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giovedì 25 febbraio 2010

Fiabe italiane di John Turturro. Anatomia di un fallimento

Deadline #28. Forme dell’arte colte dal vivo su Fiabe Italiane di John Turturro
di Igor Vazzaz

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Un sipario di panni bianchi, spiegati su fili tesi dai palchetti di barcaccia: immagine solare e  popolana di un’Italia che, da oltreoceano, conserva i colori arcaici d’una gaia povertà mai scrollatasi di dosso, nell’immaginazione dei figli e dei nipoti di chi affrontò l’emigrazione. Accade, invece, che in Italia si torni, celebri e celebrati, a onorar da artisti il trecentesimo anniversario del Carignano torinese, in una produzione che coinvolge Marcido Marcidorjs e Famosa Mimosa. Ed è con un ulteriore omaggio alle origini, dopo Questi fantasmi! di Eduardo (Souls of Naples, regia di Roman Paska) del 2005, che John Turturro calca di nuovo le tavole nostrane, assumendosi questa volta pure le responsabilità di regista e coautore drammaturgico.
Il suo variopinto Fiabe italiane, ispirato alle raccolte di Calvino, Basile e Pitrè, rappresenta un banco di prova interessante per considerazioni che vadano al di là d’uno spettacolo condotto con timida educazione dall’italoamericano e che, nell’insoddisfatta ricezione di critica e pubblico, solleva una serie di problemi che val la pena analizzare.

La messinscena: pastiche drammaturgico, intarsio di nove racconti in un composito gioco di piani narrativi, attori (la compagnia di Turturro, con l’aggiunta di alcuni italiani) a dividersi ventagli di personaggi e un’alternanza d’atmosfere in spazio unico, quella scena ben realizzata da Carmelo Giammello al contempo landa terragna, spiaggia, mare e altrove metafisico di incontri fiabeschi. Due principali vicende, protagonisti Antonio e Francesco - fanciulli uniti per sventure ma opposti d’ingegno (Max Casella e Jess Barbagallo) - costituiscono il fil rouge d’un allestimento che se, da un lato, propone una lettura calviniana della funzione favolistica (l’incipit con Turturro che dal fondo della platea cita testualmente l’introduzione dello scrittore alla raccolta del ’56), dall’altro manca quasi del tutto di renderne l’amara complessità, il graffio sanguigno che è parte stessa della nostra concezione fiabesca. A poco valgono le ottime prove degli interpreti, la raffinatezza scenica degli oggetti di Daniela Dal Cin, una delicatezza complessiva che è segno di rispetto, intelligenza e misura.

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Questioni di varia entità: a livello teatrale, la drammaturgia è pesante, lenta e, forse, la cosa non dovrebbe sorprendere. Grande attore sul grande schermo, Turturro non è autore in senso stretto: prove registiche alla mano, difetta per autorità narrativa, figurativa, strutturale, tratto principe degli amici Coen, per citare un esempio. Le sue pellicole, si pensi all’ultimo Romance & Cigarettes (2005), benché siano gradevoli, vivono d’intuizioni e trovate senza raggiungere mai lo statuto d’oggetti filmici conchiusi. Costringere in un piano unitario nove  fiabe è impresa ad alto coefficiente di rischio, necessitante di tutt’altra maestria drammaturgica: uno Shakespeare, non un Turturro.

L’assenza di fluidità è peraltro gravata dalla babele linguistica in scena: attori americani che si esprimono in inglese (tradotto da sopratitoli) e in un italiano sporcato, a tratti incomprensibile; interpreti italiani sospesi tra dialetti meridionali e lingua nazionale; mélange in potenza interessante, doppio delle difficoltà di Calvino alle prese con la pluralità dialettale del repertorio italiano, ma che ben presto si rovescia in caos idiomatico, costringendo sguardi e orecchi al rimbalzo tra scena e schermo delle traduzioni, sino a compromettere attenzione e gusto.

Il punto più cogente è però un altro: cosa è giusto chiedere a un artista americano che si cimenta con le fiabe italiane? E quali possono essere i suoi scopi poetici nell’allestire uno spettacolo del genere?
L’Atlantico è assai più breve andando da est a ovest che in direzione opposta. Per quanto distorte, mai del tutto veritiere e sempre discutibili, le informazioni che in Italia si hanno degli Usa sono maggiori di quelle che di noi parlano agli americani, specie in ambito artistico. Gli ultimi film italici di maggior diffusione negli States sono stati La vita è bella e il Pinocchio benignesco, entrambi pensati appositamente per pubblico e critica stelle e strisce. La stessa cattività hollywoodiana di Muccino corrisponde all’americanizzazione di un nostro regista più che a una qualsiasi, minima, italianizzazione del loro cinema.
C’è, nell’occhio degli statunitensi rivolto all’esterno, un vizio congenito, una tara, costituita da colpevoli ingenuità e semplicismo (confermati dalla loro politica estera, a prescindere da chi sieda nella Sala Ovale) e alimentata di cliché che la realtà della comunicazione contemporanea non scalfisce né punto né poco. E così, per un artista intelligente come Turturro, da anni habitué dell’Italia, il Belpaese, visto attraverso la lente distorsiva e poetica delle fiabe, è sempre quello scalcinato e terroso d’una povertà desolante e dei panni bianchi stesi al sole.
Ci vedono, e ci leggono, così.

