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mercoledì 4 novembre 2009

Della bufala toscana. Microstoria di una comicità (molto) moderna

Da Montagnani a Benigni, fino alla "Generazione Cecchi Gori"

Della bufala toscana Microstoria di una comicità (molto) moderna

di Igor Vazzaz
(da Possibilia. Periodico online per curiosi)

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Se è vero che la Toscana, regione connotata più di altre da identità e Storia unitarie, vanta numerose qualità quanto a patrimonio artistico e culturale, è altrettanto vero che alcune caratteristiche attribuite alla sua popolazione - la naturale simpatia e la verve comica - sono una mistificazione contemporanea. Non si tratta di bollare i toscani come antipatici, quanto di sfuggire al malinteso che fa della gorgia (la c aspirata, probabile retaggio fonetico etrusco) segno d'indiscussa comicità, abbinata a bucoliche immagini collinari e sommarie reminiscenze dantesche. A livello mediatico, il comico toscano è un dato dei nostri tempi, ignoto prima degli anni Settanta. Il fatto che oggi sia percepito alla stregua d'una tradizione spettacolare sedimentata (come quella napoletana, l'umorismo ebraico o quello anglosassone) è un'occasione per riflettere su quanto la comunicazione di massa riesca ad amplificare o creare ex novo fenomeni a proprio uso e consumo.

Storicamente, i toscani non sono affatto considerati simpatici, ma altezzosi, superbi, forti d'un umorismo malizioso, cinico e cattivo. Curzio Malaparte, penna pregiata del nostro Novecento, ne dà sintesi mirabile affermando che la loro ironia può mutar un matrimonio in funerale e un funerale in farsa: «Quando gli altri piangono, noi ridiamo, e dove gli altri ridono, noi stiamo a guardarli ridere, senza batter ciglio, in silenzio: finché il riso gela sulle loro labbra». È il 1956 e nonostante Ginettaccio Bartali, prima icona della toscanità moderna («gli è tutto sbagliaho, gli è tutto da rifare!» il suo refrain), i Maledetti toscani sono ancora “antipatici” o, comunque, distanti dall'avere un'immagine univocamente legata al riso, specie in relazione a teatro, cinema o spettacolo in generale.

I primi film e un grande attore
È la comunicazione di massa e non la secolare tradizione letteraria (peraltro non aliena dalla comicità) a sdoganare la Toscana quale terra comica: prima col Pinocchio di Comencini (1971), poi con Amici miei (1975), film fondamentale per il nostro cinema, al tramonto della commedia all'italiana. Il soggetto originale di Germi è ambientato a Bologna: sarà Monicelli a trasferire le zingarate oltre Appennino, realizzando il primo trionfo comico in salsa tosca. Notevole che tra i cinque protagonisti di questo capolavoro politicamente scorretto non vi siano toscani: nel primo capitolo Renzo Montagnani (nato per caso ad Alessandria, ma di storica famiglia fiorentina) è doppiatore di Philippe Noiret e solo a partire dall'Atto secondo interpreta il barista Necchi, ruolo in precedenza affidato al piemontese Duilio Del Prete.
Montagnani è peraltro una “cartina di tornasole” della nascente vague comica: interprete di prim'ordine in scena e sugli schermi, linguisticamente versatilissimo, nei numerosi film realizzati negli anni Settanta recita in bergamasco, napoletano, veneto, romano (è lui la voce di Romeo er mejo del Colosseo negli Aristogatti di Disney) e solo in pochi casi in toscano, segno d'una tendenza in rapida affermazione, ma non certo diffusa nei primi anni di carriera.

Benigni uomo-immagine
Lo spirito toscano moderno trova il suo profeta in Roberto Benigni: è lui a consacrare, dal 1976, un umorismo (che era) sporco, livoroso e grottesco, nutrito di terra e liquami.
Cioni Mario, primo alter ego dell'artista in scena, tv e cinema, ancorché oggetto di meditata rimozione, è un Pinocchio moderno (ben più della sciapa pellicola datata 2002), declinazione novecentesca d'uno Zanni medievale, mostruoso ed eccessivo. Il monologo del debutto (Cioni Mario di Gaspare fu Giulia, dicembre '75), è un florilegio di poetiche sconcezze, invettive ferocissime (contro il padre, le donne e Almirante, segretario dell'Msi) in un trionfo di turpiloquio e bestemmie “alla contadina”. Non si tratta di volgarità gratuita, tutt'altro: il linguaggio genitale, caratteristica principale dell'attore, è un'urgenza espressiva mutuata dalla cultura di provenienza, dalla sua letteratura, dal Dante dell'Inferno ai poeti giocosi sino alla tradizione medievale dell'enueg, la forma poetica in cui si elencano le cose spiacevoli dell'oggetto cantato. Quando, nello “scandaloso” monologo (traslato prima in tv e poi, nel '77, sul grande schermo in Berlinguer ti voglio bene) l'attore attacca “Almirante... Maledetta l'ora il giorno e l'annata in cui la tu' mamma ti diede la prima poppata…” l'effetto è devastante e il riso del pubblico una sorta di orgasmo crescente man mano che le espressioni usate divengono più estreme. Benigni fonde insieme elementi tipici dell'oralità e stilemi colti (l'aggressione rituale, l'iperbole oscena, il gusto per il rovesciamento carnevalesco), il contado toscano con Dante, Dostoevskij, Shakespeare. Questa fusione grottesca lo rende unico,alieno del panorama comico nazionale: la “sua” risata è grassa, ambivalente, il basso corporeo, la materia escrementizia non sono solo segni di morte, ma elementi di rinascita, trionfo. Si pensi alla sua hit più celebre, L'inno del corpo sciolto, canzone peraltro scaturita dalla lettura del Gargantua e Pantagruel di François Rabelais.
Se da un lato le radici fanno di Benigni il primo e massimo esponente della toscanità moderna, egli è, per paradosso, attore romano: la formazione artistica avviene nelle miticantine della capitale, quelle dell'Avanguardia teatrale degli anni Settanta. E al già citato Cioni per veder la luce farà da ostetrica Giuseppe Bertolucci (figlio del poeta Attilio e fratello di Bernardo), prima spalla, maestro e amico del futuro Oscar. Non solo: se le anteprime fiorentine del monologo indignano il pubblico “popolare”, saranno le repliche romane, con spettatori intellettuali ed esperti, ad avviare il talentaccio di Vergaio al successo di massa.
Dai palchi off dei Seventies all'Academy hollywoodiana i cambiamenti sono stati cospicui: Benigni si è col tempo addolcito, ha smussato gli eroici furori, cambiato collaboratori (fondamentale il passaggio da Bertolucci a Vincenzo Cerami) e assunto atteggiamenti più concilianti, specie rispetto alla Chiesa. Tuttavia, il legame con la propria terra, la povertà, un passato contadino che è biografia reale e non vezzo costruito, si respirano ancora in certe gag come nelle dichiarazioni. Il buffone di ieri è divenuto figura istituzionale dell'oggi, ma, se la Toscana s'è inventata patria di comici, gran parte del merito è da ascrivere a questo diavoletto imprendibile e imprevedibile, alla sua natura terragna e a un retaggio culturale che affonda le radici nella secolare miseria del contado d'una regione dotata di un'identità univoca e complessa.

Giancattivi, gli altri pionieri
La prima ondata toscana sarebbe monca senza i Giancattivi, nella formazione 1978 (Alessandro Benvenuti, Athina Cenci e Francesco Nuti), che debuttano in tv sostituendo i napoletani La Smorfia per la seconda edizione di No Stop, laboratorio di sperimentazione comica assai più del celebrato (e poppettaro) Drive In di qualche anno dopo.
Il trio, attivo dal 1971, si converte alla calata fiorentina più per necessità che per convinzione: la dizione italiana di Nuti all'epoca non è credibile. Portatori d'una comicità aggressiva e absurdista, i tre vengono recepiti dai media come esponenti del filone che, complice Benigni, si sta affermando. Le loro scene, basate su un'improvvisazione spinta all'estremo, sono cattive, abilmente costruite intorno a Benvenuti che tiranneggia il “povero” Nuti, con Athina Cenci pronta a inserirsi, talvolta come spalla, talvolta come ulteriore carnefice: il tutto, utilizzando un italiano sporco di toscano, con battute e figure del linguaggio popolare. Ben presto pubblico e critica connettono queste cattiverie all'immagine del toscano corroborata dall'iracondo Cioni benignesco. L'effetto è quello di una linea, d'un movimento, che di fatto non esiste. Il percorso di Benigni è del tutto diverso da quello dei Giancattivi: se il primo emigra a Roma, gli altri stanziano a Firenze dove, oltre a realizzare spettacoli tra cabaret e teatro, svolgono una vera attività di promozione e organizzazione culturale. Anche per Benvenuti, autore e leader del gruppo, i riferimenti culturali non sono affatto regionali, tutt'altro: il teatro vernacolo fiorentino, che pure conta alcuni grandi autori e svariati ottimi interpreti, è visto come qualcosa di inerte e vecchio. Per capire bene i Giancattivi si deve guardare al Teatro dell'Assurdo francese, a Frank Zappa, a Orson Welles, a Jacques Tati e persino a Carmelo Bene, influenze che il gruppo rielabora in termini comici e personalissimi.
La reale novità rappresentata dai primi toscani, se vogliamo, è proprio questa: rivolgersi al mondo usando la propria cultura come trampolino, senza esaurirsi in essa, forse pure “ignorandola”, dandola per scontata, come dato di fatto.
Esemplare la battuta di Benvenuti a un giornalista, nel 1981, a proposito della toscanità: «Woody Allen secondo voi è un attore dialettale di Manhattan, New York?».

