Articoli pubblicati altrove e qui raccolti: non il classico, egolaico, ennesimo blog

da teatro.org

a fondo pagina la maschera di ricerca per gli spettacoli

mercoledì 28 gennaio 2009

Giuffrè sindaco della Sanità: declino e morte di un re-mammasantissima

(da teatro.org)
Due colpi di pistola. Due spari fuori scena, probabilmente in testa, all’infame accoltellatore di Antonio Barracano, sindaco in quello sprofondo di case, cunicoli e vasci che è la Sanità, rione–cerniera tra l’ormai borghese Vomero e il brulicante centrocittà partenopeo.
L’esecuzione dell’assassino, offerta al pubblico in forma sonora, è l’aggiunta, unita all'accennata e irrispettosa ribellione d'uno scugnizzo nei confronti del boss durante il primo atto, che la regia di Carlo Giuffrè applica a questo mirabile testo eduardiano, preciso, pulito, essenziale.

Che senso ha, oggi, portare in scena Il Sindaco del Rione Sanità, dopo la sovraesposizione mediatica di Gomorra, dopo Raffaele Cutolo, dopo la guerra tra clan che dagli anni Ottanta insanguina non solo la Campania? La realtà contemporanea, quella della camorra attuale, organizzazione mafiosa meglio adattatasi alla deregulation liberista in fatto di lavoro economia, i cui boss si definiscono imprenditori e commissionano ville ispirate allo Scarface di De Palma, fa sembrare il mammasantissima di Eduardo una foto sbiadita, un personaggio perduto nel tempo, quando essere òmmo poteva avere ancora senso. Ed è certo quel braccio teso a puntar la pistola verso un Barracano di spalle, la più realistica tra le esigue invenzioni originali di questo allestimento: ribellione ignobile e vigliacca che fotografa la realtà attuale di mafie ormai prive di qualsiasi senso dell'onore e si fa figura del tradimento finale.

La scenografia di Aldo Terlizzi è cangiante sotto le luci che, all’inizio, filtrano da altri ambienti rispetti allo stanzone centrale d’una masseria di campagna, a Terzigno, in cui il caotico formicolio dei personaggi (un andirivieni tra familiari del protagonista, medico raisonneur e pigolante corte a mendicar giustizia dal boss) crea movimento già nel pieno della notte, sfruttando la gran copia di porte e ingressi laterali. Il pastello ocra livido, in una notte di rappresaglie tra scugnizzi e operazioni chirurgiche improvvisate, sfuma in soffici tonalità terree all’entrata di Barracano, capozona all’antica, ministro d’una giustizia utopica d’ispirazione e pratica d’applicazione.

La figura del Pater familas, costante nella poetica di Eduardo, ha in questo sindaco concretizzazione complessa: Barracano è personaggio difficile, ossimoro vivente, nella definizione di Anna Barsotti, di quel capo–famiglia e capo–comico che era, in realtà, il suo creatore. I tre atti della commedia consumano un passaggio epocale, la fine d’un regno: la scena della vestizione mattutina è, pur stemperata dalle gag con la fida governante Immacolata (la precisa Antonella Lori), cerimonia ieratica, solenne, mentre l’evolversi della trama, sino alla coltellata traditrice fuori scena (da copione, al contrario degli spari), sancisce l’inizio d’una nuova epoca, alla ricerca di un nuovo, e irrealizzabile, ordine.

In rilievo, rispetto al sanguinoso tramonto del protagonista, la storia dello sfiduciato dottor Della Ragione (Alfonso Liguori, geometrico per interpretazione e centratura vocale) che passa dall’anelare una fuga tardiva e velleitaria, lui medico sessantenne da trent’anni sotto copertura chirurgo della mala, alla volontà, ancor più disperata, d’una resistente permanenza in loco, nella sventurata denuncia dei misfatti che lo circondano.

Tragedia in forma di commedia, Il sindaco è, da un lato, l’affresco feroce d’una realtà in cancrena, cui Eduardo non offre soluzioni o lenitivi, ma solo la maestria chirurgica del suo occhio indagatore d’umanità; dall’altro, è una rappresentazione della morte, parabola occidente d’un sovrano che più non riconosce le macerie in cui è vissuto, mortificante sanzione della frattura tra Io e Mondo.

Giuffrè è un Barracano estenuato ma non domo: la recitazione è scandita, scientemente faticata, forse con eccessivi indugi, ma i movimenti centrano il côté regale del personaggio, suo vero status teatrale. Non convince, piuttosto, la scansione imposta al testo: ignorare la tripartizione originale, condensando in un’estenuante prima parte i primi due atti, non giova affatto al ritmo. Si finisce per appesantire la parte centrale della pièce, in cui il protagonista espone la propria Weltanschauung.
La messinscena risulta macchinosa, troppo pesante: le oltre due ore filate non sono certo rese più scorrevoli dalla recitazione, segno che la struttura forse non facilita neppure il compito degli attori. Per contro, il terzo atto è di rapidità alfieriana, quaranta minuti scarsi, ambientato in un interno rétro, dominato dal verde intenso dei tendaggi in opposizione al bianco della tavola imbandita: vi cenano i personaggi principali, spettatori impreparati della recita d’addio di un Barracano intenzionato a non innescare l’ennesima e inutile faida.