S’aggiunga un altro dato fondamentale e che spiega la faticata fruizione d’una drammaturgia, quella dello spettacolo turturriano, non esente da intoppi: che rapporto abbiamo, oggi, con le nostre fiabe?
Sono ancora lette o partecipano di un retroterra culturale a perdere, sostituite nell’immaginario da cartoni animati, americani o giapponesi, che ignorano del tutto le nostre origini? Fiabe italiane presuppone la conoscenza del materiale originale, pena lo smarrirsi tra filoni narrativi, personaggi disparati, peraltro resi da un numero limitato d’attori,  ognuno alle prese con più caratteri. Le storie scelte da Turturro non hanno lo stesso valore iconico di un’Alice carroliana (pensiamo a Disney, ma anche al prossimo Tim Burton), di Cenerentola o di Biancaneve: sono narrazioni seppellite in una memoria occidente, inclini al silenzio, ben oltre il semplice rischio di non parlarci più. È un repertorio perduto, il cui ricupero necessiterebbe d’un lavoro ulteriore rispetto alla semplice (e imperfetta) traslazione scenica. Inevitabile, quindi, la necessità d’un costrutto drammatico assai più forte e d’una pratica teatrale più prossima alle attese della nostra sensibilità. Non sosteniamo che il teatro debba essere necessariamente localistico, tutt’altro: ma è evidente come l’operazione di Turturro fosse tarlata alla radice da una serie non indifferente di questioni, tutte ampiamente prevedibili.

L’ulteriore domanda da porre è, dunque: a chi avrebbe dovuto rivolgersi lo spettacolo? Data la committenza, la risposta sembra scontata: al pubblico italiano. Eppure l’allestimento non ci ha parlato, e la consonante ricezione di pubblico e critica lo testimonia. In questo senso, sarà interessante vedere l’accoglienza newyorkese di Italian Folktales: non è da escludere che, con altro destinatario, il “messaggio” possa acquisire rinnovata vitalità e senso differente. Quanto a queste repliche italiane (allo Streheler di Milano e al Mercadante di Napoli) difficile immaginarsi una reale crescita della performance, dato che i limiti intravisti non sembrano afferire a problemi d’un meccanismo da rodare, quanto a difetti strutturali, impossibili da eludere.

turturro21.jpg Eppure Fiabe italiane sarà, al contrario di altri, uno spettacolo che ricorderemo: di questo ne siamo certi ed è lecito chiedersi perché.
Al pari degli spettatori che hanno con noi assistito alla visione, abbiamo registrati emozione, rispetto, fiato sospeso. Ma ne abbiamo condiviso pure le espressioni poco convinte a fine recita, le recensioni amarognole, la perplessità diffusa aleggiante nella dorata sala del Carignano.
Ricorderemo Italian Folktales principalmente per un solo motivo: la dimensione di evento, il contatto diretto con una star cinematografica, la natura ultraterrena rappresentata dalla presenza di un divo, stella peraltro non afferente all’universo mainstream inviso a certo snobismo nostrano, ma, anzi, partecipe d’una costellazione d’attori di un cinema colto e popolare al contempo, paradigma che gli Stati Uniti coltivano con assai maggior naturalezza di quanto accada in Italia.
E per quanto il teatro mantenga la sua essenza di forma espressiva residuale, problematica, necessariamente politica, effimera, legata alla presenza fisica e, dunque, tetragona alla comunicazione massmediale, il caso Turturro rappresenta in tutto e per tutto una specie di sconfinamento, di minuta deriva verso il sensazionalistico, sciente ricorso a quella Societé du Spectacle che scampo non offre né possibilità di fuga.
Non si tratta di mero provincialismo, critica mossa da più d’un osservatore dello spettacolo e dell’intera operazione, ma d’un punto debole, forse tuttora sottovalutato, di un sistema culturale che ha smarrito sé stesso, sia per ciò che concerne le proprie narrazioni archetipiche (le ormai fiabe ignote di Calvino, Basile e Pitré) sia nelle insidie d’un bisogno pneumatico, in un periodo di crisi e sale spesso semivuote, di individuare strategie efficaci per creare interesse, curiosità e attenzione rispetto alle proprie proposte. Rivolgersi a John Turturro, artista che amiamo e rispettiamo, rappresenta quindi la cartina di tornasole d’una fragilità produttiva e creativa di cui ci pare inevitabile, e forse utile, occuparci, senza nascondimenti di sorta dietro i numeri incoraggianti dei biglietti venduti.
(12 febbraio 2010)

Spettacolo
Fiabe italiane (Italian Folktales)
liberamente ispirato alle Fiabe italiane di Italo Calvino e alle favole di Giambattista Basile e Giuseppe Pitrèscritto da Katherine Borowitz, Carl Capotorto, Max Casella e John Turturro

con:
Jess Barbagallo (Francesco), Katherine Borowitz (Mamma, Regina delle fate del Lago di Creno, Principessa, Megera), Max Casella (Antonio), Richard Easton (Vecchio, Orco, Drago, Ubriaco),
Erika La Ragione (Morte, Giocatore, Mendicante), Aurora Quattrocchi (Nonna, Fata), Giuliano Scarpinato (Diavolo, Dottor Pancrazio, Fratelli di Francesco), Aida Turturro (Zia, Fata Marina, Megera, Antonietta), Diego Turturro (Ragazzino, Figlio dell’Oste, Bastone), John Turturro (Principe Granchio, Oste, Bel Principe)
regia: John Turturro
scene: Carmelo Giammello
costumi e oggetti di scena: Daniela Dal Cin
luci: Luca Bronzo
musiche eseguite dal vivo dalla Compagnia Artistica La Paranza del Geco, ossia Simone Campa (voce, chitarra battente, flauti, percussioni tradizionali), Sergio Caputo (violino, mandolino, mandola) e Angelo Palma (voce, chitarra classica)
assistente alla regia: Paola Rota
assistente alla scenografia: Emanuela Vicentini
con la collaborazione di Marcido Marcidorjs e Famosa Mimosa, OPEN DOOR
soprattitoli in italiano a cura di Prescott Studio Firenze, traduzione: Rossella Bernascone
prodotto da Fondazione del Teatro Stabile di Torino/ Teatro Stabile di Napoli con il sostegno di MIBAC