Il decennio pop
Gli anni Ottanta sono il consolidamento della neonata scuola comica: grazie al cinema, con i successi di Benigni (Tuttobenigni, ma soprattutto Il piccolo diavolo) e di Nuti, all'epoca il più fortunato in chiave popolare. Le pellicole del pratese non brillano per originalità, le atmosfere risentono molto della lezione surreale di Benvenuti (da cui Nuti si separa nell'81 dopo l'ottimo Ad ovest di Paperino) e ben presto scadono con trucchi di bassa lega (schiaffoni, banalità en travesti), a fronte di un'ottima tenuta di pubblico. Caruso Pascoski di padre polacco (1988) è il momento migliore di una carriera destinata, causa problemi personali, a declinare nell'arco di un decennio.
Benvenuti prosegue un'ottima carriera d'attore e autore teatrale, senza disdegnare il cinema, specie nella traslazione del suo capolavoro in sceBenvenuti in casa Gori. A fianco dei tre “alfieri”, una generazione di attori, autori e caratteristi, spesso compagni d'esordi dei primi, alimenta e corrobora il novello filone: Carlo Monni, Paolo Hendel, David Riondino, ma anche il drammaturgo Ugo Chiti e altre figure minori, celebri per qualche stagione e poi ripiombate nell'anonimato.

Il bischeraccio e la banalizzazione
La vera svolta per la comicità toscana avviene però grazie a un altro personaggio, non attore in prima persona, ma centrale e innegabilmente comico: Vittorio Cecchi Gori. Alla fine degli anni Ottanta, l'azienda di famiglia, nata e prosperata sotto l'attenta guida del padre Mario, attraversa un periodo di grandi successi. Vittorio (detto bischeraccio dallo stesso genitore) rileva l'attività e, complice la moglie Rita Rusic (si maligna che sia lei a fiutare il business), investe coraggiosamente su una generazione di nuovi talenti, divenuti celebri grazie ad alcune riuscite trasmissioni del circuito televisivo regionale. Si tratta di figure non troppo dotate, ma che, approfittando della situazione, beneficiano di copiosi finanziamenti e riscuotono ottimi consensi a livello nazionale. È infatti con Giorgio Panariello, Leonardo Pieraccioni, Carlo Conti, Massimo Ceccherini e altri ancora che la Toscana diviene genere, marchio vincente, in modo tanto efficace quanto deteriore.
I film di Pieraccioni si basano su una Toscana da cartolina, decontestualizzata, sono alimentati da storie d'amore ben oltre il limite della banalità e in cui la lingua è un fiorentino standard che coincide esattamente con l'idea che l'italiano medio ha del toscano. La volgarità, mai eccessiva, è esibita ma non urgente, macchiettistica e, dunque, realmente volgare. La radice culturale è enfatizzata, quasi fosse un marchio d'origine, rovesciando completamente la prospettiva dei predecessori. Lo stesso vale per Panariello, attore televisivo che punta tutto sul tormentone dei personaggi e non sulla loro profondità comica: millanta una parentela artistica col Verdone degli esordi, ma è anni luce lontano dallo sguardo balzachiano del romano, restando sempre sulla superficie dei caratteri, in cui la realtà contemporanea è sfottuta ma, sotto sotto, ammirata. Ceccherini è, potenzialmente, l'unico vero artista della covata, ma una vita personale un po' troppo spericolata gli impedisce di far valere il proprio talento: eppure nei suoi film, quasi volutamente di serie B, si rintracciano idee e gag potenti, cariche d'una violenza comica fuori dal comune.
In nessuno di questi ultimi toscani, ormai neanche più nuovi o giovani, si rintraccia un'eco lontana della necessità espressiva dei predecessori: il rapporto con la terra d'origine si è capovolto in modo perverso e la Toscana, da naturale trampolino di lancio, è divenuta un connotato tanto esibito, inerte e, alla fine, irritante.

Stabilità, rilancio o declino?
La responsabilità della covata cecchigoriana sta tutta nell'affermazione d'un modello mediatico che, se coi “padri” aveva trovato profondità d'ispirazione e connessioni non banali con le proprie radici (Benigni è, o era, più Cecco Angiolieri che Dante), adesso vive di elementi esteriori, di coloriture, di cartolinismo. Una Toscana tanto simile al Chiantishire degli inglesi che stanno comperando la provincia senese, buona per gli spot delle merendine, ma oltremodo distante dalla realtà contemporanea o da un'epoca aurea citata quasi sempre a sproposito.
È vero che, a tutt'oggi, l'accento fiorentino è affermato segno comico, ma sembrerebbe da registrare un comprensibile calo d'interesse verso il prodotto, a seguito delle inevitabili oscillazioni del mercato. Se la Toscana pare avere qualche sparuta freccia al proprio arco dal punto di vista della comicità, lo si deve alla “meno tosca” delle sue città, quella Livorno meticcia e aliena (unico centro urbano estraneo al passato medievale ed escluso da un processo identitario plurisecolare), sboccata e irriverente: da qui sono partiti il regista Paolo Virzì, il comico Paolo Migone, numerosi autori satirici formatisi sulle pagine del glorioso Vernacoliere, mensile di satira integra e cattiva che, di tanto in tanto, assurge alle cronache nazionali grazie ai suoi titoli irresistibili (“Era meglio un papa pisano”, in occasione dell'elezione di Ratzinger). Livorno, però, è una Toscana altra, diversa, che solo l'occhio inesperto del forestiero riesce a collegare, con errore, alle regionali consorelle: le sorti del “nostro” filone non possono, probabilmente, dipendere dai suoi artisti.
I movimenti nascono, vivono e muoiono: sorta con le tiratacce d'un Benigni incazzato col mondo e le imprese degli zingari di Monicelli, cresciuta con Benvenuti e Nuti, la moderna comicità toscana, nel momento di affermata riconoscibilità sembra però destinata al declino d'una contraffazione beffarda, come il risibile episodio accaduto a Cecchi Gori il quale, sorpreso in piena notte dalla Guardia di Finanza con nove grammi di cocaina nella cassaforte di casa (inchiesta poi archiviata - uso personale), sosteneva con ostinazione che fosse zafferano.

lunedì 13 luglio 2009

E il Chianti divenne Tebe. Alfonso Santagata e il ciclo d'Edipo a Torre Luciana

(da teatro.org)
L’odore di menta e nipitella inonda la campagna chiantigiana lungo il viale sterrato che conduce a Torre Luciana, suggestivo osservatorio astronomico tra oliveti e vigne di sangiovese. La serata è limpida, fresca nonostante la stagione, il cielo chiaro in lontananza verso la mai rimpianta Firenze: gli spettatori, tra cui Massimo Salvianti, ottimo attore della compagnia di Ugo Chiti “Arca Azzurra”, camminano per qualche decina di metri, qui giunti chi a piedi chi a bordo di un apposito bus della locale amministrazione comunale. Al cancello d’ingresso un’insegna indica l’inizio dell’Ade, l’oltretomba della cultura ellenica: una bambina con minute ali angeliche riceve, seriosa e compunta nella propria mansione carontea, il pubblico da scortare nel viaggio inferico di questa Tragedia (nell’occasione il titolo recita a Torre Luciana) allestita da Alfonso Santagata, attore, regista, teatrante, di lungo corso, uomo di scena e di riflessione su essa.

Il più celebre ciclo sofocleo (Edipo Re, in cui il protagonista si scopre uccisore del padre e marito della madre; Edipo a Colono, sull’esilio del sovrano e la successiva guerra fratricida che infesta Tebe; infine Antigone, in cui la figlia di Edipo s’oppone all’inumano ordine del tiranno Creonte di non riservare sepoltura rituale al “traditore” Polinice) si snoda nella sua interezza ben sfruttando i meravigliosi spazi dintorno l’antico casamento, sede dell’osservatorio: con sapiente utilizzo d’illuminotecnica, riscrittura drammaturgica e direzione attorica, le presenze dolorose e incommensurabili dell’antica Tebe (ri)trovano voce, tempi e luoghi, per mostrarsi ai guardi sorpresi d’un pubblico ben presto catturato dalla fascinazione teatrale.
Ora è il cieco Tiresia (Johnny Lodi) ad apparire, ieratico e solenne, in uno slargo opportunamente ricoperto di teli bianchi e tulle, ora è un Edipo vestito d’improbabili e umili panni scuri (Alfonso Santagata) a parlare in prossimità di altoparlanti fissati a una torretta di tubi innocenti simile a certi podi da comizio anni Cinquanta. Ogni visione sgorga dal nulla, inattesa: gli angoli dell’ampio piazzale s’animano a turno, imponendo agli astanti un vero viaggio iniziatico, novelli Enea calati in un Ade tutto scenico. Teatro, nell’etimo, significa vedere le cose che sono nascoste, ed è proprio questo che sembra suggerire questo spettacolo avvolgente, profondo, lacerante e mai, fortunatamente, compiaciuto o furbetto.

Il nulla del buio estivo della campagna del Chianti s’approssima a quel Nulla primigenio e indescrivibile del dolore d’esistere, di quel grido lancinante e orrendo di chi, toccato dal dio, s’inebria di senso tragico, di quel Nulla che è fondamento e presupposto della tragedia attica.
Non si piange, o almeno, non si piange soltanto e, di certo, non si piange per mera psicologia: soggetto e coscienza sono concetti per fortuna estranei alla Grecia tragica; i personaggi sono in realtà potenze abissali e distanti dalla misera e trascurabile dimensione del genere umano.
Il nostro presente non permette una consonanza pura e semplice con la tragedia classica, ed è per questo che Santagata dosa sapientemente ironia e serietà (senza esser, gliene siamo grati, serioso): perché le verità più terribili, il dolore più indicibile può essere affrontato solo con il riso comico, pieno e sapiente, il riso dell’Amleto teatrante, il riso di chi ha visto. È questo il miglior pregio d’uno spettacolo tutto da ammirare, ascoltare, odorare, nell’olezzo mezz’estivo d’una Toscana profonda, mutata per incantamento nella Tebe trasudante sangue e morte.