Allestimento “tradizionale”, che offre al pubblico niente di più di quanto ci si aspetti: onesto, forse, ma certo non coraggioso, al di là della doppia (e in fondo superflua) esplosione finale. Come quasi sempre avviene in questi casi, la “salvezza” è assicurata da quel mirabile esempio di meccanica drammaturgica minuziosamente costruita che è la scrittura di Eduardo, struttura portante di provata solidità.
Viene però da chiedersi: siamo sicuri che lui, osservando silente da un utopico e inesistente Aldilà dei Teatranti, scimmiottando il mondo come nel finale de Gli esami non finiscono mai, sarebbe soddisfatto da questi allestimenti tanto scolastici quanto inerti? Lecito dubitare.
Il gran pregio dei classici, e Eduardo appartiene a pieno titolo alla categoria, sta nella spiazzante flessibilità, la loro attualità teatrale e artistica. E per tale ragione è raro assistere a buone realizzazioni dei testi dell’attautore napoletano.
Un classico non meriterebbe d’esser riproposto, per quanto con zelo, ma attraversato e tradito, nel senso di tradotto e reinventato: De Filippo, forse, attende ancora un interprete degno di sé.

Visto a Lucca, Teatro del Giglio, il 24 gennaio 2009

Spettacolo
Il sindaco del Rione Sanità
di Eduardo De Filippo
regia di Carlo Giuffrè
con Carlo Giuffrè, Antonella Lori, Piero Pepe, Alfonso Liguori, Massimo Masiello, Vincenzo Borrino, Gennaro Di Biase, Roberta Misticone, Enzo Romano, Aldo De Martino
scene e costumi: Aldo Terlizzi
musiche originali: Francesco Giuffrè
produzione: Diana Or.I.S.

giovedì 22 gennaio 2009

Quando i nomi non salvano il monologo

Per decenni il monologo è stato l’ancora di salvezza della comicità italiana, forma ideale per allestimenti poco costosi, riproducibili ovunque e in grado di evidenziare le doti di una e più generazioni di attori solisti, dal Grillo in fase “pre-Guru” al primo Benigni (più Cecco Angiolieri che l’edulcorata versione dantesca), dal Verdone che ancora non si credeva autore cinematografico ai più recenti attautori Paolini, Celestini e compagnia.
Del resto, il nostro paese è storicamente terra d’attori, di guitti, di professionisti della scena più che d'autori veri e propri (i grandi drammaturghi italiani, da Goldoni a Pirandello, sono vere eccezioni) il che ci ha consegnato più tradizioni, multiformi e radicate, d’interpreti. Se gli anni Settanta hanno costituito un momento di svolta in questo senso (la comicità come linguaggio diffuso e invasivo in nome d’un cabaret in salsa italica) grazie a una generazione di nuovi comici d’origine teatrale alla carica di tv e cinema, è anche vero che gli ultimi anni sembrano testimoniare quanto tale onda lunga di monologhisti stia esaurendo la propria carica, alla stregua d’una miniera gigantesca che partorisca inerti pulviscoli aurei e (quasi) mai più pepite.

Non fa eccezione, ahinoi, la pur brava Angela Finocchiaro, attrice d’indubbie doti, comiche e non, alle prese col suo nuovo spettacolo, Benneide 2. Al pari della splendida Lucia Poli, infatti, la Finocchiaro è musa teatrale di Stefano Benni, autore ormai consacrato e dall'industria editoriale e dal pubblico italiano, che firma quest’ultimo allestimento diretto dall’esperta Cristina Pezzoli. La collaborazione tra quest’ultima e l’attrice lombarda non è peraltro cosa nuova, dal momento che il precedente Miss Universo (altro monologo, per noi poco convincente a fronte d’incoraggianti riscontri sia dal pubblico sia dalla critica) le aveva già viste lavorare insieme.

Benneide 2 rappresenta a nostro avviso un ulteriore passo indietro rispetto al precedente, che pure contava d’una drammaturgia forte, una storia non certo sconvolgente, ma in grado di “impegnare” le innegabili qualità interpretative dell'attrice. Stavolta lo spettacolo è a numeri (di per sé non certo un male), brani lunghi che l’attrice affronta in una scena spoglia, il cui arredo principale è costituito da due cumuli di pacchi di giornali. A entrare per primo è, però, Daniele Trambusti, vecchia conoscenza del teatro comico italiano e toscano, ultimo “terzo” dei Giancattivi di Alessandro Benvenuti e Athina Cenci, per sostituire (nel 1982) un Francesco Nuti alla rincorsa del successo personale.
Dopo l’ingresso charlottiano dell'attore che s'improvvisa a dirigere un’improbabile orchestra di telefonini, lo spettacolo vero e proprio: Angela Finocchiaro, abbigliamento casual (maglioncino blu su calzoni altrettanto anonimi) ai limiti dello sciatto, si presenta e inizia un monologo a tematica ferroviaria. Un semplice viaggio diviene lo spunto per un’iperbolica raffigurazione d’inferni danteschi, dove gli occasionali “abitanti” dei diversi vagoni divengono vere e proprie anime perdute. La verve d’osservatore sociale, matrice tipica di Benni (quella, per intenderci, del primo Bar Sport) si sfoga in una serie di quadretti contemporanei, colpendo i vizi, le abitudini, le magagne dei costumi nostrani. Peccato che tutto appaia come innocuo, non rilevante, non avvincente: manca il materiale vero e proprio di questi sfoghi, la linfa vitale.
Se, perdonate l'esempio letterario e non teatrale, il già citato Bar Sport era in realtà un addio, affettuoso e sincero, a una società, un'Italia irrimediabilmente al tramonto, le successive variazioni sul tema non sembrano che pallide e depotenziate iterazioni. Così, i quadretti di Benni, di certo non agevolati da una messinscena mal sicura e da rivedere, risultano prove d'autore sbiadite e inerti.