mercoledì 24 febbraio 2010

Una caccia senza sangue

(da Giudizio Universale, web)
Luigi Lo Cascio porta in scena uno spettacolo ispirato a Le Baccanti di Euripide: La caccia è ben congeniato, ma manca il contatto con la tragedia
di Igor Vazzaz


Ossessione per la forma tragica e impossibilità di esprimerla, di penetrare a fondo la dimensione del dionisiaco, la sua sapienza distruttrice e, al contempo vivificatrice, paradossale. Luigi Lo Cascio si getta a capofitto nella complessa rilettura euripidea delle Baccanti, in questa Caccia, cerca disperata e asintotica a più prede e oggetti: le menadi tebane al seguito del ricciuto dio ebbro, il contatto sconvolgente con la radice più profonda del pensiero ellenico, la sua comprensione intellettuale, raziocinante e, infine, la sua attuabilità teatrale.
È possibile la tragedia oggi? No, è la risposta chiara, disarmante e onesta d’un allestimento ben condotto, ricco di soluzioni e non semplice a solo virtuosistico di un ottimo attore.
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In un quadro scuro, lo spazio scenico si comprime ed estende per mezzo d’un fondale semovente su cui si stagliano proiezioni dinamiche di segni violenti, matita bianca su nero. Le figure, graffiti realizzati magistralmente da Alice Mangano e Nicola Console, accompagnano con tratti rapidi e sofferti l’intero svolgimento d’una performance originale per idea e pratica: ora a supporto dell’azione (i vecchi Tiresia e Cadmo che aderiscono al rito del nuovo dio), ora a illustrare i grumi d’umore del protagonista della storia, il tirannico Penteo/Lo Cascio destinato a esser sbranato dal thìasos capitanato dalla sua stessa madre, ora ad animarsi con la beffarda e colorata presenza del critico/bambino (il bravissimo Pietro Rosa) che con strafottente faccia di tolla rappresenta il tentativo di penetrare intellettualmente una sapienza che, pur afferendo a una parte ineluttabile dell’animo umano, ci è ormai inaccessibile. Eccellente esempio di Grillo Parlante (il cui esibito rotacismo fa pensare al critico d’arte Philippe Daverio), il pargolo sottolinea, commenta, chiosa i punti focali della storia, finendo però, nel momento in cui annuncia la rivelazione del senso ultimo della tragedia, prima cieco (citazione edipica) e poi accoppato da neri volatili, non senza una certa soddisfazione per lo spettatore.

Il Penteo di Lo Cascio s’agita disperato in questa ossessiva scena mentale, spazio a riprodurre l’oscurità in cui brancola il tiranno, nel tentativo, inutile, d’arrestare, contrastare la forza d’un dio che finirà per blandirlo, affascinarlo e, infine, dilaniarlo per le sue sacerdotesse invasate. Ora a cavallo d’un equino di legno, ora intrappolato su di un tavolo inclinato, con indosso costume bianco, ingombrante armatura sospesa tra Ariosto e Star Wars, il protagonista naufraga in un ampio spettro di soluzioni attoriche, polifonia che esprime il passaggio dal rifiuto dittatoriale, con esplicita citazione da dittatore chapliniano, allo struggimento interiore sino all’accettazione ambigua di presentarsi en travesti per poter osservare le baccanti in delirio. La progressiva corruzione della granitica facciata è slittamento, continuo e inarrestabile, di matrice psicologica: il rifiuto schifato, Freud docet, è gravido d’attrazione morbosa, di turbamento, e Lo Cascio illustra a dovere la deriva annichilente del protagonista di questo monologo mascherato, innervato di reminiscenze kafkiane.
Fedele al paradosso, lo spettacolo sfugge alla visione delle baccanti: il momento finale è privato alla vista, sostituito dal terzo di tre filmati–parodia di réclame pubblicitarie che, a mo’ di coro, stemperano la tensione con ironia non sempre efficace, infrangendo ulteriormente l’aspettativa del pubblico in un fallimento ineluttabile: il tragico ci è precluso, non resta che un ghigno amaro.