Accompagna gli attori un’improbabile coppia di “narratori”: Antonio Alveario, agghindato alla stregua d’un ridicolo cantante di liscio, giacca sgargiante e occhialetti scuri, e Rossana Gay, sorridente in modo buffo e accattivante, munita in pari misura d’accento sardo irresistibile e tailleur rosa. Ironia e comicità, lubrificanti necessari per sostenere la terribile vicenda, sino alla sua rapida e inevitabile conclusione, nel sacrificio estremo d’Antigone (la potente Daria Panettieri), che regala uno dei momenti più forti del pur breve (un’ora circa) allestimento.

Questa Tragedia, con le sue apparizioni, le sue improbabili e azzeccatissime coloriture comiche, i suoi climax e il suo pathos profondo è un piccolo gioiello, ed è bello pensare che si tratti d’un cavallo di battaglia di Santagata a unire didattica, pratica teatrale e confronto col pubblico. L’operazione aveva debuttato a Santarcangelo una decina di anni or sono, per poi essere replicata in locazioni differenti: si tratta, infatti, d’adattare l’allestimento a particolari situazioni e farne il punto d’arrivo per laboratori con giovani attori della durata di circa dieci giorni. È così che, alla compagna “storica” di Katzenmacher (tra quelli non ancora citati, ricordiamo Francesco Pennacchia in un perfetto e durissimo Creonte, Tiziana Giuliani e Samuel Osman) si uniscono le attrici che formano il Coro, puntuali nei movimenti così come nell’alternanza tra frasi, racconto e urla caotiche tipiche del thiasos.

La storia si conclude; in lontananza Edipo e Ismene sfumano nel bagliore rosso che dipinge la statua a forma di falce di Mauro Staccioli (monumento inaugurato a Torre Luciana da circa un anno): per l’ennesima volta, la scena, (non) luogo liminare e misterioso per eccellenza, ha sprigionato le sue presenze dolenti, la sue aberranti vicende di tabù infranti e ineluttabili sofferenze. Per l’ennesima volta, il paradossale mito del saggio che si fa cieco si è mostrato, grazie al teatro, disciplina del vedere le cose nascoste, Rito misterioso e terribile, Gioco Serio che nessun altra arte potrà mai garantire, lasciando gli spettatori con un buco allo stomaco e la loro deludente umanità.

Visto presso l’Osservatorio Astronomico di Torre Luciana, San Casciano Val di Pesa (Firenze), 11 luglio 2009.

Spettacolo
Tragedia a Torre Luciana
di Alfonso Santagata
ispirato a Sofocle
con: Johnny Lodi (Tiresia), Alfonso Santagata (Edipo), Rossana Gay (Narratrice), Antonio Alveario (Narratore), Daria Panettieri (Antigone), Francesco Pennacchia (Creonte, Eteocle), Tiziana Giuliani (Ismene), Samuel Osman (Polinice)
Produzione: Katzenmacher

martedì 7 luglio 2009

Lo spettacolo della morte. Anatomia teatrale del suicidio politico

La morte è concetto paradossale, limite asintotico della riflessione umana: la si può immaginare, evocare, produrre e infliggere, ma difficilmente la si riesce a pensare. La nostra contemporaneità, avida di reale comunicazione ma congestionata di voci, suoni, grida e colori, la rimuove semplicemente, rubricandola ad alterità ignota, col risultato che, quand’essa prorompe inevitabilmente nell’esperienza, si resta muti, immoti e anestetizzati.
Tra le discipline artistiche, il teatro è quella più prossima alla morte, all’evocazione d’un dolore primigenio e insopprimibile, lambito tramite il registro altisonante della tragedia o attraverso la profondità misterica del comico. E la scena stessa è quel luogo liminare ove i morti ricompaiono attraverso ritualità definite.

Histoire de ma mort. Preparativi per la scena madre di Paola Marcone ha quindi il merito di scoprire le carte e tentare un coraggioso corpo a corpo con un soggetto tanto ordinario e straordinario dell’esperienza, optando per una sua peculiare declinazione, quella della morte scelta, autoimposta e fattasi “spettacolo”, a scopo politico, di rivendicazione e di sacrificio.

È già il primo quadro, successivo a una videoproiezione di cornice indicante titolo e inizio della recita, a denunciare la natura eminentemente teatrale dell’allestimento: due incerti e comici becchini tentano, con risibili risultati, di spostare la bara in cui è riposto il corpo d’Ofelia. Valerio Amoruso dall’indovinata postura deforme, arlecchinesca, accompagnata da un grottesco grammelot gutturale, e Matteo Vagelli si alternano in buffe sequenze di reiterazione gestuale, disquisendo sulla natura del suicidio della ragazza e la discussa decisione di darne regolare sepoltura ancorché suicida. Il dialogo, intervallato dagli inutili sforzi di sollevare la cassa, s’interrompe al rintocco dei colpi nel legno cui consegue la spettrale apparizione della defunta: costume rosso, vistosa gorgera da personaggio carroliano, parrucca ingombrante, Paola Marcone (ri)dà vita a un’Ofelia rapida e squittente, alla stregua di certe interpretazioni muliebri di Anna Marchesini. L’interazione tra le tre figure è altamente comica, forse memore di certe variazioni su tema scespiriano di Tom Stoppard, minando dall’interno la seriosità (non la serietà) del tema. Altrettanto d’improvviso, il quadro si chiude alla stregua d’una prova aperta, con tanto di voce dal banco mixer a dare il via libera agli attori: cambio di costume a vista, ecco i tre comparire dietro allo schermo trasparente, in corrispondenza di altrettanti microfoni: Amoruso a sinistra, Vagelli al centro, Marcone a destra.

Ha quindi inizio una sorta di concerto vocale, in cui lacerti testuali, monologhi spezzati rimbalzano da una voce all’altra, fondendosi e confondendosi a brani musicali e proiezioni video. Lo spettacolo si fa paratassi straziata nell’evocazione visiva, verbale e sonora, d’un dolore sociale, politico, a unire martiri suicidi: dall’italiano Lauro De Bosis (spesso ignorato dalle nostre scuole) al ceco Jan Palach sino a Wafa Idris, prima donna kamikaze lasciatasi esplodere a Gerusalemme nel 2002.

Gli attori s’alternano in brevi lacerti scenici, i movimenti plastici e convulsi creano effetti visivi sia grazie ai fari verticali, che circoscrivono i rispettivi spazi in gabbie di fasci luminosi, sia alle ottime proiezioni, sgranate e sofferte, di Giacomo Verde. Le immagini riflesse doppiano, differenziandosi per dettagli o inquadratura, le figure degli stessi attori, rendendo il quadro visivo vertiginoso e spiralico, alimentando la drammaticità dell’allestimento. Le musiche, quasi tutte registrate con l’eccezione di alcuni interventi rumoristici e psichedelici di Vagelli alla chitarra elettrica, seguono l’andamento dei testi e finiscono per creare ripetute dinamiche in crescendo, indugiando forse eccessivamente sull’effetto climax, tanto che lo spettacolo sembra chiudere svariate volte prima della didascalia finale, un’ultima proiezione che decreta il termine della performance.

L’allestimento è pregevole, al netto di alcuni inevitabili dettagli da meditare, dato che si tratta, lo dice il titolo stesso, di preparativi: il teatro è anche questo, ossia produrre lavori in fieri, a livello di studio, per sondarne efficacia, direzione e potenzialità espressive.
Histoire de ma mort si dimostra intuizione fruttuosa, in cui i testi risultano forse meno efficaci del potente apparato audiovisivo: al di là di considerazioni prettamente politiche sul senso del suicidio e del sacrificio pubblico, che meriterebbero un congruo spazio, l’impressione è che la paradossalità comportata dalla morte si riverberi proprio nella difficoltà di verbalizzazione del problema. La parola è logos, ma anche sistema retorico che veicola e imbriglia qualsiasi senso profondo, di frequente banalizzato nella sua traduzione verbale in depotenziata ridondanza; là dove si ha l’impressione che si voglia dire troppo, suono, corpo, voce e immagini riescono in qualche modo a precedere e trasmettere in maniera più efficace, diretta, l’impatto profondamente emozionale ed espressivo.
Spettacolo che ha il merito e il coraggio di provarci, la cui esperienza speriamo possa giovare all’eventuale scena madre che ne conseguirà.

Visto a Buti, Teatro Francesco di Bartolo, il 30 giugno 2009.

Spettacolo
Histoire de ma mort. Preparativi per la scena madre
con Valerio Amoruso, Paola Marcone e Matteo Vagelli
direzione tecnica: Riccardo Gargiulo
ambientazione sonora: Fabio Bartolomei
video: Giacomo Verde
costumi: Fondazione Cerratelli
foto: Raoul Terilli
drammaturgia e regia: Paola Marcone
produzione: Bubamara Teatro e Teatro Francesco di Bartolo di Buti

lunedì 18 maggio 2009

Turandot e la fine del melodramma: sogno orientale o quotidianità novecentesca?

È un costante interrogativo del teatro, quello del rapporto tra messinscena e testo, tra fedeltà letterale, filologica, e un atteggiamento più libero, smaliziato, spesso animato dalla ricerca di altri livelli (non per questo gerarchicamente meno rilevanti) di fedeltà, in grado di mirare allo spirito di un’opera, al suo senso nel complessivo corpus d’un autore e al significato che può avere questa la sua messinscena nel qui e ora del palco. La questione è ancor più delicata quando viene affrontata in ambito lirico, dato che il melodramma, per sua stessa natura, prevede un rigido rispetto del dettato verbale e musicale, da cui è praticamente impossibile liberarsi. È quindi la regia il campo d’invenzione libera più aperto nell’allestimento di un’opera di teatro musicale, l’ambito in cui l’interpretazione diviene più evidente e, talvolta, dissonante da un “polveroso” rispetto dell’originale. Anzi: di quello che si pensa essere l’originale.

È per i motivi sopra elencati che abbiamo dunque assai apprezzato la Turandot data al teatro Goldoni di Livorno, in cui la regia di Henning Brockhaus si segnala per una profondità per niente paludata, un buon gusto coloristico e una vivacità dei movimenti tali da rendere piacevolissimo lo scorrere dei tre atti pucciniani. Le scelte, specie all’inizio, sono piuttosto radicali: ad “attutire il colpo”, ci pensa una breve ma puntuale, prolusione, da parte del consulente musicale della Fondazione Goldoni Daniele Salvini a collocare, sotto il profilo tematico e musicale, l’ultima fatica di Giacomo Puccini.