La Finocchiaro s’ingegna quanto può nel tener su la baracca, con una recitazione frizzante, ben dosando il registro surreale, sua corda storicamente migliore.
Certo, non è di soccorso all'attrice una regia alquanto impalpabile: non si capisce, per esempio, a cosa serva, all'inizio dello spettacolo, raggiungere il fondale e attaccarvi una sagoma in carta di giornale se poi il gesto non viene né ripreso né giustificato sotto il profilo scenico. Del tutto inutile, al di là della bravura e della simpatia di un attore che ben conosciamo, la presenza di Trambusti: l’unico vero “numero” riservatogli, un monologo un po’ cionesco (Mario Cioni è la prima maschera, toscana e terragna, del vero debutto di Roberto Benigni), resta lettera morta e non se ne percepisce la reale necessità scenica.

Per fare uno spettacolo, ma questo lo sanno benissimo e Angela Finocchiaro e Cristina Pezzoli e, si spera, l’A.Gi.Di. che produce e distribuisce, non basta mettere insieme autore, regista e interpreti, ancorché ottimi: serve il sangue, in senso non cruento, ma essenziale.
Serve che vi sia un vero motivo per cui si vada in scena, che non sia (dis)impegnare una serata solleticando il pubblico, sempre più pronto a riconoscere anziché conoscere, pensare, faticare per giocare la propria parte.
A fronte dei copiosi applausi, ci si alza esausti e rattristati, proprio per la grande stima nutriata per autore, regista e interpreti: ma è proprio indispensabile portare in scena certi allestimenti?

Visto a Pescia (Pt) al teatro Pacini, il 15 gennaio 2009.
Prima nazionale assoluta.

Spettacolo
Benneide 2
di Stefano Benni
con Angela Finocchiaro e Daniele Trambusti
regia: Cristina Pezzoli
produzione: A.Gi.Di.

mercoledì 14 gennaio 2009

Il Macbeth di Lavia, ossessiva metafora del teatro

(da teatro.org)
Lavia e Shakespeare, un rapporto ultratrentennale, intenso e ininterrotto, sin dal debutto registico dell’artista milanese, nel 1975, con Otello. Il Bardo è autore che consente a Lavia di approfondire, puntualizzare e sottolineare i propri assunti filosofici e teatrali, una riflessione che parte dalla scena per abbracciar la vita. Del resto, meno d’un anno fa il Verdi di Pisa, ormai seconda casa per l’attore e regista, l’aveva visto prodursi in una serie di “letture-spettacolo” di Amleto, performance ricche di divagazioni che superavano talvolta le cinque ore.
In sala, l'attenzione è subito catturata dagli oggetti ai lati del proscenio: a sinistra, una toilette da attore, sedia, specchio con luci e lavabo; a destra, un caos d’abiti appesi e bauli da trovarobe. Poco distanti, due sottili assi di legno consentono la discesa verso la platea, ponte ideale tra immaginazione e realtà.
Un sipario arretrato a scorrimento verticale si apre su una scena spoglia e buia, ove si susseguono pochi elementi: grossi specchi dalle pesanti cornici, la scarna alcova reale, il tavolo del banchetto, le tombe di un cimitero. Lo spazio pensato dallo scenografo Alessandro Camera è desolato, quasi metafisico, a più riprese occultato dalle pesanti coltri di fumo, conseguenze di mattanze belliche e presagio di presenze infernali. Al regicidio che innesca la tragedia, crollano quinte nere e fondali, svelamento che sottolinea la nudità oscena (nell’etimo, inventato da Carmelo Bene, ossia fuori scena) del teatro, la sua dimensione di sguardo gettatto sull’abisso umano. Un'ulteriore struttura trasparente a macchie scure contribuisce inoltre ad allontanare alcune scene dall'occhio dello spettatore, conferendo loro una dimensione onirica.

