's Last Tape realizzato con la collaborazione diretta di Samuel Beckett, autore e regista dell'allestimento

Si resta basiti di fronte alla perfezione d'uno spettacolo come quello visto ieri sera (mercoledì 23 luglio) al Persio Flacco di Volterra. Del resto, non è frequente assistere a una regia firmata da un maestro quale Samuel Beckett, al di là del fatto che l'irlandese sia anche l'autore della pièce in questione, dettaglio interessante ma, ai fini scenici, non determinante (non crediamo nella "proprietà" dei testi da parte dei drammaturghi, anzi: amiamo le contaminazioni e riteniamo gli Shakespeare di Carmelo Bene quanto di meglio abbia offerto il teatro italiano degli ultimi cinquant'anni...).

Ovvio che l'interesse riservato a questa versione originale (in inglese, con sopratitoli in italiano, invero non troppo precisi) di Krapp's Last Tape fosse in parte dovuta al valore testimoniale della regia, ma il teatro è arte del presente o, meglio, di quel non tempo che si esprime (e si perde ineluttabile) nel non luogo della scena, nell'istante medesimo del proprio farsi. E dunque, gli occhi e le orecchie erano tutte a carpire i suoni, le luci, i movimenti di Rick Cluchey, artista irripetibile, carne scenica a dimostrazione di quanto il teatro possa deflagrare nella vita, e non nel senso di una redenzione, di una salvezza morale di cui poco importa o è dato sapere. Ex ergastolano, rilasciato sulla parola e tornato in libertà per mezzo di un'attività teatrale che lo pone tra i grandi della scena mondiale contemporanea, Cluchey non è un miracolato, un recuperato: è un artista, bestia stilistica e animale da palco in grado di solleticare, sconvogliare, fendere con un semplice ghigno la placida coscienza dello spettatore illuso di vedere uno spettacolo per poi tornare a casa.

E invece no. Non si torna più a casa dopo aver visto il canuto Krapp, unica presenza claudicante d'una scena scarna all'inverosimile, armeggiare goffo intorno a un tavolo con i nastri, le bobine d'una memoria man mano dispiegata. Si trascina, su un palco disegnato da luci minimali: una lampada che cala al centro della tavola, un "piazzato" bianco ad aprire la prospettiva, efficace effetto d'ombra proiettato sul fondale semiaperto quando il protagonista esce di scena per recarsi nell'altra stanza, dietro l'ultimo panno nero.

Economia e dolore, le matrici di questo spettacolo: economia attorica, sonora, illuminotecnica; dolore d'esistere, nella vergogna, nella derisione imbarazzata e cattiva dell'esserci e dell'essere stati. Capolavoro di sottrazione e potenza evocativa: Krapp riavvolge il nastro registrato di un compleanno passato trent'anni prima, consuetudine sisifea di campionamento emozionale a scadenze forzate. Ascolta la voce di allora, la persona diversa che era. La deride, ghigno amaro, dolente. Del resto, cosa provare se non vergogna e distacco rispetto a qualsiasi testimonianza del nostro tempo passato?

Krapp, giudice inflessibile e satirico d'un passato che ritorna nel rifiuto della reiterazione, nell'orrore della replica magnetica. Nessun uomo di buon senso vorrebbe mai ripetere esattamente le gesta compiute: Beckett e Cluchey ne sono convinti, e questa matrice disperata dello spettacolo si lega a doppio filo con l'anima leopardiana (si pensi all'operetta morale Dialogo di un venditore d'almanacchi e di un passeggere) di questa rassegna 2008, come nelle intenzioni dichiarate dal direttore artistico Armando Punzo.

E l'ultima traccia che Krapp incide su nastro magnetico è il segno di una sconfitta ineluttabile, quella di un'esistenza insensata che non trova redenzione o salvezza nel vuoto pneumatico d'una prospettiva di assenza: di Dio, di utopie, di soluzioni, di significati. Questo il motivo per cui, applaudendo questo artista gigantesco (al di là della regia dell'altro, e defunto, gigante...), in grado di significare con movimenti minimi, con sibili e ghigni quasi impercettibili ma d'inusitata potenza scenica, siamo convinti che la reclusione scampata negli anni Sessanta sia certo la meno claustrofobica che egli abbia dovuto subire nella vita. La reale prigionia, inevitabile, è quella di un'esistenza gratuita e non richiesta, quell'incubo umano che solo il teatro, o il delirio del suo dio, possono illudersi, talvolta, di lenire.

Spettacolo indimenticabile: la platea lo sente e tributa a Cluchey, e a Beckett, un applauso senza sosta.

Visto a Volterra (Pi), Teatro Persio Flacco, il 23 luglio 2008.

Spettacolo
Krapp's Last Tape (L'ultimo nastro di Krapp)
di Samuel Beckett
con Rick Cluchey
regia di Samuel Beckett
produzione: Rick Cluchey e The San Quentin Drama Workshop

Il programma di Volterra Teatro 2008

martedì 1 luglio 2008

La prossima stagione di prosa al Giglio, tra luci e ombre

Lucca - La presentazione del cartellone 2008/09 del maggior spazio scenico lucchese offre l'occasione per alcune considerazioni circa lo stato di salute e dell'istituzione in questione e del suo rapporto con il territorio, tra spunti critici e speranze di miglioramento

Le valutazioni si fanno a mente fredda, con calma, senza fretta né ansia di giudicare. Certo, però, che il programma della prossima stagione di prosa del Teatro del Giglio presta il fianco a qualche considerazione di carattere quantitativo e qualitativo. Non si tratta di gettare la croce sulle spalle di qualcuno, come se individuare un capro espiatorio fosse utile o necessario: peraltro, mancanza tutta nostra, siamo alieni dalla politica dello spettacolo, dai meccanismi d’amministrazione e di gestione degli spazi teatrali, per cui ci risparmiamo un’analisi strutturale del fenomeno (pure utilissima, se ben condotta), privilegiando il punto di vista di chi fruisce della scena dalla parte dello spettatore.