Spettacolo che ha il pregio di “provarci” e che programmaticamente denuncia i propri limiti, La caccia realizza però solo in parte il proprio disegno, per quanto limitato e consapevole: anche se riprodotta, liofilizzata, derubricata ad accidente scenico irriproducibile, un contatto anche fortuito con la tragedia dovrebbe imprimersi con la forza d’un marchio a fuoco nello spettatore e non lasciarlo con la sensazione d’aver assistito a un allestimento bello e interessante, ma “privo di sangue”.
E invece si resta straniati da questa pregevole performance, che vuol dimostrare l’impossibilità di calarsi nel delirio dionisiaco del pubblico attico, ma che rischia, però, d’anestetizzare eccessivamente lo spettatore, quasi ad annichilirne la reazione in una distanza ironica raggelata. Il teatro può ancora, e deve, trasformare chi vi partecipa, anche al di qua della quarta parete: risultato eccezionale, ma che non possiamo smettere di pretendere.
(24 Febbraio 2010)

Visto a Pontedera, Teatro Era, il 7 febbraio 2010

Oggetto recensito:

La caccia, da Le baccanti di Euripide, di e con Luigi Lo Cascio

Prossimamente: Bologna, Duse, 26-28/2; Crema (Cr), 2-3/3; La Spezia, 5-6/3; Milano, Puccini, 9-21/3; Pavia, 24-25/3; Grosseto, 28/3
Il resto della locandina: Nicola Console, Alice Mangano, Desideria Rayner, ideazione; Andrea Rocca, musiche originali; Mauro Forte, ideazione sonora; produzione CSS Teatro stabile di innovazione del Friuli Venezia Giulia
Pregi: coraggio e onestà
Difetti: freddezza, nonostante l’ottima prova d’attore e la creatività delle soluzioni visive; ironia, specie nei filmati, alquanto sforzata
Cameo: nel secondo video, al fianco di Lo Cascio ci sono gli amici, e compagni d’Accademia, Alessio Boni e Fabrizio Gifuni

giudizio:

Il solito Albanese

(da Giudizio Universale, web)
Nessuna sorpresa nei Personaggi portati in scena dal talentuoso comico: tornano il Ministro della Paura, Epifanio e Cetto Laqualunque, in uno spettacolo del tutto privo di inventiva
di Igor Vazzaz

C’è qualcosa di profondamente ingiusto nel sistema spettacolare italiano, e non parliamo di politica culturale, se attori d’indubbio talento, inventiva ed esperienza, finiscono puntualmente per offrire assolo teatrali insoddisfacenti e frustranti per l’occasione perduta che rappresentano. Ultimo della serie Antonio Albanese, che gode in abbondanza di credito da parte nostra, e non solo: interprete poliedrico, incline a una polifonia non costretta nei limiti del riso, capace di ben figurare sia in scena sia su schermi grandi o piccoli e di recente scopertosi addirittura regista d’opera.
Personaggi
, già dal titolo, prefigura ciò che sarà, compendio di quei caratteri che l’artista ha negli anni presentati in tv e che si sono accattivati, complice una recitazione raffinata e ricca di sfumature, l’affetto incondizionato d’un pubblico fedele. Pubblico che, va detto, non coincide quasi per nulla col battimani coatto dello Zelig bisiano (e Woody Allen, se gliene fregasse qualcosa, avrebbe tutto il diritto a pretendere il sangue di chi ha così mal usato uno dei suoi migliori titoli), ma che, ormai, sembra aver appaltato senso critico e autonomia di giudizio a chissà qual altro ambito della propria esistenza.


Le ragioni del nostro livore, solo in apparenza eccessivo, sono motivate dalla sincera ammirazione provata per l’attore, come a dire: più alto è il livello, più clamoroso il tonfo qualora il bersaglio non venga colpito. A patto, però, d’accordarsi su quale debba essere il bersaglio in questione. Si va a teatro per provare de visu l’emozione d’una performance vivente, per sentire, respirare, avvertire la presenza dell’attore. Ciò comporta un dispendio, non solo economico: a fronte di tale sforzo, per il quale lo spettatore dovrebbe ricevere un encomio tutt’altro che convenzionale da parte di artista, autori e maestranze varie, non è lecito aspettarsi qualcosa di meno rispetto al risultato basilare d'ogni espressione artistica: la sorpresa.
L’ambito comico più d’altri equivale peraltro a certe prove d’atletica leggera come salto in alto o con l’asta: è necessario, improrogabile, che la sbarra sia posta sempre più in alto, anche di poco, pena il già visto, equivalente scenico dell’inerzia mortifera. E invece, nisba: serie di personaggi in sé pregevoli (il Ministro della Paura, Alex Drastico, Cetto Laqualunque sino al tenero Epifanio) per altrettanti numeri lunghi (almeno questo) all’insegna della reiterazione, arricchita da una minima improvvisazione che è, comunque, truccaccio arcinoto.
Il bello, o brutto, è che Albanese è proprio bravo: timbratura vocale sempre ricca d’armonici, bellissima in certe increspature baritonali, buona per letture declamatorie; presenza scenica autorevole nella gestione d’una pinguedine aggraziata ed elegante, anche nelle grevi sottolineature pelviche di alcuni caratteri; talento, misura e credibilità per potersi rivolgere al pubblico senza lisciarlo, da uomo normale che sarebbe tutto da testare con certe partiture di Gaber, per intenderci. E l’inizio fa ben sperare, con quella figura solinga in una scena spoglia alle prese con una valigia rossa apparsa d’improvviso a lato: abile gestione dello spazio, con quei passi minimi, accennati e misurati nel timore d’avvicinarsi a un banale oggetto trasfigurato in pericolo ignoto e terrificante. Siamo, per l’appunto, nei dintorni del Gaberscik nel numero in cui si sente seguito da una spaventevole figura che si rivela un innocuo passante notturno.