Patetico attore alla ricerca della propria identità, nell'ostentare la maschera d’un potere impossibile da controllare, il Macbeth di Lavia si muove con esibito impaccio sulla scena; l’inesorabile corsa verso la morte lo vede indossare e dismettere con frenesia gli abiti della parte da recitare: un goffo cappotto di pelle con spalle enormi, le scarpe con zeppe vertiginose, una corona di carta in capo. Non re sanguinario, ma buffone, clown dallo sguardo a tratti spiritato, che la cipria spruzzata alla meglio sul viso contribuisce a enfatizzare, sfumando in momenti di triste sorriso.
La recitazione è polifonica, in contrasto con la desolazione sonora d'una partitura musicale che accompagna discreta l’intera recita. A gesti nervosi e guizzanti, il protagonista (mirabile per tenuta fisica e prestanza, data l’età anagrafica tutt’altro che verde) associa una declamazione ambivalente in cui un’ironia amara e lunare s’alterna a momenti d’enfasi marcata, così come in occasione dei monologhi più celebri sottoposti a una (ormai consueta) contaminazione metashakesperiana, mediante citazioni da Re Lear e altri capisaldi del Bardo.
Al fianco del re usurpatore, Giovanna Di Rauso è una Lady Macbeth elastica e felina, cui ben s’applica la ribelle zazzera biondo platino: la recitazione è convulsa, esasperata nello stridulo timbro vocale e nei movimenti disarmonici. All’inizio superiore per risolutezza e autorità rispetto al marito, pure la consorte è man mano preda del vortice del travestimento, imprigionata nella maschera che da sola si è costruita.
I personaggi che gravitano intorno ai due risultano privi di spessore, senza identità nella neutra tenuta militare (costumi firmati da Andrea Viotti) che li omologa gli uni agli altri: viene da chiedersi se davvero esistano o non siano piuttosto proiezioni d’un cupo incubo scenico. Il Gioco del teatro, con la sua connotazione metamorfica, si realizza in modo compiuto nella triplice e aspra presenza delle streghe (Giorgia Sinicorni, Chiara Degani, Giulia Galiani), esili figure, sfrontate nella loro nudità, che compaiono in forme sempre cangianti: cameriere, sicari, vecchie, ad anticipare la conclusiva disfatta.

Il Macbeth laviano è, al contempo, discorso sul teatro e parabola metateatrale, nel proporre lo sdoppiamento del protagonista dalla dimensione regale della storia a quella, non scevra dal ridicolo, d’un attore che occhieggia e spunta da un baule, costantemente fuori posto, fuori parte, fuori gioco. Destino infame, quello del teatrante, e paradossale: dar vita a personaggi che debbano sempre avere più consistenza di sé, più verità d’una vita spesa in camerini anonimi, stanze da letto sempre diverse, deriva tanto ricercata quanto ignota alla “gente comune”.
Lavia sfrutta lacerti di Carmelo Bene, nell’esibizione comica della sostanza teatrale, del trovarobato scenico (si pensi ai vari Amleti del genio salentino), ma anche richiami, nella recitazione a tratti sostenuta, ad “altri Shakespeare” moderni, da Laurence Olivier sino a Kenneth Branagh.
Peccato che lo spettacolo (ricordiamo come attenuante che si tratta pur sempre d'una prima nazionale) sembri incepparsi, a tratti, e risulti, alla fin fine, piuttosto manieristico: Macbeth è testo talmente consacrato da consentire e consigliare ben più coraggio, e da Lavia sarebbe consentito attendersi qualcosa di più d'un allestimento che sembra dire “Vorrei, ma non posso”.

Visto a Pisa, Teatro Verdi, il 10 gennaio 2009.
(recensione di Igor Vazzaz e Silvia Cosentino)

Spettacolo
Macbeth
di William Shakespeare
traduzione: Alessandro Serpieri
regia: Gabriele Lavia
con Gabriele Lavia, Giovanna Di Rauso, Maurizio Lombardi, Biagio Forestieri, Patrizio Cigliano, Mario Pietramala, Alessandro Parise, Michele Demaria, Daniel Dwerryhouse, Fabrizio Vona, Andrea Macaluso, Mauro Celaia, Giorgia Sinicorni, Chiara Degani, Giulia Galiani
scene: Alessandro Camera
costumi: Andrea Viotti
musiche: Giordano Coràpi
luci: Pietro Sperduti
produzione: Compagnia Lavia Anagni

lunedì 12 gennaio 2009

La giovinezza crudele di Motus, tra partiture corporee e allucinazioni verbali

(da teatro.org)
X o, come specificato nel titolo, Ics, come Generazione X, o ultima lettera dell’alfabeto latino, simbolo neutro a significare indeterminatezza e, persino, morte.
X come resa, limite d’ardua indagine, occhio aperto su una realtà di suburbia e smarrimento, necessità di racconto infranta sul nulla del racconto, il niente da raccontare, l’impossibilità di raccontare alcunché. La giovinezza che Motus pone al centro della sua ennesima allucinazione teatrale (si tratta del movimento terzo d'una produzione internazionale che vede la partecipazione, tra gli altri, di Biennale Danza di Venezia, Lux-Scène National de Valence, Francia, e Theater der Welt 2008 di Halle, Germania) è quella ingoiata, mai rappresentata da una Società dello Spettacolo alimentata ipertroficamente di lustrini e sé stessa, quella giovinezza che fu attrazione e utopia pasoliniana, rappresa e coagulata nella cementificazione, edilizia ed esistenziale, del contemporaneo.