Turandot è, infatti, un testo chiave nel lavoro del compositore lucchese, l’ultimo indiscusso grande autore del melodramma che, proprio con questo capolavoro, sancisce di fatto la fine di una storia lunga di oltre tre secoli, quella dell’opera lirica. Ed è con Turandot, in pieno Novecento (vi lavora dal ’19 al ’24), che Puccini compie uno sforzo inedito, dal punto di vista sia della concezione scenica sia della composizione sonora. Contraddicendo la sua supposta vena realistica, nutrita di sentimenti, di storie profondamente umane, per il soggetto egli si rivolge al mondo favolistico orientale, filtrato dal settecentesco veneziano Carlo Gozzi: sceglie dunque una favola, una storia in cui i personaggi sono sì portatori di sentimenti, ma talmente assoluti e titanici, da sospettare che ci si trovi di fronte a presenze simboliche più che a caratteri in senso tradizionale. La storia dell’amore di Calaf per la crudele principessa e del sacrificio supremo che Liù compie per il proprio amato e desiderato sovrano travalicano i meccanismi “meramente” psicologici dei precedenti capolavori pucciniani, senza però contraddirli del tutto. È come se ci trovassimo in una nuova e altra dimensione del comportamento: Calaf è un innamorato ma anche qualcosa di più, un quid ulteriore, e così gli altri principali attanti del dramma, la stessa Turandot e, ovviamente, la vera eroina della storia, Liù. E non è, forse, un caso, che sia la morte di Liù a segnare definitivamente la conclusione della scrittura pucciniana: terminata la scena in cui la donna si sacrifica per amore e per un altro amore, il Maestro non scrive più niente. Non possiamo certo dire se per scelta o per la criticità delle condizioni fisiche, ma sta di fatto che oltre non andò, che l’opera fu terminata da Franco Alfano e che alla prima del 1927, Arturo Toscanini si fermò in quel punto e, rivolgendosi al pubblico, dichiarò, non senza sorpresa degli spettatori: “L'opera finisce qui perché a questo punto Puccini è morto”, senza più proseguire.

La partitura musicale di Turandot, al di là della più celebre aria divenuta, purtroppo, carne da best of, testimonia inoltre un’incredibile modernità, tutta pucciniana, pur nel rispetto della propria natura “italiana”: soluzioni melodiche e armoniche sorprendenti, talvolta per dissonanza talvolta per quella morbidezza plastica, quella sinuosità potente e mai scontata che è matrice principale della scrittura del Maestro.

Di fronte alla densità d’un simile capolavoro, è quindi da encomiare lo sforzo registico di Brockhaus, quell’incipit svolto su una marina versiliese, con tanto di gelataio e di passeggio di primo Novecento: l’irruzione dei clown, che suonano un gong, prima e non ultima chinoiserie di un’opera basata sul gusto per l’orientale all’epoca in voga da vari decenni, che distribuiscono maschere, costumi (firmati da Stefania Tosi) e ruoli, sembra ricuperare Puccini alla sua dimensione vera e più intima: la scrittura per il teatro, com’egli stesso aveva confidato all’amico Adami. Puccini è infatti indissolubile dalla scena, dalle invenzioni visive e dai movimenti, è teatrale, assai più (e meglio) di molti illustrissimi suoi precedessori: per questo l’inizio di Brockhaus, pur forse troppo lungo, è bello, indovinato e, conditio sine qua non d’ogni “invenzione” registica, non gratuito.

Da qui, si dipana un dramma vivido, ricco di movimenti, con un carrozzone centrale che diviene simbolo dell’intrattenimento circense e palazzo regale, alle cui spalle campeggia un nuvoloso cielo marittimo che sembra uscito dal pennello d’un macchiaiolo, frutto del lavoro scenografico di Ezio Toffolutti di concerto con la già citata Stefania Tosi.

Il clown, l’ottimo Jean Méning, distribuite le maschere, diviene “coreografo in scena”, accompagnando i movimenti, interagendo coi cori, i danzatori, i cantanti stessi. A questo proposito, ottima prova di Giovanna Casolla, Turandot potente e spietata, indomabile, così come quella del coreano Francesco Hong che rende un Calaf forse troppo statico ma sicuro nelle impennate d’una partitura assai impegnativa. In tema di clownerie, sono irresistibili le soluzioni studiate per Ping, Pong e Pang (rispettivamente l’ottimo baritono Walter Franceschini, assieme ai due timbri tenorili di Max-René Cosotti e Cristiano Olivieri), veri e propri mattatori, al pari di Méning, della messinscena, mentre Rachele Stanisci, cui è affidata la complessa parte di Liù, è assai brava nella resa sentimentale del carattere, ma forse un poco sottotono dal punto di vista della forza vocale. Non sembra convincere, purtroppo, Elia Todisco in un Timur cui avrebbe giovato una maggior pulizia, a fronte d’una notevole ed encomiabile presenza scenica.

La direzione dello slovacco Oliver von Dohànnyi è ordinata, i passaggi fluidi e potenti, così come ottimo l’apporto, sia musicale sia scenografico, del Coro del Teatro Sociale di Rovigo diretto da Giorgio Mazzuccato. Qualche perplessità, invece, destano le coreografie firmate da Maria Cristina Madau, con qualche indulgenza sincretica in eccesso e non sempre un’adeguata sicurezza d’esecuzione.

La storia giunge alla morte di Liù, ultima grande eroina pucciniana, ultima pagina vergata dal Maestro: d’incanto, i personaggi, smettono i luccicanti panni d’una fiaba orientale, riacquistando la propria dimensione quotidiana delle mise d’inizio Novecento. Le note di Alfano conducono i protagonisti al matrimonio civile, come a dire: Puccini è morto, e con lui le mirabilie del grande teatro operistico, nato a Firenze nel Seicento e morto, non distante dal capoluogo toscano, tre secoli dopo.

Visto a Livorno, Teatro Goldoni, il 15 maggio 2009.

Spettacolo - Opera lirica
Turandot
Dramma lirico in tre atti e cinque quadri
musica di Giacomo Puccini, testo di Giuseppe Adami e Renato Simoni; musiche terminate da Franco Alfano
con Giovanna Casolla (Turandot), Francesco Hong (Calaf), Rachele Stanisci (Liù), Ping (Walter Franceschini), Pong (Max-René Cosotti) e Pang (Cristiano Olivieri), Elia Todisco (Timur), Jean Méning (clown)
orchestra: Filarmonica Veneta G. F. Malipiero
direzione orchestrale: Oliver von Dohánnyi
coro: Coro del Teatro Sociale di Rovigo diretto da Giorgio Mazzucato
scenografia: Ezio Toffolutti
costumi: Stefania Tosi
coreografie: Maria Cristina Madau
regia: Henning Brockhaus
produzione: Opera di Roma - Teatro Sociale di Rovigo; in coproduzione con Fondazione Teatro Goldoni, Teatro dell’Opera Giocosa di Savona,
Teatro Sociale di Trento, Teatro Comunale di Bolzano, Teatro Comunale di Vicenza

sabato 9 maggio 2009

Frankestein, o la mostruosità dell'esistenza

Il Novecento ha variamente sfruttato Frankenstein, al cinema, in tv, a teatro, spesso banalizzandone la portata, calandolo in fuorvianti atmosfere orrorifiche, facendo leva sulla mostruosità più accessibile ed evidente. Di rado si è toccata la questione più delicata, e tuttora irrisolta, della creazione artificiale di un essere vivente e delle conseguenze del caso. In questo senso, l’operazione di Stefano Massini, autore cui l’attributo giovane può suonar del tutto riduttivo (è un complimento), ha certo una sua validità, ribadita pure dalle note di regia che accompagnano la prima assoluta dell’allestimento.

Un grande schermo sul fondo della scena si staglia d’un barlume lentissimo, offrendo il profilo sfocato d’un volto non si sa se umano o deforme. La peculiare voce di Sandro Lombardi, non bella in sé, ma avvolgente, un poco flautata e oltremodo magnetica, azzarda un racconto franto, un discorso sulla nascita coatta e la tragicità dell’esistenza in quanto tale. Le parole smozzicate, non del tutto comprensibili, lasciano percepire il dolore d’un venire al mondo non solo forzato, ma gratuito, non richiesto. Le asserzioni di questo Frankestein dolente sono parole buone non solo per un essere aberrante della sua risma: parlano a tutti noi, riecheggiando in qualche modo il satiro Sileno catturato da Re Mida, in un mito greco riportato da Friedrich Nietzsche ne La nascita della tragedia: il segreto dell’esistenza umana è non essere nati o, una volta venuti al mondo, morire il prima possibile.

La bella scena polivalente creata da Laura Benzi accoglie quindi da una botola pavimentale l’ingresso dei personaggi: quadretto di famiglia con partoriente, assistita dal marito e coadiuvata da un’ostetrica ciarliera. La storia di Victor (interpretato da Daniele Buonaiuti) viene dunque ripercorsa, stravolgendo, di conseguenza, la narrazione del romanzo: è il futuro dottor Frankestein, cocciuto Dedalo alla ricerca degli ultimi segreti per sconfiggere la morte, al centro della vicenda, in un percorso diretto alla terribile creazione. Sorta di Stationendrama, questo Frankestein massiniano offre stralci salienti della vita di Victor intervallati dai monologhi della bestia, della creatura, a rinfacciare al padre la mostruosità ultima e irreversibile: avergli dato la vita.