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A fronte di tanta grazia, una scrittura stravecchia, condita con umorismo da salotto radical-chic, a tratti indulgente in scatologie facilone. E non bastano la desolazione da outsider dei personaggi più “umani”, la satira viperina dei paradossali potenti, l’enfasi priapica del siculo arrivato “giù al Nord”: visti e rivisti, in questo spettacolo fatto benino, ma che resta imbrigliato in un intrattenimento senza genio né sangue. E il pubblico apprezza, felice e beato nella rassicurazione d’una performance che dà ciò che promette, niente di più, niente di meno, nella logica d’uno scambio alla pari: nessuno scarto, niente di niente.
Tutti contenti, dunque? No. Perché sarebbe preferibile uno spettacolo osceno e irritante piuttosto di due ore spese nella gaia consolazione del rivisto, nella rassicurazione di non esser come quelli che vanno a vedere Natale a Miami (siamo ironici: odiamo lo snobismo). Rassicurazione che, data la struttura di certe messinscena nate sul presupposto che il pubblico vada accontentato, blandito e nulla più, si dimostra ancor più colpevole, nella presunzione insoffribile d’essere migliori.
(15 Febbraio 2010)


 


Oggetto recensito:

Personaggi, di e con Antonio Albanese
Locandina: testi di Michele Serra e Antonio Albanese, con la collaborazione di Piero Guerrera, Enzo Santin, Giampiero Solari; produzione Bea srl
Visto: a Cascina (Pisa), La Città del Teatro, 1 febbraio 2010
Prossimamente: Milano, Ciak, 11/2-7/3; Piacenza, 9/3; Modena, Storchi, 10-11/3; Alessandria, 12/3; Torino, Colosseo, 13-14/3; Fermo, 16/17/3
Il giudizio (scientemente duro): tre soli all’attore, quattro ombrelli ai testi di ogni personaggio
L’asticella del saltatore: troppo poco il riferimento a Falcone nel pezzo di Alex Drastico; è un pezzo di quindici anni fa e si sente
Albanese operista: nell’ottobre 2009 ha diretto Le convenienze e inconvenienze teatrali di Donizetti alla Scala, senza peraltro sfigurare
Obiezione: perché Guzzanti era stato trattato meglio?
Risposta: perché, pur nella reiterazioni, alcune parti dello spettacolo avevano graffiato, cosa che nessun personaggio di Albanese è riuscito a fare
giudizio:

Spettegoliamo su Gaspare e Zuzzurro

(da Giudizio Universale, web)
La storica coppia del Drive in porta in teatro Rumors (Dicerie), di Neil Simon
di Igor Vazzaz

Non siamo integralisti, tutt’altro, fermamente convinti che qualsiasi tipologia di teatro, e di lavoro in genere, possa essere realizzata con serietà, efficacia, dignità e onestà: ci apparecchiamo sempre di buona lena a seguir spettacoli dei più vari, schivando qualsivoglia snobismo. Dunque, fatte salve le ultime due qualità citate, schiettamente morali e non di nostra competenza, stavolta parleremo male d’un allestimento fresco di debutto, protagonisti due “miti” di quegli anni Ottanta che ci hanno, bene o male, cresciuti e formati.

Si tratta di Rumors di Neil Simon, con Nino Formicola e Andrea Brambilla: inutile dire che, per i non appassionati di teatro, questi due nomi risultano ignoti rispetto a Gaspare e Zuzzurro, formidabile coppia comica resa popolare da Drive In, televisivo must degli “anni da bere” e tuttora imprescindibile riferimento per qualsiasi comicità catodica.
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In un interno altoborghese di bianco sgargiante, uniformemente illuminato, prende vita la buffa vicenda d’un tentato suicidio da parte del vicesindaco di New York, appena abbandonato dalla moglie.
Casualmente coinvolti, due ospiti (Formicola/Gaspare e Alessandra Schiavoni) arrivati in lieve anticipo rispetto al cocktail party dato in onore del decennale di matrimonio dei congiunti, di cui la rottura è ignota agli invitati. Formicola, peraltro, è l’avvocato, oltre che amico fraterno, dell’amministratore e, animato da iniziale calcolo politico e prontezza di riflessi, cerca di gestire al meglio la situazione con un improbabile tentativo d’insabbiamento rispetto agli ospiti in arrivo, tra cui la coppia Brambilla/Zuzzurro e Eleonora d’Urso.
Ha dunque inizio una travolgente serie di equivoci, mistificazioni, infortuni, bugie e fraintendimenti, cui il pubblico assiste da posizione onnisciente: i personaggi, tipici rappresentanti d’una borghesia americana fatua, logorroica, schiava di piccoli vizi, si annodano tra occultamenti e chiacchiere, pian piano scoprendo la paradossale gravità della situazione.
Lo spazio è chiaro, privo di segreti, con quattro poli principali: l’ingresso sopra la scalinata a vista, in alto a destra, che conduce alla camera del padrone di casa; il telefono, vero personaggio aggiunto della commedia; la porta a vetro opaco sulla sinistra, da cui s’intravede l’arrivo di auto e personaggi, compreso il malcapitato poliziotto che nel secondo tempo giunge a indagare; infine, l’onnipresente banco bar domestico, elemento immancabile quanto prevedibile nelle rappresentazioni sociali di Simon.