Il teatro è necessità e dolore, via di fuga: il gruppo romagnolo, ormai parte della cinquina di eccellenze dell’avanguardia italiana unita in Associazione Lus (con Fanny & Alexander, Societas Raffaello Sanzio, Teatro delle Albe e Teatrino Clandestino, tutte emiliano-romagnole, ci sarà pure un motivo…), prende spunto da una suggestione di Nagisa Oshima, regista cinematografico giapponese autore de L’impero dei sensi, per poi spaziare in un progetto tripartito dedicato a una riflessione sulla giovinezza, sui temi della ricerca e dello smarrimento.

Una scena dominata da un grande schermo al centro, sui cui vengono proiettate geometriche elaborazioni elettroniche e scorci urbani dominati dal cemento (palazzi, rampe, snodi stradali), si apre alle evoluzioni su rollerblade di Silvia Calderoni che, già all’esterno del Teatro Studio di Scandicci, prima dell’inizio dello spettacolo, distribuiva enigmatici volantini sull’allestimento. L’ingresso, infatti, avviene direttamente dalla platea, evitando un’ordinaria panchina rivolta verso la scena, quasi a doppiare la posizione delle postazioni degli spettatori. L’attrice, esile e filiforme, in un costume minuscolo che esalta la magrezza lancinante, gira attorno allo schermo, sottraendosi agli occhi del pubblico per poi riapparire, sulle note di una musica convulsa, fatta di rumori ossessivi.
La scena si anima progressivamente di altre presenze, divenendo spazio polivalente, strada, marciapiede, esterno cittadino di periferia semiabbandonata. Efficace la sequenza in cui, scotch steso sul pavimento a ricreare la linea discontinua d’una carreggiata stradale, due ragazzi vestiti alla bell’e meglio secondo criteri di giovanilismo contemporaneo ingannano il tempo improvvisando evoluzioni e slalom tra automobili che sfrecciano, indicate da puntuali tagli di luce ed effetti doppler sonori.

Arrivano altre figure, dei musicisti, un bassista, una chitarrista, un vocalist percussionista (Sergio Policicchio, Ines Quosdorf e Mario Ponce-Enrile), e sullo schermo rimbalzano altre immagini, di altre periferie, a unire idealmente tutte le periferie possibili: dallo smarrimento postunitario d’una Germania alla ricerca di sé, alla Francia, all’Italia. La multimedialità dello spettacolo sembra rimandare a una parcellizzazione propria del reale, all’impossibilità di raccontare qualcosa senza ricorrere alla frammentazione, a lacerti comunicativi che il fruitore è costretto a mettere insieme, sorta di puzzle privo d’immagine risolutoria.
Si respira un’atmosfera postpunk in questa giovinezza (s)perduta, nella totale assenza di prospettive reali d’un sistema impostato sul principio produci-consuma-crepa, secondo un refrain già di trent’anni fa ma tutt’altro che risolto o superato. Le figure si parlano, danno vita a diversi piani visivi: la scena si frange in differenti situazioni, per poi tornare dominata dallo schermo, nel tripudio ipocrita e fieristico d’una serie di scoppi pirotecnici, fuochi d’artificio che catalizzano l’attenzione degli attori. Ben presto, i fuochi divengono le luci sinistre d’un bombardamento, un attacco aereo: certe periferie sono uguali, ovunque, e l’Europa cede il passo alla memoria di Belgrado, alla Gaza dei giorni nostri.

Lo schermo diventa scatola trasparente: la visione si apre su un interno neutro, con una scala ascendente da sinistra a destra, ai cui piedi sta un divano in pelle e due piante, forse ficus, ad altezza d’uomo. La Calderoni è alla sommità: si denuda, scende lentamente, a quattro zampe, e i la luce laterale ne fascia il corpo, materia prima d’un teatro d’emozione prima che il logos della voce registrata accompagni il gesto.
Le parole, rimbalzi sonori sulla pelle candida distesa nella discesa pseudoanimalesca dell’attrice, sembrano voler opporre un’ostinata speranza, una resistenza, fatta di sé, di voglia di resistenza, una resistenza fatta d'attesa beckettiana mista a non rassegnazione.
Il ritornello del punk storico, nelle note slabbrate della God Save The Queen dei Sex Pistols, era "no future for you": Motus sembra volersi ribellare anche alla costrizione dell’irrimediabile assenza di destino, cercando, nel paradosso di una scena che è scelta di vita e responsabilità, una via di fuga.
Se non un futuro, almeno qualcosa.
Spettacolo emozionante, che richiede collaborazione da parte dello spettatore nel seguire un percorso linguistico non scontato, sebbene la sintassi scenica sia “consueta” per chi abbia esperienza con il teatro sperimentale. Ed è nell’impatto emotivo, forte, trascinante, il lascito migliore dell’allestimento, di gran lunga superiore a un’autoreferenzialità che è spesso moneta corrente d’una certa temperie stilistica.
Applausi convinti del pubblico, cui si uniscono i nostri.