La partitura drammaturgica, ricca di spunti e riferimenti mitologici o religiosi (gustosa la parodia del giardino dell’Eden rappresentata dalla biblioteca paterna, con una e una sola sezione di libri "proibiti") ha il merito innegabile di non semplificare la questione frankensteiniana, ma, da questo punto di vista, l’obiettivo polemico, se così è concesso di dire, non è certo l’originale letterario, capolavoro assoluto in un secolo così vivido e strabiliante per la letteratura inglese, quanto la sua ricezione novecentesca. Non si vuol certo deprezzare uno spettacolo ben condotto, con qualche pecca risolvibile nell’interpretazione attorica, quanto però ravvisare, eventualmente, alcuni margini (ancora) inespressi del testo e dell’allestimento. Rapportarsi ai classici, tale è da considerare il romanzo della Shelley, è operazione da incoraggiare e che Massini pratica spesso (il Van Gogh de Il rumore assordante del bianco è, del resto, anch’egli un classico, latu senso, della nostra cultura), ma oltre al coraggio di interrogarli e/o stravolgerli, il risultato dovrebbe essere di aggiungere, evidenziare, portare alla luce degli aspetti se non originali, almeno ignoti dell’opera o dell’artista preso come riferimento. Pensiamo, a titolo d’esempio, all’inesauribile serie d’Amleti beniani, alle operazioni scespiriane di Leo, alle (de)costruzioni testuali e teatrali che abbondano nell’ambito scenico del miglior teatro italiano degli ultimi cinquant’anni. Di fronte a questi confronti, del tutto giustificati poiché Massini è, lo crediamo, teatrante di razza, questo Prometeo moderno rischia d’impallidire, pur nell’evidenza dei suoi meriti: non riesce nell’impresa di graffiare l’anima dello spettatore, imprimendo nel ricordo un’impronta di dolore, che l’accompagni anche fuori dal teatro, e nei giorni successivi.

Questo Frankestein, dalla realizzazione visiva godibile, dalla scrittura intensa e ben calibrata, dall’interpretazione discreta, ma ancora forse in fieri (da citare in positivo, l’energico padre di Amerigo Fontani, forte e ben deciso nell’arginare, senza successo, gli ambiziosi progetti del figlio), rischia purtroppo di mancare di sangue, finendo per assimilarsi ad altre visioni, altri spettacoli non male ma, alla fine, neppure troppo bene e sappiamo che questo è un risultato ben distante dalle giustissime intenzioni dei suoi realizzatori.

Visto a Prato, Teatro Fabbricone, 8 maggio 2009.

Spettacolo
Frankestein ossia il Prometeo moderno
ispirato liberamente all'omonimo romanzo di Mary Shelley
con Luisa Cattaneo, Silvia Frasson, Amerigo Fontani, Alessio Nieddu, Simone Martini,Antonio Fazzini, Roberto Posse e Sandro Lombardi (in video)
testo e regia: Stefano Massini
produzione:
Teatro Metastasio Stabile della Toscana

venerdì 27 marzo 2009

Commedia plautina e poesia pasoliniana: il piccolo miracolo del Vantone

(da teatro.org)
È una Roma metafisica, onirica, ma al contempo viscerale, vitale, abitata da presenze slabbrate, truffatori e scrocchi, gente da male e varia umanità, quella messa in scena da Roberto Valerio alle prese con quel piccolo gioiello di (ri)scrittura plautina che è il Vantone di Pier Paolo Pasolini.

La scenografia, firmata da Giorgio Gori, è una visione essenziale, pulita: uno sfondo cromaticamente cangiante e una struttura lignea a due aperture sulla sinistra. Spazio ampio, vuoto arioso e prezioso offerto al respiro d’una lingua materica e corporea, quel romanesco in rima, lordato e terragno, che evoca certi passi di Giuseppe Gioacchino Belli.
Non è lingua archeologica (Vantone è, peraltro, sorta di neologismo, riuscitissimo, che non ha occorrenze nella letteratura e nell’uso romaneschi) né proiezione moderna o contemporanea, ma lingua poetica, unica vera soluzione per la traslazione espressiva e artistica dei dialetti (si pensi, ad altre latitudini, a Ugo Chiti, Dario Fo, Emma Dante, ma anche al Fabrizio De André pseudo-genovese).

Il Miles gloriosus di Tito Maccio Plauto approda quindi in una contemporaneità assurda e sospesa: il fanfarone Pirgopolinice è ben reso da Nicola Rignanese con un’interpretazione ottimamente calibrata sul carattere (retaggio d’una maschera arcaica della paillata latina), sempre sopra le righe, con movenze guappe, secche e accelerate.
L’intreccio della fabula è semplice, basato sul modello classico: l’amore di due giovani (Filocomasia e Pleusicle) è impedito dal rapimento compiuto da un soldato smargiasso e vantone che finirà per essere gabbato, vittima degli intrecci orditi dal furbo Palestrione servo di Pleunice.
A questo testo, il più lungo dell’intero corpus teatrale plautino, Pasolini applica, oltre alla reinvenzione linguistica (in opposizione alla traduzione, col rischio di rendere ancor più cristallizzato un testo risalente a oltre due millenni fa), un’appropriatissima vocazione musicale, pronta a esplodere in alcuni momenti d’irresistibile teatralità: pensiamo all’irruzione, potente e sentimentale, della voce di Domenico Modugno con Che cosa sono le nuvole?, canzone scritta a quattro mani proprio con Pasolini per l’omonimo episodio inserito nel film Capriccio all’italiana.

Se questo Vantone ha un pregio è, in ogni caso, quello della pulizia: in senso estetico, in senso scenico, in senso poetico. E spettacoli del genere dovrebbero esser mostrati agli aspiranti registi e ai frequentatori delle scuole di recitazione: nessun elemento di troppo, direzione degli attori puntuale, perfetta, sfruttamento dello spazio preciso.
Una regia così pulita, solo apparentemente facile, firmata da Roberto Valerio ottimo anche nella veste d’interprete, ha il grandissimo pregio di lasciar campo libero alla lingua, a quel meraviglioso impasto di termini e versi che inserisce a pieno diritto questo testo tra le migliori produzioni dialettali di Pasolini. L’evidenza di ciò è data dall’accessibilità della messinscena, in grado di divertire, strappare applausi e riscuotere consensi pur a fronte di un testo per niente facile, di non immediata comprensione.
Oltre al pregevole lavoro di Rignanese è d’obbligo sottolineare la bravura estrema degli attori, in particolare Massimo Grigò (e non è, ormai, una novità), interprete di grande centratura vocale, presenza e sorprendete levità, e l’abile Roberta Mattei, che riesce a gestire e differenziare con grande efficacia due ruoli. Il tutto concorre a rendere questo spettacolo una piacevolissima sorpresa, un piccolo gioiello emozionante e divertente, nella sua peculiare eleganza e misura, nei suoi riferimenti alla cinematografia pasoliniana, al varietà, a quel mondo minore, artistico e antropologico, che costituiva un polo d’attrazione irrinunciabile per il Pasolini degli anni Sessanta.
Facile sarebbe stato scadere nel pretenzioso, nella forzatura strillata del riferimento attualizzante e scomposto che pure sembra cifra stilistica di altri teatranti d’attuale successo, ed è per questo che, dunque, consideriamo questo Vantone allestimento felice, raro, da seguire con attenzione e, azzardiamo, speranza.

Visto a Pistoia, Teatro Manzoni, sabato 21 marzo 2009.

Il vantone
di Pier Paolo Pasolini da Plauto
con Francesco Feletti, Massimo Grigò, Roberta Mattei, Michele Nani, Nicola Rignanese, Roberto Valerio
regia: Roberto Valerio
scena: Giorgio Gori
costumi: Lucia Mariani
luci: Emiliano Pona
produzione: Associazione Teatrale Pistoiese/Teatridithalia

martedì 10 marzo 2009

L'indeterminatezza della verità

(da teatro.org)
Possibile portare la scienza a teatro? Domanda forse oziosa, aperta a differenti soluzioni. Di certo è sempre arduo piegare una disciplina espressiva in sensi che non le sono propri, pure didattici: che la scena e l’arte in genere possano assolvere a compiti d’insegnamento è infatti dubbio, benché non manchino esempi di senso opposto.

Copenhagen, testo del britannico Michael Frayn (autore contemporaneo, suoi anche Rumori fuori scena e Miele selvatico), regia di Mario Avogadro con un tris d’interpreti navigati quali Giuliana Lojodice, Umberto Orsini e Massimo Popolizio, sembra raccogliere coraggiosamente la sfida: da dieci anni infatti (il debutto è del 1999) porta in scena la fisica o, meglio, una vicenda strettamente connessa con la scienza e la storia del Novecento.

In uno spazio metafisico, caratterizzato da uno sgombro piano inclinato ai cui lati vi sono dei gradoni in legno e una serie di lavagne recanti formule scientifiche, tre personaggi s’incontrano, intrappolati nella visione realizzata da Giacomo Andrico. Verso il proscenio, una coppia; più in alto, vicino alle lavagne, un altro uomo, distante: a parlare per primo è il duo, il celebre fisico ebreo danese Niels Bohr (Umberto Orsini) e la moglie Margrethe (Giuliana Lojodice). Il primo dialogo è funzionale, teso a ricostruire la situazione, come nei prologhi delle commedie d’un tempo, tirando le fila d’una storia persa nel tempo e nello spazio. Appare chiaro sin da subito, infatti, che il luogo in cui si trovano i personaggi è un altrove sconosciuto, inquietante, per quanto questi non se ne curino troppo. Entrambi rievocano l’incontro avvenuto, nel 1941, tra Bohr e il suo allievo prediletto, Werner Heisenberg, celebre per aver teorizzato il principio di indeterminazione, al tempo docente universitario con cattedra a Lipsia e perciò al soldo della Germania hitleriana.

Le battute rimbalzano tra la coppia in proscenio e l’uomo sul fondo, nell’incomunicabilità tra i due piani che riferiscono autonomamente delle circostanze di quel misterioso faccia a faccia. D’un tratto i due spazi si fondono e i personaggi si trovano insieme: si concretizza un triangolo coatto, a simulare, nei ruoli assunti dai personaggi, una forma familiare con un padre (Orsini-Bohr), un figlio-discepolo (Popolizio-Heisenberg) e una madre severa e appassionata (Lojodice- Margrethe).