Rumors è un false friend: non significa rumori, bensì pettegolezzi, dicerie, ossia l’asse portante dell’intera pièce, forza costitutiva d’una società che straparla, nel tentativo scomposto di dar forma, con le proprie ciarle, al mondo circostante.
Il punto debole e del testo e della messinscena sta nella totale assenza di segreti, di sorprese che non siano gli incastri comici della trama, tanto imprevedibili da essere ampiamente previsti. Tutto è in luce e, in tal senso, la scenografia è fedele allo spirito dell’allestimento, non basta che i costumi siano sgargianti e si staglino in modo efficace sulla monocromia della scena, così come non bastano le risate frequenti strappate a un pubblico ben disposto, felice di rivedere due volti noti della tv d’un tempo, e sin troppo indulgente rispetto a una commedia scontata, non salvata dalla buona prova di Andrea Brambilla. L’ex commissario è infatti il più in forma d’una compagnia dalla recitazione convenzionale, carica nella gestualità, nel volume vocale, a tratti irritante, ma, soprattutto, priva di guizzi o idee degne di nota.
Eppure, in queste situazioni, è l’attore che dovrebbe, e potrebbe, farsi carico dello spettacolo a fronte d’una regia (Massimo Chiesa) alquanto impalpabile.

Carenza di spunti e povertà di soluzioni non riescono invece a valorizzare con la messinscena un testo che, lasciato a sé stesso, rappresenta l’ennesimo capitolo d’una comedie humaine ormai risaputa, e non ce ne voglia Simon, autore, al di là di tutto, tra i più importanti del nostro tempo. Il pubblico apprezza, ma a teatro non è detto che il cliente abbia sempre ragione.
(03 Febbraio 2010)

Visto a Campi Bisenzio, Teatro Dante, il 16 gennaio 2010

Spettacolo
Rumors, di Neil Simon, con Andrea Brambilla e Nino Formicola

Giudizio:

Oggetto recensito:

RUMORS, DI NEIL SIMON, CON ANDREA BRAMBILLA E NINO FORMICOLA

Gli altri attori: Marco Zanutto, Elisabetta Becattini, Simone Francia, Elisa Gabrielli, Paolo Giangrasso
Prossimamente: Genova, Politeama, 2-7/2; Lugano (Svizzera), 9-10/2; Varese, 16-18/2; Garbagnate Milanese, 16/3; Cassano Magnago (Mi), 17/3; Concorezzo (Mi), 18/3; Cesano Maderno (Mi), 27/3; Milano, Manzoni, 30/3-2/5
Arte/Intrattenimento: binomio non sempre antitetico, ma importante; la prima dovrebbe “modificare” sia chi la fa sia chi la fruisce, l’altro deve semplicemente distrarre piacevolmente; fondamentale sarebbe non passare dallo spettacolo d’intrattenimento a quello digestivo

sabato 20 febbraio 2010

L'eleganza Poli-edrica del Novecento

(da Giudizio Universale, web)
Il geniale artista dei travestimenti in Sillabari interpreta le aspirazioni piccolo borghesi dei personaggi parisiani di Igor Vazzaz

È splendidamente doloroso (ri)vedere in scena Paolo Poli, per mille e più motivi. Primo fra tutti l’insufficienza pneumatica del nostro lessico nel poter descrivere, pur approssimando, le mirabolanti dimensioni d’un artista per il quale ogni lemma è già stato speso, ogni attributo bruciato, ogni apprezzamento sfruttato. Quasi trent’anni or sono, Rodolfo Di Giammarco elencava con divertito puntiglio, nell’unica monografia dedicata al professorino che canta (questo sì, misfatto autentico dei nostri studi teatrologici), una pletora d’aggettivi, iperbolico elenco dai toni pseudorabelaisiani, nel tentativo di dar conto degli infiniti cromatismi d’una macchina teatrale abbacinante, Poli-edrica.
Siamo nel 2010 e la musica non cambia: lui, sempre più bello, sempre più bella, là, in un altrove di teatranti che sfuma nel suo farsi, sfugge nel suo darsi, sbianca nella memoria, lambendo con grazia femminina i contorni d’un Novecento passato, ma mai interamente trascorso.

Maestro del répechage poetico e teppista, eccolo estrarre dal suo immenso baule i racconti di Goffredo Parise, due Sillabari (il primo del 1972, l’altro di dieci anni più tardo, premiato con lo Strega), interrotti alla lettera S per “mancanza di poesia”. Dizionari emotivi, sentimentali ma non sentimentalistici: ognuno di questi brevi racconti dal sapore enigmatico, aperti nella sospensione minimalista, dà origine a quadri scenici, per lo più monologhi, in cui l’attore fiorentino scava con la consueta ironia maliziosa, giocando abilmente sulla parola da porgere, il gesto da esibire e, soprattutto, il non detto da insinuare.
Notevole l’equilibrio drammatico di questo spettacolo singolare nella biografia del nostro: a dominare, per una volta, non è la sua ipertrofica vena da front man, il suo incontenibile e variopinto fregolismo innervato di camp, bensì il testo, che costringe la scrittura scenica a una sedimentazione verbale, cui gesti, scenografie pittoriche (di Lele Luzzati, splendide, ispirate a illustrazioni di primo Novecento), costumi magnifici e sontuosi (Santuzza Calì) fanno da perfetto contorno, senza mai esondare.

