Articoli pubblicati altrove e qui raccolti: non il classico, egolaico, ennesimo blog

da teatro.org

a fondo pagina la maschera di ricerca per gli spettacoli

lunedì 13 luglio 2009

E il Chianti divenne Tebe. Alfonso Santagata e il ciclo d'Edipo a Torre Luciana

(da teatro.org)
L’odore di menta e nipitella inonda la campagna chiantigiana lungo il viale sterrato che conduce a Torre Luciana, suggestivo osservatorio astronomico tra oliveti e vigne di sangiovese. La serata è limpida, fresca nonostante la stagione, il cielo chiaro in lontananza verso la mai rimpianta Firenze: gli spettatori, tra cui Massimo Salvianti, ottimo attore della compagnia di Ugo Chiti “Arca Azzurra”, camminano per qualche decina di metri, qui giunti chi a piedi chi a bordo di un apposito bus della locale amministrazione comunale. Al cancello d’ingresso un’insegna indica l’inizio dell’Ade, l’oltretomba della cultura ellenica: una bambina con minute ali angeliche riceve, seriosa e compunta nella propria mansione carontea, il pubblico da scortare nel viaggio inferico di questa Tragedia (nell’occasione il titolo recita a Torre Luciana) allestita da Alfonso Santagata, attore, regista, teatrante, di lungo corso, uomo di scena e di riflessione su essa.

Il più celebre ciclo sofocleo (Edipo Re, in cui il protagonista si scopre uccisore del padre e marito della madre; Edipo a Colono, sull’esilio del sovrano e la successiva guerra fratricida che infesta Tebe; infine Antigone, in cui la figlia di Edipo s’oppone all’inumano ordine del tiranno Creonte di non riservare sepoltura rituale al “traditore” Polinice) si snoda nella sua interezza ben sfruttando i meravigliosi spazi dintorno l’antico casamento, sede dell’osservatorio: con sapiente utilizzo d’illuminotecnica, riscrittura drammaturgica e direzione attorica, le presenze dolorose e incommensurabili dell’antica Tebe (ri)trovano voce, tempi e luoghi, per mostrarsi ai guardi sorpresi d’un pubblico ben presto catturato dalla fascinazione teatrale.
Ora è il cieco Tiresia (Johnny Lodi) ad apparire, ieratico e solenne, in uno slargo opportunamente ricoperto di teli bianchi e tulle, ora è un Edipo vestito d’improbabili e umili panni scuri (Alfonso Santagata) a parlare in prossimità di altoparlanti fissati a una torretta di tubi innocenti simile a certi podi da comizio anni Cinquanta. Ogni visione sgorga dal nulla, inattesa: gli angoli dell’ampio piazzale s’animano a turno, imponendo agli astanti un vero viaggio iniziatico, novelli Enea calati in un Ade tutto scenico. Teatro, nell’etimo, significa vedere le cose che sono nascoste, ed è proprio questo che sembra suggerire questo spettacolo avvolgente, profondo, lacerante e mai, fortunatamente, compiaciuto o furbetto.

Il nulla del buio estivo della campagna del Chianti s’approssima a quel Nulla primigenio e indescrivibile del dolore d’esistere, di quel grido lancinante e orrendo di chi, toccato dal dio, s’inebria di senso tragico, di quel Nulla che è fondamento e presupposto della tragedia attica.
Non si piange, o almeno, non si piange soltanto e, di certo, non si piange per mera psicologia: soggetto e coscienza sono concetti per fortuna estranei alla Grecia tragica; i personaggi sono in realtà potenze abissali e distanti dalla misera e trascurabile dimensione del genere umano.
Il nostro presente non permette una consonanza pura e semplice con la tragedia classica, ed è per questo che Santagata dosa sapientemente ironia e serietà (senza esser, gliene siamo grati, serioso): perché le verità più terribili, il dolore più indicibile può essere affrontato solo con il riso comico, pieno e sapiente, il riso dell’Amleto teatrante, il riso di chi ha visto. È questo il miglior pregio d’uno spettacolo tutto da ammirare, ascoltare, odorare, nell’olezzo mezz’estivo d’una Toscana profonda, mutata per incantamento nella Tebe trasudante sangue e morte.