Lo spazio, ora più che mai, è gabbia, bolla di vetro d’un laboratorio: i personaggi si fronteggiano, si scontrano, nel tentativo di ricostruire quel giorno ormai lontano, senza mai riuscire a definire compiutamente quanto accadde. Popolizio è molto efficace, la recitazione naturale, basata su un’ottima centratura vocale: il suo Heisenberg è sospeso tra il bisogno di perdono (dopotutto, nel ’41, stava dalla parte sbagliata, nonché avversa all’amato maestro) e la rivendicazione di un’inevitabilità rappresentata dalla Storia. Giuliana Lojodice è invece figura materna che non concede sconti, tutt’altro: sempre pronta a correggere i due uomini nel tentativo di ristabilire una “verità” (la sua), è a tratti spietata nei confronti del figliol prodigo, fedele com'è alle sorti del marito. Orsini è, a sua volta, padre e scienziato appassionato: la recitazione è rapida, forse troppo, tagliente come un rasoio, il timbro ancora ricco di armonici.

Il difetto dello spettacolo, al netto d’una traduzione eccepibile sotto il profilo scientifico, sta però nel non valorizzare al meglio un testo certo “tradizionale” (in senso novecentesco), ma di sicuro ben scritto. Fisica e teatro, nella drammaturgia di Frayn vanno di pari passo e, anzi, il principio di indeterminazione di Heisenberg è la chiave di volta per penetrare l’irriducibile incomprensibilità del reale, la sua endemica natura effimera, sfuggente. Echi absurdisti, ma anche innegabili nervature pirandelliane, attraversano le tensioni di questo dramma di ardua, ma non impossibile, traduzione teatrale: le lavagne, per esempio, potrebbero essere meglio sfruttate da Popolizio e Orsini, così come i movimenti scenici nei momenti in cui le descrizioni scientifiche assumo evidenti connotati scenici.
E invece, lo spazio in cui i due uomini simulano, muovendosi in cerchio, l’orbita di un elettrone in collisione con un fotone (momento chiave per la concezione del principio heisenbergiano) resta unica nel suo genere.

Fisica e teatro finiscono quindi su due parallele sino al termine dello spettacolo, alla stregua di due elementi che, invece di fondersi armonicamente nel dare vita ad altro, restano coagulate e separate l’una dall’altra, in un insieme buono per un allestimento destinato alle scuole, meno interessante nell’ottica del teatro tout court.
Spettacolo lento, troppo, benché l’interpretazione degli attori abbia comunque il merito di salvare il salvabile. Resta purtroppo la netta impressione che si potesse fare meglio.

Visto a Pistoia, teatro Manzoni, il 6 marzo 2009.

Spettacolo
Copenhagen
di Michael Frayn
(traduzione di Filippo Ottoni e Maria Teresa Petruzzi)
regia: Mario Avogadro
con: Umberto Orsini, Giuliana Lojodice, Massimo Popolizio
scene: Giacomo Andrico
costumi: Gabriele Mayer
luci: Giancarlo Salvatori
musiche: Andrea Liberovici
produzione: CSS Teatro stabile di innovazione del Friuli Venezia Giulia / Ert Emilia-Romagna Teatro

mercoledì 28 gennaio 2009

Giuffrè sindaco della Sanità: declino e morte di un re-mammasantissima

(da teatro.org)
Due colpi di pistola. Due spari fuori scena, probabilmente in testa, all’infame accoltellatore di Antonio Barracano, sindaco in quello sprofondo di case, cunicoli e vasci che è la Sanità, rione–cerniera tra l’ormai borghese Vomero e il brulicante centrocittà partenopeo.
L’esecuzione dell’assassino, offerta al pubblico in forma sonora, è l’aggiunta, unita all'accennata e irrispettosa ribellione d'uno scugnizzo nei confronti del boss durante il primo atto, che la regia di Carlo Giuffrè applica a questo mirabile testo eduardiano, preciso, pulito, essenziale.

Che senso ha, oggi, portare in scena Il Sindaco del Rione Sanità, dopo la sovraesposizione mediatica di Gomorra, dopo Raffaele Cutolo, dopo la guerra tra clan che dagli anni Ottanta insanguina non solo la Campania? La realtà contemporanea, quella della camorra attuale, organizzazione mafiosa meglio adattatasi alla deregulation liberista in fatto di lavoro economia, i cui boss si definiscono imprenditori e commissionano ville ispirate allo Scarface di De Palma, fa sembrare il mammasantissima di Eduardo una foto sbiadita, un personaggio perduto nel tempo, quando essere òmmo poteva avere ancora senso. Ed è certo quel braccio teso a puntar la pistola verso un Barracano di spalle, la più realistica tra le esigue invenzioni originali di questo allestimento: ribellione ignobile e vigliacca che fotografa la realtà attuale di mafie ormai prive di qualsiasi senso dell'onore e si fa figura del tradimento finale.

La scenografia di Aldo Terlizzi è cangiante sotto le luci che, all’inizio, filtrano da altri ambienti rispetti allo stanzone centrale d’una masseria di campagna, a Terzigno, in cui il caotico formicolio dei personaggi (un andirivieni tra familiari del protagonista, medico raisonneur e pigolante corte a mendicar giustizia dal boss) crea movimento già nel pieno della notte, sfruttando la gran copia di porte e ingressi laterali. Il pastello ocra livido, in una notte di rappresaglie tra scugnizzi e operazioni chirurgiche improvvisate, sfuma in soffici tonalità terree all’entrata di Barracano, capozona all’antica, ministro d’una giustizia utopica d’ispirazione e pratica d’applicazione.

La figura del Pater familas, costante nella poetica di Eduardo, ha in questo sindaco concretizzazione complessa: Barracano è personaggio difficile, ossimoro vivente, nella definizione di Anna Barsotti, di quel capo–famiglia e capo–comico che era, in realtà, il suo creatore. I tre atti della commedia consumano un passaggio epocale, la fine d’un regno: la scena della vestizione mattutina è, pur stemperata dalle gag con la fida governante Immacolata (la precisa Antonella Lori), cerimonia ieratica, solenne, mentre l’evolversi della trama, sino alla coltellata traditrice fuori scena (da copione, al contrario degli spari), sancisce l’inizio d’una nuova epoca, alla ricerca di un nuovo, e irrealizzabile, ordine.

In rilievo, rispetto al sanguinoso tramonto del protagonista, la storia dello sfiduciato dottor Della Ragione (Alfonso Liguori, geometrico per interpretazione e centratura vocale) che passa dall’anelare una fuga tardiva e velleitaria, lui medico sessantenne da trent’anni sotto copertura chirurgo della mala, alla volontà, ancor più disperata, d’una resistente permanenza in loco, nella sventurata denuncia dei misfatti che lo circondano.

Tragedia in forma di commedia, Il sindaco è, da un lato, l’affresco feroce d’una realtà in cancrena, cui Eduardo non offre soluzioni o lenitivi, ma solo la maestria chirurgica del suo occhio indagatore d’umanità; dall’altro, è una rappresentazione della morte, parabola occidente d’un sovrano che più non riconosce le macerie in cui è vissuto, mortificante sanzione della frattura tra Io e Mondo.

Giuffrè è un Barracano estenuato ma non domo: la recitazione è scandita, scientemente faticata, forse con eccessivi indugi, ma i movimenti centrano il côté regale del personaggio, suo vero status teatrale. Non convince, piuttosto, la scansione imposta al testo: ignorare la tripartizione originale, condensando in un’estenuante prima parte i primi due atti, non giova affatto al ritmo. Si finisce per appesantire la parte centrale della pièce, in cui il protagonista espone la propria Weltanschauung.
La messinscena risulta macchinosa, troppo pesante: le oltre due ore filate non sono certo rese più scorrevoli dalla recitazione, segno che la struttura forse non facilita neppure il compito degli attori. Per contro, il terzo atto è di rapidità alfieriana, quaranta minuti scarsi, ambientato in un interno rétro, dominato dal verde intenso dei tendaggi in opposizione al bianco della tavola imbandita: vi cenano i personaggi principali, spettatori impreparati della recita d’addio di un Barracano intenzionato a non innescare l’ennesima e inutile faida.

Allestimento “tradizionale”, che offre al pubblico niente di più di quanto ci si aspetti: onesto, forse, ma certo non coraggioso, al di là della doppia (e in fondo superflua) esplosione finale. Come quasi sempre avviene in questi casi, la “salvezza” è assicurata da quel mirabile esempio di meccanica drammaturgica minuziosamente costruita che è la scrittura di Eduardo, struttura portante di provata solidità.
Viene però da chiedersi: siamo sicuri che lui, osservando silente da un utopico e inesistente Aldilà dei Teatranti, scimmiottando il mondo come nel finale de Gli esami non finiscono mai, sarebbe soddisfatto da questi allestimenti tanto scolastici quanto inerti? Lecito dubitare.
Il gran pregio dei classici, e Eduardo appartiene a pieno titolo alla categoria, sta nella spiazzante flessibilità, la loro attualità teatrale e artistica. E per tale ragione è raro assistere a buone realizzazioni dei testi dell’attautore napoletano.
Un classico non meriterebbe d’esser riproposto, per quanto con zelo, ma attraversato e tradito, nel senso di tradotto e reinventato: De Filippo, forse, attende ancora un interprete degno di sé.