In tal senso, sono due i dati che colpiscono di primo acchito: il numero di spettacoli, sette in tutto a fronte dei quattordici (undici in stagione più tre fuori programma specificatamente teatrali) proposti nella stagione 2007/08, e il “buco” che va dal 26 ottobre al 9 gennaio, ossia dalla replica pomeridiana di High School Musical alla prima lucchese de La trilogia della villeggiatura firmata da Toni Servillo, forse la miglior proposta dell’intero cartellone.

Sul numero, uno dei motivi è di certo la volontà, cui si deve tributare un plauso, di concentrare le repliche nei finesettimana, anziché, come è accaduto spesso quest’anno, di proporre recite infrasettimanali. Le piazze “forti”, quelle che hanno un’utenza da zoccolo duro, possono tranquillamente permettersi spettacoli di martedì facendo il tutto esaurito, il Giglio, purtroppo, no: spesso e volentieri in questa stagione abbiamo visto la platea semivuota e non solo il mercoledì. Questione di lavoro sul territorio, aspetto imprescindibile per la vita di qualsivoglia spazio teatrale, che, in quanto spazio, abbisogna di vita, materiale umano, interesse vero, elementi che si costruiscono là dove vi siano lavoro, impegno e capacità di progettazione. Solo in seconda istanza sono importanti i finanziamenti, linfa certo vitale di qualsiasi sistema spettacolare. Certo che, da questo punto di vista, al di là dei perenni toni entusiastici di certi promotori (?) culturali, l’Italia sta attraversando uno dei periodi più bui della propria storia recente: i tagli sono una triste realtà e le recenti fusioni di spazi teatrali storicamente “concorrenti” (si pensi ai casi di Pisa-Cascina e Prato) sono la dimostrazione che il momento è particolarmente duro e si deve far di necessità virtù.

Il Giglio ha, in più, un compito oneroso e difficile: recuperare pubblico, credibilità e, soprattutto, materiale umano, dopo anni di sfascio, decadenza che hanno reso il territorio assai duro da coltivare. Ci sono tentativi interessanti in questa direzione, persone che lavorano con impegno e sulle cui spalle ricade l’onere di ricostruire un ambiente che una città come Lucca, perennemente innervata da un’ipertrofica e spesso ingiustificata esaltazione della propria vita culturale, meriterebbe. Aspettiamo e speriamo di registrare una crescita, un miglioramento, ma certo i due mesi sabbatici che investono, guarda caso, anche il periodo natalizio (due settimane in cui le persone sono solitamente più inclini a uscire, spendere e andare, volendo, anche a teatro...), non alimentano certo facili proiezioni ottimistiche.

Per ciò che concerne la qualità del programma, diciamo che i cinque spettacoli di prosa proposti sono tutti interessanti, a partire dall’one woman show di Mariangela Melato sino alla Trilogia firmata da Servillo (uno degli allestimenti più apprezzati della stagione appena conclusa), dal Così è (se vi pare), feticcio pirandelliano e “classico” di Massimo Castri al Sindaco del Rione Sanità nella versione di Carlo Giuffré, sino al Faust di Glauco Mauri già visto a Pisa qualche mese fa. Sui musical, poco da dire: prodotto piuttosto in voga, di facile consumo e alta spettacolarità, i nomi parlano da soli, per chi ama il genere (e chi scrive non è tra questi). La Compagnia della Rancia è forse la più in vista in Italia, il Robin Hood con Giuseppe Dati sarà la chiusura a marzo di una stagione il cui periodo più intenso sarà concentrato nel mese di gennaio.

Niente prosa nei fuori programma: un concerto di canzone d’autore con Vinicio Capossela (già sul palco del Giglio nei primi anni Novanta al fianco di Paolo Rossi in Pop e Rebelot), uno spettacolo musicale con Elio (ma senza le Storie Tese…) e il concerto di Roberto Cacciapaglia. Un passo indietro, dal punto di vista specificatamente teatrale, rispetto alla lettura di Zingaretti e al doppio appuntamento con Celestini del passato cartellone.

Peccato che non vi siano prime nazionali come quest’anno era accaduto per Madre Coraggio con Isa Danieli e diretto da Cristina Pezzoli; gli spettacoli, pur di nome, rappresentano riproposizioni quasi tutte alla seconda stagione di tournée e, soprattutto, già passate da teatri non distanti (Servillo a Pisa e Pistoia, Mauri a Pisa, la Melato a Firenze), ma, come si suol dire, questo passa il convento.

Non resta che aspettare venerdì 10 ottobre per l’inizio della stagione con Mariangela Melato e, soprattutto, domenica 8 marzo, per eventuali bilanci. Nel frattempo, facciamo sin da ora i migliori auguri al Teatro del Giglio, nella perplessa speranza che la situazione possa migliorare, col tempo e col lavoro.
(da www.loschermo.it)