Visto a Scandicci (Fi), Teatro Studio, 9 gennaio 2009.





Spettacolo
X (ics) - Racconti crudeli della giovinezza - X.03 movimento terzo
ideazione e regia di Enrico Casagrande e Daniela Nicolò
con Lidia Aluigi, Silvia Calderoni, Sergio Policicchio, Mario Ponce-Enrile, Ines Quosdorf
in video Silvia Calderoni, Sergio Policicchio, Denis Kuhnert, Karl Haußmann, Sabine Bock, Toni Bernhardt, Susanne Sudol, Adreas Berger e i gruppi musicali Foulse Jockers (I), Tomorrow Never Come (F), Types of Erin (D) Bring me to my 2nd burial (D)
produzione video: Motus & Francesco Borghesi (p-bart.com)
riprese: Francesco Borghesi, Daniela Nicolò
video compositing: Francesco Borghesi
text compositing: Daniela Nicolò
audio compositing: Enrico Casagrande
sound design: Roberto Pozzi
direzione tecnica: Giorgio Ritucci
luci: Daniela Nicolò
musiche dal vivo: Ines Quosdorf , Sergio Policicchio, Mario Ponce-Enrile
elementi scenografici: Giancarlo Bianchini Arto-Zat, Erich Turroni - Laboratorio dell'imperfetto
consulenza architettura: Fabio Ferrini
foto di scena: Valentina Bianchi, End&Dna
relazioni: Sandra Angelini con la collaborazione di Federica Savini
organizzazione e logistica: Elisa Bartolucci, Valentina Zangari
amministrazione: Cronopios
produzione: Motus, in collaborazione con La Biennale Danza di Venezia, Lux-Scène National de Valence (F), Theater der Welt 2008 in Halle, Istituzione Musica Teatro Eventi, Comune di Rimini "Progetto Reti"

domenica 11 gennaio 2009

Il Berretto di Flavio Bucci, tra consuetudine e voglia di novità

(da teatro.org)
Pirandello, croce e delizia della scena italiana, autore feticcio per il “teatro d’arte” (ammettendo la concretezza d’una tale definizione), che da decenni si confronta col girgentino in un serrato rapporto di smarcamenti, reinterpretazioni, alla ricerca di vie di fuga da certe cristallizzazioni banalizzanti. Il nostro terzo Nobel letterario (dopo Giosuè Carducci e Grazia Deledda) presenta non poche difficoltà nella messa a fuoco del suo discorso teatrale, legato com’è, nell’aspetto esteriore, a un mondo perduto di comportamenti e morali ormai non coniugabili con la sensibilità contemporanea. Per contro, esiste un nucleo rovente di teatralità, una riflessione legata alla messinscena e al suo ruolo che, spesso, se non passa in secondo piano, resta cristallizzata in interpretazioni tanto reiterate da risultar false, scontate e poco avvincenti.

È di fronte a questo vero e attuale dilemma pirandelliano che, spesso, si infrangono le intenzioni di tanta parte del “teatro di prosa” che inquadra l’autore siciliano come un “dovere”, spesso senza tributargli l’attenzione o l’abnegazione dovuta.
Il berretto a sonagli firmato da Nucci Ladogana con Flavio Bucci nei panni del loico cornuto Ciampa rappresenta, in questo senso, un compromesso, una via di mezzo d’ardua decriptazione: da un lato, svecchiamento della tradizione pirandelliana, ignorando scientemente l’imprinting conferito a questa pièce da Eduardo in una celebre mise en scène del 1936, dall’altra ripropone gli ordinari vizi d’una prosa risaputa, un modo di fare teatro assai ordinario e difficilissimo da sostenere se non con un’impeccabile esecuzione tecnica.

La scenografia, di Nicola Delli Carri, presenta un oppressivo, allucinatorio interno borghese, su cui regna il damascato rosso impero dei tre pannelli (due laterali e uno centrale, posto più indietro a creare due ingressi) al centro dei quali campeggiano cornici dorate prive di quadro: è qui che si dipana la grama storia di Beatrice Fiorìca, moglie tradita e (irragionevolmente) assetata di vendetta nei confronti del marito. Diana De Toni interpreta il personaggio con evidente pathos, spesso indugiando sulla stretta lunghezza d’una gonna grigio scuro (costumi, in stile primo Novecento, di Veera Roman) che diviene quasi oggetto di scena nel suo incedere. A cercare, senza successo, di sedare gli spiri tacci della padrona, Bea Boscardi, una Fana attempata e matronesca, esperta del mondo e dei suoi costumi, assai comica nell’impotenza buffa cui assiste alla vicenda, sottolineata dal continuo giocherellare con le nappe d’un nero scialle che la fascia del tutto.