Visto a Lucca, Teatro del Giglio, il 24 gennaio 2009

Spettacolo
Il sindaco del Rione Sanità
di Eduardo De Filippo
regia di Carlo Giuffrè
con Carlo Giuffrè, Antonella Lori, Piero Pepe, Alfonso Liguori, Massimo Masiello, Vincenzo Borrino, Gennaro Di Biase, Roberta Misticone, Enzo Romano, Aldo De Martino
scene e costumi: Aldo Terlizzi
musiche originali: Francesco Giuffrè
produzione: Diana Or.I.S.

giovedì 22 gennaio 2009

Quando i nomi non salvano il monologo

Per decenni il monologo è stato l’ancora di salvezza della comicità italiana, forma ideale per allestimenti poco costosi, riproducibili ovunque e in grado di evidenziare le doti di una e più generazioni di attori solisti, dal Grillo in fase “pre-Guru” al primo Benigni (più Cecco Angiolieri che l’edulcorata versione dantesca), dal Verdone che ancora non si credeva autore cinematografico ai più recenti attautori Paolini, Celestini e compagnia.
Del resto, il nostro paese è storicamente terra d’attori, di guitti, di professionisti della scena più che d'autori veri e propri (i grandi drammaturghi italiani, da Goldoni a Pirandello, sono vere eccezioni) il che ci ha consegnato più tradizioni, multiformi e radicate, d’interpreti. Se gli anni Settanta hanno costituito un momento di svolta in questo senso (la comicità come linguaggio diffuso e invasivo in nome d’un cabaret in salsa italica) grazie a una generazione di nuovi comici d’origine teatrale alla carica di tv e cinema, è anche vero che gli ultimi anni sembrano testimoniare quanto tale onda lunga di monologhisti stia esaurendo la propria carica, alla stregua d’una miniera gigantesca che partorisca inerti pulviscoli aurei e (quasi) mai più pepite.

Non fa eccezione, ahinoi, la pur brava Angela Finocchiaro, attrice d’indubbie doti, comiche e non, alle prese col suo nuovo spettacolo, Benneide 2. Al pari della splendida Lucia Poli, infatti, la Finocchiaro è musa teatrale di Stefano Benni, autore ormai consacrato e dall'industria editoriale e dal pubblico italiano, che firma quest’ultimo allestimento diretto dall’esperta Cristina Pezzoli. La collaborazione tra quest’ultima e l’attrice lombarda non è peraltro cosa nuova, dal momento che il precedente Miss Universo (altro monologo, per noi poco convincente a fronte d’incoraggianti riscontri sia dal pubblico sia dalla critica) le aveva già viste lavorare insieme.

Benneide 2 rappresenta a nostro avviso un ulteriore passo indietro rispetto al precedente, che pure contava d’una drammaturgia forte, una storia non certo sconvolgente, ma in grado di “impegnare” le innegabili qualità interpretative dell'attrice. Stavolta lo spettacolo è a numeri (di per sé non certo un male), brani lunghi che l’attrice affronta in una scena spoglia, il cui arredo principale è costituito da due cumuli di pacchi di giornali. A entrare per primo è, però, Daniele Trambusti, vecchia conoscenza del teatro comico italiano e toscano, ultimo “terzo” dei Giancattivi di Alessandro Benvenuti e Athina Cenci, per sostituire (nel 1982) un Francesco Nuti alla rincorsa del successo personale.
Dopo l’ingresso charlottiano dell'attore che s'improvvisa a dirigere un’improbabile orchestra di telefonini, lo spettacolo vero e proprio: Angela Finocchiaro, abbigliamento casual (maglioncino blu su calzoni altrettanto anonimi) ai limiti dello sciatto, si presenta e inizia un monologo a tematica ferroviaria. Un semplice viaggio diviene lo spunto per un’iperbolica raffigurazione d’inferni danteschi, dove gli occasionali “abitanti” dei diversi vagoni divengono vere e proprie anime perdute. La verve d’osservatore sociale, matrice tipica di Benni (quella, per intenderci, del primo Bar Sport) si sfoga in una serie di quadretti contemporanei, colpendo i vizi, le abitudini, le magagne dei costumi nostrani. Peccato che tutto appaia come innocuo, non rilevante, non avvincente: manca il materiale vero e proprio di questi sfoghi, la linfa vitale.
Se, perdonate l'esempio letterario e non teatrale, il già citato Bar Sport era in realtà un addio, affettuoso e sincero, a una società, un'Italia irrimediabilmente al tramonto, le successive variazioni sul tema non sembrano che pallide e depotenziate iterazioni. Così, i quadretti di Benni, di certo non agevolati da una messinscena mal sicura e da rivedere, risultano prove d'autore sbiadite e inerti.

La Finocchiaro s’ingegna quanto può nel tener su la baracca, con una recitazione frizzante, ben dosando il registro surreale, sua corda storicamente migliore.
Certo, non è di soccorso all'attrice una regia alquanto impalpabile: non si capisce, per esempio, a cosa serva, all'inizio dello spettacolo, raggiungere il fondale e attaccarvi una sagoma in carta di giornale se poi il gesto non viene né ripreso né giustificato sotto il profilo scenico. Del tutto inutile, al di là della bravura e della simpatia di un attore che ben conosciamo, la presenza di Trambusti: l’unico vero “numero” riservatogli, un monologo un po’ cionesco (Mario Cioni è la prima maschera, toscana e terragna, del vero debutto di Roberto Benigni), resta lettera morta e non se ne percepisce la reale necessità scenica.

Per fare uno spettacolo, ma questo lo sanno benissimo e Angela Finocchiaro e Cristina Pezzoli e, si spera, l’A.Gi.Di. che produce e distribuisce, non basta mettere insieme autore, regista e interpreti, ancorché ottimi: serve il sangue, in senso non cruento, ma essenziale.
Serve che vi sia un vero motivo per cui si vada in scena, che non sia (dis)impegnare una serata solleticando il pubblico, sempre più pronto a riconoscere anziché conoscere, pensare, faticare per giocare la propria parte.
A fronte dei copiosi applausi, ci si alza esausti e rattristati, proprio per la grande stima nutriata per autore, regista e interpreti: ma è proprio indispensabile portare in scena certi allestimenti?

Visto a Pescia (Pt) al teatro Pacini, il 15 gennaio 2009.
Prima nazionale assoluta.

Spettacolo
Benneide 2
di Stefano Benni
con Angela Finocchiaro e Daniele Trambusti
regia: Cristina Pezzoli
produzione: A.Gi.Di.

mercoledì 14 gennaio 2009

Il Macbeth di Lavia, ossessiva metafora del teatro

(da teatro.org)
Lavia e Shakespeare, un rapporto ultratrentennale, intenso e ininterrotto, sin dal debutto registico dell’artista milanese, nel 1975, con Otello. Il Bardo è autore che consente a Lavia di approfondire, puntualizzare e sottolineare i propri assunti filosofici e teatrali, una riflessione che parte dalla scena per abbracciar la vita. Del resto, meno d’un anno fa il Verdi di Pisa, ormai seconda casa per l’attore e regista, l’aveva visto prodursi in una serie di “letture-spettacolo” di Amleto, performance ricche di divagazioni che superavano talvolta le cinque ore.
In sala, l'attenzione è subito catturata dagli oggetti ai lati del proscenio: a sinistra, una toilette da attore, sedia, specchio con luci e lavabo; a destra, un caos d’abiti appesi e bauli da trovarobe. Poco distanti, due sottili assi di legno consentono la discesa verso la platea, ponte ideale tra immaginazione e realtà.
Un sipario arretrato a scorrimento verticale si apre su una scena spoglia e buia, ove si susseguono pochi elementi: grossi specchi dalle pesanti cornici, la scarna alcova reale, il tavolo del banchetto, le tombe di un cimitero. Lo spazio pensato dallo scenografo Alessandro Camera è desolato, quasi metafisico, a più riprese occultato dalle pesanti coltri di fumo, conseguenze di mattanze belliche e presagio di presenze infernali. Al regicidio che innesca la tragedia, crollano quinte nere e fondali, svelamento che sottolinea la nudità oscena (nell’etimo, inventato da Carmelo Bene, ossia fuori scena) del teatro, la sua dimensione di sguardo gettatto sull’abisso umano. Un'ulteriore struttura trasparente a macchie scure contribuisce inoltre ad allontanare alcune scene dall'occhio dello spettatore, conferendo loro una dimensione onirica.

Patetico attore alla ricerca della propria identità, nell'ostentare la maschera d’un potere impossibile da controllare, il Macbeth di Lavia si muove con esibito impaccio sulla scena; l’inesorabile corsa verso la morte lo vede indossare e dismettere con frenesia gli abiti della parte da recitare: un goffo cappotto di pelle con spalle enormi, le scarpe con zeppe vertiginose, una corona di carta in capo. Non re sanguinario, ma buffone, clown dallo sguardo a tratti spiritato, che la cipria spruzzata alla meglio sul viso contribuisce a enfatizzare, sfumando in momenti di triste sorriso.
La recitazione è polifonica, in contrasto con la desolazione sonora d'una partitura musicale che accompagna discreta l’intera recita. A gesti nervosi e guizzanti, il protagonista (mirabile per tenuta fisica e prestanza, data l’età anagrafica tutt’altro che verde) associa una declamazione ambivalente in cui un’ironia amara e lunare s’alterna a momenti d’enfasi marcata, così come in occasione dei monologhi più celebri sottoposti a una (ormai consueta) contaminazione metashakesperiana, mediante citazioni da Re Lear e altri capisaldi del Bardo.
Al fianco del re usurpatore, Giovanna Di Rauso è una Lady Macbeth elastica e felina, cui ben s’applica la ribelle zazzera biondo platino: la recitazione è convulsa, esasperata nello stridulo timbro vocale e nei movimenti disarmonici. All’inizio superiore per risolutezza e autorità rispetto al marito, pure la consorte è man mano preda del vortice del travestimento, imprigionata nella maschera che da sola si è costruita.
I personaggi che gravitano intorno ai due risultano privi di spessore, senza identità nella neutra tenuta militare (costumi firmati da Andrea Viotti) che li omologa gli uni agli altri: viene da chiedersi se davvero esistano o non siano piuttosto proiezioni d’un cupo incubo scenico. Il Gioco del teatro, con la sua connotazione metamorfica, si realizza in modo compiuto nella triplice e aspra presenza delle streghe (Giorgia Sinicorni, Chiara Degani, Giulia Galiani), esili figure, sfrontate nella loro nudità, che compaiono in forme sempre cangianti: cameriere, sicari, vecchie, ad anticipare la conclusiva disfatta.