Accompagna gli attori un’improbabile coppia di “narratori”: Antonio Alveario, agghindato alla stregua d’un ridicolo cantante di liscio, giacca sgargiante e occhialetti scuri, e Rossana Gay, sorridente in modo buffo e accattivante, munita in pari misura d’accento sardo irresistibile e tailleur rosa. Ironia e comicità, lubrificanti necessari per sostenere la terribile vicenda, sino alla sua rapida e inevitabile conclusione, nel sacrificio estremo d’Antigone (la potente Daria Panettieri), che regala uno dei momenti più forti del pur breve (un’ora circa) allestimento.

Questa Tragedia, con le sue apparizioni, le sue improbabili e azzeccatissime coloriture comiche, i suoi climax e il suo pathos profondo è un piccolo gioiello, ed è bello pensare che si tratti d’un cavallo di battaglia di Santagata a unire didattica, pratica teatrale e confronto col pubblico. L’operazione aveva debuttato a Santarcangelo una decina di anni or sono, per poi essere replicata in locazioni differenti: si tratta, infatti, d’adattare l’allestimento a particolari situazioni e farne il punto d’arrivo per laboratori con giovani attori della durata di circa dieci giorni. È così che, alla compagna “storica” di Katzenmacher (tra quelli non ancora citati, ricordiamo Francesco Pennacchia in un perfetto e durissimo Creonte, Tiziana Giuliani e Samuel Osman) si uniscono le attrici che formano il Coro, puntuali nei movimenti così come nell’alternanza tra frasi, racconto e urla caotiche tipiche del thiasos.

La storia si conclude; in lontananza Edipo e Ismene sfumano nel bagliore rosso che dipinge la statua a forma di falce di Mauro Staccioli (monumento inaugurato a Torre Luciana da circa un anno): per l’ennesima volta, la scena, (non) luogo liminare e misterioso per eccellenza, ha sprigionato le sue presenze dolenti, la sue aberranti vicende di tabù infranti e ineluttabili sofferenze. Per l’ennesima volta, il paradossale mito del saggio che si fa cieco si è mostrato, grazie al teatro, disciplina del vedere le cose nascoste, Rito misterioso e terribile, Gioco Serio che nessun altra arte potrà mai garantire, lasciando gli spettatori con un buco allo stomaco e la loro deludente umanità.

Visto presso l’Osservatorio Astronomico di Torre Luciana, San Casciano Val di Pesa (Firenze), 11 luglio 2009.

Spettacolo
Tragedia a Torre Luciana
di Alfonso Santagata
ispirato a Sofocle
con: Johnny Lodi (Tiresia), Alfonso Santagata (Edipo), Rossana Gay (Narratrice), Antonio Alveario (Narratore), Daria Panettieri (Antigone), Francesco Pennacchia (Creonte, Eteocle), Tiziana Giuliani (Ismene), Samuel Osman (Polinice)
Produzione: Katzenmacher

martedì 7 luglio 2009

Lo spettacolo della morte. Anatomia teatrale del suicidio politico

La morte è concetto paradossale, limite asintotico della riflessione umana: la si può immaginare, evocare, produrre e infliggere, ma difficilmente la si riesce a pensare. La nostra contemporaneità, avida di reale comunicazione ma congestionata di voci, suoni, grida e colori, la rimuove semplicemente, rubricandola ad alterità ignota, col risultato che, quand’essa prorompe inevitabilmente nell’esperienza, si resta muti, immoti e anestetizzati.
Tra le discipline artistiche, il teatro è quella più prossima alla morte, all’evocazione d’un dolore primigenio e insopprimibile, lambito tramite il registro altisonante della tragedia o attraverso la profondità misterica del comico. E la scena stessa è quel luogo liminare ove i morti ricompaiono attraverso ritualità definite.

Histoire de ma mort. Preparativi per la scena madre di Paola Marcone ha quindi il merito di scoprire le carte e tentare un coraggioso corpo a corpo con un soggetto tanto ordinario e straordinario dell’esperienza, optando per una sua peculiare declinazione, quella della morte scelta, autoimposta e fattasi “spettacolo”, a scopo politico, di rivendicazione e di sacrificio.