È così che le stazioni di questo peculiare puzzle drammatico sono caratterizzate dalle voci dei personaggi parisiani, dai loro sogni minimi, da aspirazioni piccolo borghesi, paure e inquietudini pudibonde: Poli in fogge sempre cangianti (e quanto è sapiente il suo pavoneggiarsi a ogni cambio di costume) interpreta indifferentemente uomini e donne (inutile dire in quali vesti risulti del tutto irresistibile), sempre lasciando spazio alla dimensione letteraria dei caratteri, adattando la propria vocazione camaleontica ai protagonisti di queste minute e indecifrabili storie.
Ovvio che a trionfare sia ciò che non si dice, gli interstizi di senso che Parise apre in queste vicende minuscole, e che la maestria della recitazione risieda nell’inconsueta misura che l’animale da palco riesce a mantenere con felice costanza. Il prezzo è, forse, quello di una non completa scorrevolezza, poiché l’andamento della messinscena è volutamente paratattico, talvolta sofferente d’un reiterato meccanismo a innesco e arresto ripetuti.

Ottimo oliante dell’ingranaggio è l’apparato coreografico, curato dall’eccellente Alfonso De Filippis, sempre più “secondo”, spalla e aiuto per il maestro oltre la soglia degli ottanta (incredibile ma vero): le ridicolose orchestrazioni midi approntate dalla fedele Jacqueline Perrotin sono le basi per un pot-pourri di canzonette, ora svagate, ora sentimentali, ad abbracciare cinquant’anni di musica, non solo italiana. Esemplare il lavoro di decostruzione semantica operata dall’unione-scontro tra i testi, le musiche (formidabili i suoni, volutamente plastificati e irridenti) e le ambientazioni: una languida e malinconica Arrivederci finisce per risultar malefica nell’addio che un occhialuto borghese in giacca arancione (Poli lui-même) rivolge al prestante operaio in tuta blu munito di bicicletta.
Le parti musicali sono anche occasione di ammiccanti balletti in cui il protagonista assoluto si vede quadruplicato nelle figure di altrettanti giovani e bravi attori, tra cui il già citato De Filippis. In questo senso, la novità è rappresentata dallo spazio crescente appaltato alla destrezza di Luca Altavilla, Alberto Gamberini e Giovanni Siniscalco, alla bisogna perfetti cloni poliani, ma ciascuno dotato di piglio e ritmo personalissimo.
I cinque interpreti si palleggiano e dividono numeri e monologhi, così come la girandola di repentini cambi costume, motivo di costante sbigottimento da parte d’un pubblico sin da subito disposto a divertirsi e sorridere. Ed è bellissima la lingua teatrale parlata, proposta, carezzata da questo grande guitto e vedette della nostra scena: un italiano musicale, mai affettato, dotato d’eleganza inimmaginabile dopo decenni di sublingua televisiva.

Del dolore, si diceva: dolore di ammirare un diamante puro e splendente, tanto moderno da far sbiadire l’attualità teatrale e non solo. Perché, ed è questo ciò che imputiamo maggiormente al miglior brillante che abbiamo, è un’onta ch’egli risulti persino, e senza la minima ruffianeria, consolante, rinfrancante, non certo per sua colpa. Ed è con lui, senza troppe sottolineature, senza calcar minimamente mano o voce, che sembra di poter ristabilire qualche punto fermo in un’Italia sempre più greve, sempre più violenta, sempre più intimamente fascista. La gaiezza del suo sorriso linguacciuto e indomito trionfa persino sull’ormai canonica ridda dei bis: in fantasmagorico costume dorato, eccolo porgere un ultimo numero dannunziano, di concerto con i quattro giovin attori. E anche il Vate è sistemato, senza sforzo. Il pubblico plaude, acclama, tributa un’ovazione, per una volta giustificata, all’istrionesco geniaccio fiorentino: lui esce, sorride paziente e poi, con fare platealmente scocciato, invita tutti ad andarsene a casa, una buona volta. Grazie di esistere, Paolo, una volta di più.
(13 Gennaio 2010)

Spettacolo
Sillabari, due tempi di Paolo Poli, da Goffredo Parise

Giudizio:

Scheda
Prossimamente:
Roma, S. Umberto, fino al 24 gennaio; Lamezia Terme, 27-28 gennaio; San Casciano Val di Pesa (Fi), 31 gennaio; Faenza (Ra), 1-3 febbraio; Ferrara, 4-7 febbraio; Copparo (Fe), 10 febbraio; Trento, S. Chiara, 11-14 febbraio; Schio (Vi), 16 febbraio; Trieste, Bobbio, 19-28 febbraio; Colle Val d’Elsa (Si), 9-10 marzo
Goffredo Parise: scrittore e giornalista veneto, maestro nel descrivere la provincia italiana nelle sue sfaccettature più intime; i due Sillabari sono adesso pubblicati dall’editore Adelphi che ha curato pure l’uscita del bellissimo Lontano (2009)
Artisti citati dai fondali di Luzzati: De Chirico, Sant’Elia, Morandi, De Pisis, Savinio, Dalì, Hopper, Mondrian, Ricasso
Pensiero/1: la modernità non ha niente a che fare con la mera cronologia
Pensiero/2: il sogno sarebbe usare Poli per spazzar via tanta volgarità teatrale verniciata di (pseudo)ideologico, sociale, impegnato e disimpegnato, ma lui non si presterebbe mai. E avrebbe, ancora una volta, ragione

Meglio cani che padroni

(da Giudizio Universale, versione web)
È lo slogan scritto sulla pelle dei protagonisti di Too late!, rivisitazione contemporanea del mito di Antigone proposta da Motus
di Igor Vazzaz (foto di Valentina Bianchi)

È un pertinente gioco d’accumulo e sottrazione, questo Too Late!, nuovo lavoro di Motus, gruppo storico di quella Romagna felix tra le principali teste di ponte del nostro teatro contemporaneo. A partire dal titolo, Antigone viene posta tra parentesi e privata di maiuscola: Too Late, troppo tardi, per una generazione cresciuta in tempi slabbrati, devastati dalla comunicazione, drogati di simultaneità, velocità, rumore. Troppo tardi per penetrare del tutto il mito tebano della sorella ribelle al tiranno e fedele alla legge divina. Troppo tardi per non "vergognarsi di questo paese", come afferma la stessa Silvia Calderoni, durante un passaggio intimistico della performance.