Il Macbeth laviano è, al contempo, discorso sul teatro e parabola metateatrale, nel proporre lo sdoppiamento del protagonista dalla dimensione regale della storia a quella, non scevra dal ridicolo, d’un attore che occhieggia e spunta da un baule, costantemente fuori posto, fuori parte, fuori gioco. Destino infame, quello del teatrante, e paradossale: dar vita a personaggi che debbano sempre avere più consistenza di sé, più verità d’una vita spesa in camerini anonimi, stanze da letto sempre diverse, deriva tanto ricercata quanto ignota alla “gente comune”.
Lavia sfrutta lacerti di Carmelo Bene, nell’esibizione comica della sostanza teatrale, del trovarobato scenico (si pensi ai vari Amleti del genio salentino), ma anche richiami, nella recitazione a tratti sostenuta, ad “altri Shakespeare” moderni, da Laurence Olivier sino a Kenneth Branagh.
Peccato che lo spettacolo (ricordiamo come attenuante che si tratta pur sempre d'una prima nazionale) sembri incepparsi, a tratti, e risulti, alla fin fine, piuttosto manieristico: Macbeth è testo talmente consacrato da consentire e consigliare ben più coraggio, e da Lavia sarebbe consentito attendersi qualcosa di più d'un allestimento che sembra dire “Vorrei, ma non posso”.

Visto a Pisa, Teatro Verdi, il 10 gennaio 2009.
(recensione di Igor Vazzaz e Silvia Cosentino)

Spettacolo
Macbeth
di William Shakespeare
traduzione: Alessandro Serpieri
regia: Gabriele Lavia
con Gabriele Lavia, Giovanna Di Rauso, Maurizio Lombardi, Biagio Forestieri, Patrizio Cigliano, Mario Pietramala, Alessandro Parise, Michele Demaria, Daniel Dwerryhouse, Fabrizio Vona, Andrea Macaluso, Mauro Celaia, Giorgia Sinicorni, Chiara Degani, Giulia Galiani
scene: Alessandro Camera
costumi: Andrea Viotti
musiche: Giordano Coràpi
luci: Pietro Sperduti
produzione: Compagnia Lavia Anagni

lunedì 12 gennaio 2009

La giovinezza crudele di Motus, tra partiture corporee e allucinazioni verbali

(da teatro.org)
X o, come specificato nel titolo, Ics, come Generazione X, o ultima lettera dell’alfabeto latino, simbolo neutro a significare indeterminatezza e, persino, morte.
X come resa, limite d’ardua indagine, occhio aperto su una realtà di suburbia e smarrimento, necessità di racconto infranta sul nulla del racconto, il niente da raccontare, l’impossibilità di raccontare alcunché. La giovinezza che Motus pone al centro della sua ennesima allucinazione teatrale (si tratta del movimento terzo d'una produzione internazionale che vede la partecipazione, tra gli altri, di Biennale Danza di Venezia, Lux-Scène National de Valence, Francia, e Theater der Welt 2008 di Halle, Germania) è quella ingoiata, mai rappresentata da una Società dello Spettacolo alimentata ipertroficamente di lustrini e sé stessa, quella giovinezza che fu attrazione e utopia pasoliniana, rappresa e coagulata nella cementificazione, edilizia ed esistenziale, del contemporaneo.

Il teatro è necessità e dolore, via di fuga: il gruppo romagnolo, ormai parte della cinquina di eccellenze dell’avanguardia italiana unita in Associazione Lus (con Fanny & Alexander, Societas Raffaello Sanzio, Teatro delle Albe e Teatrino Clandestino, tutte emiliano-romagnole, ci sarà pure un motivo…), prende spunto da una suggestione di Nagisa Oshima, regista cinematografico giapponese autore de L’impero dei sensi, per poi spaziare in un progetto tripartito dedicato a una riflessione sulla giovinezza, sui temi della ricerca e dello smarrimento.

Una scena dominata da un grande schermo al centro, sui cui vengono proiettate geometriche elaborazioni elettroniche e scorci urbani dominati dal cemento (palazzi, rampe, snodi stradali), si apre alle evoluzioni su rollerblade di Silvia Calderoni che, già all’esterno del Teatro Studio di Scandicci, prima dell’inizio dello spettacolo, distribuiva enigmatici volantini sull’allestimento. L’ingresso, infatti, avviene direttamente dalla platea, evitando un’ordinaria panchina rivolta verso la scena, quasi a doppiare la posizione delle postazioni degli spettatori. L’attrice, esile e filiforme, in un costume minuscolo che esalta la magrezza lancinante, gira attorno allo schermo, sottraendosi agli occhi del pubblico per poi riapparire, sulle note di una musica convulsa, fatta di rumori ossessivi.
La scena si anima progressivamente di altre presenze, divenendo spazio polivalente, strada, marciapiede, esterno cittadino di periferia semiabbandonata. Efficace la sequenza in cui, scotch steso sul pavimento a ricreare la linea discontinua d’una carreggiata stradale, due ragazzi vestiti alla bell’e meglio secondo criteri di giovanilismo contemporaneo ingannano il tempo improvvisando evoluzioni e slalom tra automobili che sfrecciano, indicate da puntuali tagli di luce ed effetti doppler sonori.

Arrivano altre figure, dei musicisti, un bassista, una chitarrista, un vocalist percussionista (Sergio Policicchio, Ines Quosdorf e Mario Ponce-Enrile), e sullo schermo rimbalzano altre immagini, di altre periferie, a unire idealmente tutte le periferie possibili: dallo smarrimento postunitario d’una Germania alla ricerca di sé, alla Francia, all’Italia. La multimedialità dello spettacolo sembra rimandare a una parcellizzazione propria del reale, all’impossibilità di raccontare qualcosa senza ricorrere alla frammentazione, a lacerti comunicativi che il fruitore è costretto a mettere insieme, sorta di puzzle privo d’immagine risolutoria.
Si respira un’atmosfera postpunk in questa giovinezza (s)perduta, nella totale assenza di prospettive reali d’un sistema impostato sul principio produci-consuma-crepa, secondo un refrain già di trent’anni fa ma tutt’altro che risolto o superato. Le figure si parlano, danno vita a diversi piani visivi: la scena si frange in differenti situazioni, per poi tornare dominata dallo schermo, nel tripudio ipocrita e fieristico d’una serie di scoppi pirotecnici, fuochi d’artificio che catalizzano l’attenzione degli attori. Ben presto, i fuochi divengono le luci sinistre d’un bombardamento, un attacco aereo: certe periferie sono uguali, ovunque, e l’Europa cede il passo alla memoria di Belgrado, alla Gaza dei giorni nostri.

Lo schermo diventa scatola trasparente: la visione si apre su un interno neutro, con una scala ascendente da sinistra a destra, ai cui piedi sta un divano in pelle e due piante, forse ficus, ad altezza d’uomo. La Calderoni è alla sommità: si denuda, scende lentamente, a quattro zampe, e i la luce laterale ne fascia il corpo, materia prima d’un teatro d’emozione prima che il logos della voce registrata accompagni il gesto.
Le parole, rimbalzi sonori sulla pelle candida distesa nella discesa pseudoanimalesca dell’attrice, sembrano voler opporre un’ostinata speranza, una resistenza, fatta di sé, di voglia di resistenza, una resistenza fatta d'attesa beckettiana mista a non rassegnazione.
Il ritornello del punk storico, nelle note slabbrate della God Save The Queen dei Sex Pistols, era "no future for you": Motus sembra volersi ribellare anche alla costrizione dell’irrimediabile assenza di destino, cercando, nel paradosso di una scena che è scelta di vita e responsabilità, una via di fuga.
Se non un futuro, almeno qualcosa.
Spettacolo emozionante, che richiede collaborazione da parte dello spettatore nel seguire un percorso linguistico non scontato, sebbene la sintassi scenica sia “consueta” per chi abbia esperienza con il teatro sperimentale. Ed è nell’impatto emotivo, forte, trascinante, il lascito migliore dell’allestimento, di gran lunga superiore a un’autoreferenzialità che è spesso moneta corrente d’una certa temperie stilistica.
Applausi convinti del pubblico, cui si uniscono i nostri.

Visto a Scandicci (Fi), Teatro Studio, 9 gennaio 2009.





Spettacolo
X (ics) - Racconti crudeli della giovinezza - X.03 movimento terzo
ideazione e regia di Enrico Casagrande e Daniela Nicolò
con Lidia Aluigi, Silvia Calderoni, Sergio Policicchio, Mario Ponce-Enrile, Ines Quosdorf
in video Silvia Calderoni, Sergio Policicchio, Denis Kuhnert, Karl Haußmann, Sabine Bock, Toni Bernhardt, Susanne Sudol, Adreas Berger e i gruppi musicali Foulse Jockers (I), Tomorrow Never Come (F), Types of Erin (D) Bring me to my 2nd burial (D)
produzione video: Motus & Francesco Borghesi (p-bart.com)
riprese: Francesco Borghesi, Daniela Nicolò
video compositing: Francesco Borghesi
text compositing: Daniela Nicolò
audio compositing: Enrico Casagrande
sound design: Roberto Pozzi
direzione tecnica: Giorgio Ritucci
luci: Daniela Nicolò
musiche dal vivo: Ines Quosdorf , Sergio Policicchio, Mario Ponce-Enrile
elementi scenografici: Giancarlo Bianchini Arto-Zat, Erich Turroni - Laboratorio dell'imperfetto
consulenza architettura: Fabio Ferrini
foto di scena: Valentina Bianchi, End&Dna
relazioni: Sandra Angelini con la collaborazione di Federica Savini
organizzazione e logistica: Elisa Bartolucci, Valentina Zangari
amministrazione: Cronopios
produzione: Motus, in collaborazione con La Biennale Danza di Venezia, Lux-Scène National de Valence (F), Theater der Welt 2008 in Halle, Istituzione Musica Teatro Eventi, Comune di Rimini "Progetto Reti"