Il salotto di casa Fiorìca è teatro del dramma della gelosia della signora, cui non servono né punto né poco le raccomandazioni, le interlocuzioni e i consigli d’un fratello sperpero (un buon Giorgio Carminati, sfuggente nel porgere le battute ed efficace nei controscena), il delegato Spanò di Renato Campese e, soprattutto, dell’altra vittima delle circostanze, lo scrivano Ciampa interpretato da Flavio Bucci.
L’intenzione di Bucci e Ladogana, come anticipato, è quella d’una ripulitura del Berretto, una distillazione in senso pirandelliano, giacché la storia della pièce è alquanto complicata e sofferta: l’originale, in dialetto siciliano, ispirata a due racconti del 1912 (La verità e Certi obblighi) inseriti nella raccolta Novelle per un anno, fu al centro di una diatriba con Angelo Musco, attore comico e primo interprete scenico del testo, nel 1916. La questione tra il teatrante e il professore riguarda l’intonazione della messinscena, che l’uno avrebbe voluto comica, l’altro basata sull’approfondimento esistenziale. Di fatto, al debutto andrà una versione ridotta dell’originale, nel frattempo perduto, e le due successive riscritture di Pirandello si baseranno sul testo tagliato da Musco. A complicare la storia scenica dell’opera, l’importanza del già citato allestimento eduardiano, responsabile d’una rilettura “partenopea” della storia.
Bucci e Ladogana (cui s’aggiunga Ettore Catalano, collaboratore al testo) offrono quindi una versione completamente scevra dai napoletanismi e regionalismi che, a mo’ di incrostazioni, ne hanno costituito la veste principale di tante riproposizioni: si tratta d’un “ritorno alle origini”, alle reali intenzioni del suo autore, ma, data la petizione d’intenti, è inevitabile registrarne il fallimento.
Sicuramente complice dell’insuccesso, una serata infelice del pubblico: la platea minuscola (sessanta poltrone circa) dei Rassicurati conferisce a un colpo di tosse, la carta di una caramella e lo squillo indesiderato di un telefono cellulare un impatto devastante e sull’attenzione degli altri spettatori e sulla tranquillità dei professionisti in scena. S'aggiunga che tali eventi si sono presentati quasi di seguito alla prima scena e ciò si è visibilmente riverberato sulla “tranquillità” degli attori, messi non poco in difficoltà da tali avverse condizioni.
Al di là di tali infortuni accidentali, però, lo spettacolo s’è rivelato pesante, lento pur nell’esiguità della lunghezza, appesantito da alcune incertezze sia nella recitazione sia nelle scelte di fondo. Il “recupero” tentato s’infrange, infatti, contro l’indugiare eccessivo di Bucci in una dizione a tratti bofonchiata, quasi alla Gino Bramieri, in certe sporcature linguistiche, in certi inciampi (scientemente voluti). Ciampa è sì un perfetto filosofo ignorante, che finisce per trionfare tristemente sui “grilli” della signora, ma l’allestimento non riesce, nell’effetto finale, a emanciparsi da un senso di lungaggine e oppressiva lentezza che è la moneta corrente dei Pirandello non riusciti.Il resto della compagnia non riesce, peraltro, a riequilibrare l’effetto, dato che la recitazione è, in genere, abbastanza trascurata, basata sul mestiere e in apparenza priva d’una minima ricerca di novità, originalità rispetto al dettato del testo. Certi momenti comici funzionano, ma il risultato, rispetto al tentativo e alle potenzialità d’un testo come Il berretto, è veramente esiguo.

Il pubblico applaude, noi non troppo, pur riconoscendo alla compagnia le attenuanti di una situazione non agevole.

Visto a Montecarlo (Lu), Teatro dei Rassicurati, 8 gennaio 2009.

Spettacolo
Il berretto a sonagli
di Luigi Pirandello
regia: Nucci Ladogana
collaboratore al testo: Ettore Catalano
musiche: Rosario Mastroserio
scene: Nicola Delli Carri
costumi: Veera Roman
con Flavio Bucci, Diana De Toni, Gioietta Gentile, Giorgio Carminati, Renato Campese, Luigi Mezzanotte, Anna Casalino, Bea Boscardi
produzione: Diaghilev - Cantieri Teatrali del III Millennio

lunedì 5 gennaio 2009

Il Mozart clownesco di Nola Rae

(da teatro.org)
Il ritorno di Nola Rae sulle tavole del Teatro di Rifredi rappresenta di per sé un evento: correvano gli anni Settanta, segnatamente la seconda metà, e nello storico quartiere popolare fiorentino sorgeva, al posto dell’attuale spazio scenico, il mitico Humor Side - Centro di Sperimentazione per la Nuova Satira, allestito e gestito per conto dell’Arci da una serie di operatori e artisti fiorentini, tra cui i Giancattivi di Alessandro Benvenuti e Athina Cenci.
Erano gli anni dell’assessorato Camarlinghi e Firenze competeva con la Roma di Nicolini quanto a vita artistica: la città respirava (ancora) cultura, senza vivacchiare adagiata su un glorioso passato ormai (tra)passato e problemi di gestione apparentemente irrisolvibili. L’Humor Side (la parola humor venne scritta scientemente in modo errato, per scherzo: si diceva riferirsi a una “celebre rivista inglese” e la maggior parte dei critici dell’epoca vi cascarono in pieno…) era al centro di una rete internazionale di spettacoli innovativi, ospitava artisti provenienti da ogni parte del mondo e collaborava direttamente con il Festival of Fools e il locale Oval House di Londra.
Tra gli attori, i clown e gli animatori d’ogni sorta esibitisi in quel periodo a Rifredi si contano nomi di livello mondiale quali Katie Duck, Jango Edwards e, appunto, l’australiana trapiantata in Inghilterra Nola Rae.
Per questo, il semplice fatto che la donna mimo sia tornata in Toscana è un evento: del resto, in questi ultimi trent’anni non è stata certo con le mani in mano e, anzi, ha corroborato una carriera di livello mondiale, esibendosi in oltre sessanta paesi, riscuotendo successi e onori ovunque, non ultimo il titolo M.B.E. (alla lettera Member of the Order of the British Empire, l’Eccellentissimo Ordine dell’Impero Britannico) conferitole direttamente dalla regina Elisabetta II per meriti artistici.