È già il primo quadro, successivo a una videoproiezione di cornice indicante titolo e inizio della recita, a denunciare la natura eminentemente teatrale dell’allestimento: due incerti e comici becchini tentano, con risibili risultati, di spostare la bara in cui è riposto il corpo d’Ofelia. Valerio Amoruso dall’indovinata postura deforme, arlecchinesca, accompagnata da un grottesco grammelot gutturale, e Matteo Vagelli si alternano in buffe sequenze di reiterazione gestuale, disquisendo sulla natura del suicidio della ragazza e la discussa decisione di darne regolare sepoltura ancorché suicida. Il dialogo, intervallato dagli inutili sforzi di sollevare la cassa, s’interrompe al rintocco dei colpi nel legno cui consegue la spettrale apparizione della defunta: costume rosso, vistosa gorgera da personaggio carroliano, parrucca ingombrante, Paola Marcone (ri)dà vita a un’Ofelia rapida e squittente, alla stregua di certe interpretazioni muliebri di Anna Marchesini. L’interazione tra le tre figure è altamente comica, forse memore di certe variazioni su tema scespiriano di Tom Stoppard, minando dall’interno la seriosità (non la serietà) del tema. Altrettanto d’improvviso, il quadro si chiude alla stregua d’una prova aperta, con tanto di voce dal banco mixer a dare il via libera agli attori: cambio di costume a vista, ecco i tre comparire dietro allo schermo trasparente, in corrispondenza di altrettanti microfoni: Amoruso a sinistra, Vagelli al centro, Marcone a destra.

Ha quindi inizio una sorta di concerto vocale, in cui lacerti testuali, monologhi spezzati rimbalzano da una voce all’altra, fondendosi e confondendosi a brani musicali e proiezioni video. Lo spettacolo si fa paratassi straziata nell’evocazione visiva, verbale e sonora, d’un dolore sociale, politico, a unire martiri suicidi: dall’italiano Lauro De Bosis (spesso ignorato dalle nostre scuole) al ceco Jan Palach sino a Wafa Idris, prima donna kamikaze lasciatasi esplodere a Gerusalemme nel 2002.

Gli attori s’alternano in brevi lacerti scenici, i movimenti plastici e convulsi creano effetti visivi sia grazie ai fari verticali, che circoscrivono i rispettivi spazi in gabbie di fasci luminosi, sia alle ottime proiezioni, sgranate e sofferte, di Giacomo Verde. Le immagini riflesse doppiano, differenziandosi per dettagli o inquadratura, le figure degli stessi attori, rendendo il quadro visivo vertiginoso e spiralico, alimentando la drammaticità dell’allestimento. Le musiche, quasi tutte registrate con l’eccezione di alcuni interventi rumoristici e psichedelici di Vagelli alla chitarra elettrica, seguono l’andamento dei testi e finiscono per creare ripetute dinamiche in crescendo, indugiando forse eccessivamente sull’effetto climax, tanto che lo spettacolo sembra chiudere svariate volte prima della didascalia finale, un’ultima proiezione che decreta il termine della performance.

L’allestimento è pregevole, al netto di alcuni inevitabili dettagli da meditare, dato che si tratta, lo dice il titolo stesso, di preparativi: il teatro è anche questo, ossia produrre lavori in fieri, a livello di studio, per sondarne efficacia, direzione e potenzialità espressive.
Histoire de ma mort si dimostra intuizione fruttuosa, in cui i testi risultano forse meno efficaci del potente apparato audiovisivo: al di là di considerazioni prettamente politiche sul senso del suicidio e del sacrificio pubblico, che meriterebbero un congruo spazio, l’impressione è che la paradossalità comportata dalla morte si riverberi proprio nella difficoltà di verbalizzazione del problema. La parola è logos, ma anche sistema retorico che veicola e imbriglia qualsiasi senso profondo, di frequente banalizzato nella sua traduzione verbale in depotenziata ridondanza; là dove si ha l’impressione che si voglia dire troppo, suono, corpo, voce e immagini riescono in qualche modo a precedere e trasmettere in maniera più efficace, diretta, l’impatto profondamente emozionale ed espressivo.
Spettacolo che ha il merito e il coraggio di provarci, la cui esperienza speriamo possa giovare all’eventuale scena madre che ne conseguirà.

Visto a Buti, Teatro Francesco di Bartolo, il 30 giugno 2009.

Spettacolo
Histoire de ma mort. Preparativi per la scena madre
con Valerio Amoruso, Paola Marcone e Matteo Vagelli
direzione tecnica: Riccardo Gargiulo
ambientazione sonora: Fabio Bartolomei
video: Giacomo Verde
costumi: Fondazione Cerratelli
foto: Raoul Terilli
drammaturgia e regia: Paola Marcone
produzione: Bubamara Teatro e Teatro Francesco di Bartolo di Buti