Lo spettacolo presentato da Nola sul palco fiorentino a cavallo del capodanno è Mozart Preposteroso, suo cavallo di battaglia, proposta interessante per un pubblico sia di adulti, in grado di cogliere sfumature e finezze interpretative, sia di bambini, più inclini a tuffarsi nel mondo magico della clownerie.
L’allestimento, firmato da John Mowat con le scene di Matthew Ridout e i costumi di Alannah Small, segue l’intero arco esistenziale del genio di Salisburgo, attraverso la “lente” del buffonesco, dell’improbabile: il titolo medesimo esplicita l’intenzione, poiché preposteous (che unisce con spirito paradossale i termini contraddittori pre e post) sta significare qualcosa d’incongruo, incredibile e ridicolo.
La cosa è del tutto giustificata, se si pensa che Wolfgang sin da piccolo dovette subire l’ostentazione “spettacolare” del proprio genio da parte del padre, Leopold, che ne fece una sorta di fenomeno da baraccone: il Mozart enfant prodige viene sfruttato alla stregua d'un pupazzo da parte della famiglia (al fianco della sorella Maria Anna, peraltro oscurata da cotanta stella…).
Al pubblico, il sipario aperto offre una sorta di “scatola”, una scena multiforme che ben presto si tramuta in “oggetto teatrale” al servizio dell’attrice: sulle note mozartiane, l’angloaustraliana dà vita a sei numeri lunghi, corrispondenti ad altrettante fasi della breve vita del genio. I primi due movimenti sono caratterizzati dalla presenza del padre: il piccolo Wolfen (nomignolo d’infanzia, in futuro sostituito da Amadeus) è un pupazzo impugnato dall’attrice travestita in foggia settecentesca, simulando lo sfruttamento che il genitore impone al tesoro natogli in casa. Prima la nascita e la scoperta di quella miracolosa attitudine per le sette note, poi l’incredibile maestria del bambino al clavicembalo.
L’intera esistenza di Mozart appare dunque alla stregua di uno spettacolo eccentrico, fenomeno che il carattere del protagonista certo finiva per incoraggiare anche negli anni della maturità: lasciato quindi il padre, ecco la parabola prima ascendente e poi, improvvisamente, discendente verso la fine estrema, quella morte che ha consegnato alla Storia uno dei suoi più grandi geni d’ogni disciplina.

Nola Rae è dolcissima e buffa nelle movenze, abile a trasformare in gioco ogni gesto, ogni oggetto, comprese le bambole di pezza a grandezza naturale che simulano le donne, altra grande passione del compositore. Mozart è stato anche un clown, sembra sostenere con eleganza l’artista anglosassone, e non è certo un azzardo. Del resto, la figura d’un Amadeus divin briccone è la stessa presentata da un celebre film biografico, testimoniata persino dalla lettere firmate dal musicista e pervenute sino a noi.
L’elemento centrale dello spettacolo di Nola Rae è l’invincibilità dello spirito infantile nella vita, la clownerie come chiave di volta non solo per penetrare il mistero di un compositore irripetibile, ma la vita stessa.
In Mozart, l’adulto mai cedette il passo al bambino, a quel Pinocchio incontrollabile che fu parte integrante del suo genio: ed è tra Pinocchio e Peter Pan, infatti, che potremmo collocare questo geniaccio preposteroso, nel monito che una dei più grandi mimi del mondo ci consegna con dolcezza, ossia mai dimenticare l’infante e il clown che sono in noi.

L’unico appunto da avanzare allo spettacolo è una certa tendenza alla ripetizione mista all’autoreferenzialità: dopotutto, è improbabile che i bambini riescano a leggere sulla base della scansione biografica mozartiana e questo vale pure per molti adulti. Se a questo aggiungiamo che la sala del bel teatrino di Rifredi è assai più lunga che larga, un buon numero di raffinati effetti messi in atto dalla Rae hanno rischiato di risultare inefficaci, specialmente dalle ultime file.
Gli applausi non sono pochi, ma avrebbero di certo potuto essere di più, dato il calibro dell’artista.

Visto a Firenze, Teatro di Rifredi, il 3 gennaio 2009.

Spettacolo
Mozart Preposteroso
di e con Nola Rae
scene: Matthew Ridout
costumi: Alannah Small
regia: John Mowat