Si entra in sala da un ingresso laterale, attraversando per intero la scena sviluppata in larghezza; il serbo Vladimir Aleksic e la già citata Calderoni, vesti mascoline con tanto di chioma e baffi, entrambi convincenti e posticci, aiutano gli spettatori a prendere posto. Lo spazio è intriso d’una tenue atmosfera lattiginosa: luce diffusa da una serie di neon posti in linea su un’americana, a circa due metri e mezzo d’altezza, centrale e parallela ai lati lunghi del rettangolo scenico, dietro cui si dispone il pubblico. I riflettori, quadrati, d’una luce densa, sporcata di tonalità giallastre, rendono l’ambiente claustrofobico, simile ai corridoi carcerari visti nei film. Alle estremità dello spazio, due rotoli di panno verde. Un dolciastro odore di fumo alimenta un silenzio sospeso.

Silvia prende la parola, con esibita incertezza: lo spettacolo può iniziare. È contest, come nelle competizioni hip hop, cui si rifà la stessa ambientazione: cunicolo, strada, lingua di spazio inerte, suburbano, cui dare un significato attraverso parole e movimenti. Il confronto, di relazione fisica e spaziale, si fa serrato, animalesco, giocato su minime sfumature, in costante e sciente elusione del teatro convenzionale: gli attori non recitano, non simulano; agiscono, parlano.
Lacerti di testo classico frammisti a uscite dal personaggio, confessioni intime, riflessioni metateatrali sulla messinscena in fieri. I due interpreti sono formidabili macchine da teatro: il corpo di lei è un insieme di fasci muscolari che sono cordame teso e nervoso, atletico e vibrante. La pelle è, essa stessa, teatro, pagina, scena: si spoglia, nell’efebica magrezza coriacea, vergando su braccia e petto messaggi con un pennarello scuro. "Meglio cani che padroni", disperato, e politico, agognare animalesco, versione annichilita e ideologica d’un ipotetico I Wanna Be Your Dog, cui rimanda il corpo stesso dell’attrice, molto Iggy style. La sequenza in cui diviene, si fa cane latrante è una meraviglia di sforzo fisico e maestria attorica, cui risponde alla perfezione la potenza, rapida e robusta, dell’altrettanta versione canide di Aleksic.
Si procede a strappi: accelerazioni–interruzioni , accumulo–sottrazione. Il confronto col Potere è mise en abyme dei rapporti, sociali o familiari che siano. E gli attori sono lì, a sottrarsi, a dribblare l’interpretazione, uscendo continuamente.
Portentoso il gioco dello spazio, che è psichico, luogo di costrizione, dramma irresoluto, scena desolata d’una tragedia, da un lato, uguale a sé stessa, dall’altro, incastrata nella metastasi sociale della nostra contemporaneità. Questa una delle chiavi delle uscite degli interpreti, il loro dialogare da persone nello spregio della rappresentazione: "A me l’ironia fa male. Anzi, la odio", sibila feroce la protagonista, esprimendo il disagio per un riso usato quasi sempre come lubrificatore sociale, vettore conciliatorio, conformista e ipocrita.

Spettacolo minimale sotto il profilo tecnologico, inversione di tendenza rispetto ad altre realizzazioni di Motus. Esemplare, però, l’utilizzo della tecnica: i radiomicrofoni, lungi dall’enfatizzare il detto, il dicibile, sono vettori inumani d’amplificazione organica. L’abbraccio tra i due, incipit ed explicit della performance, diviene frastuono liquido, singulto soffiato, inaudito e impressionante. I rari oggetti di scena sono presenze polimorfe: le maschere sono carne da contesa canina e, subito dopo, inumani volti dell’autorità tirannica; l’americana coi riflettori è (anche) sbarra, altalena, punto d’appoggio per la stoffa che permette evoluzioni contorsioniste a Silvia/Emone/Antigone, sotto lo sguardo freddo e crudele di Vladimir/Creonte.
Tragedia impossibile o vita impossibile? Too Late, per fortuna, non risponde; pone domande, pregio raro in ambito teatrale e non solo. Sta agli spettatori (e con loro ai critici), costantemente spiazzati, depistati da questi cinquanta minuti affilati come un rasoio, decodificare, teorizzare una risposta. Le soluzioni non vengono mai dall’esterno.
(19 gennaio 2010)

Visto a Scandicci (Firenze), Teatro Studio, 15 gennaio 2010

Spettacolo
Too Late! (antigone) contest #2, di Motus, ideazione e regia di Enrico Casagrane & Daniela Nicolò

Giudizio:

Scheda
Il resto della locandina: Daniela Nicolò, drammaturgia; Enrico Casagrande, ambito sonoro; Andrea Comandini, fonica; Valeria Foti, direzione tecnica; progetto in collaborazione con Fondazione del Teatro Stabile di Torino e Festival delle Colline Torinesi, Magna Grecia Festival ’08, L’Arboreto – Teatro Dimora di Mondaino, Progetto GECO – Regione Emilia-Romagna e Ministero della Gioventù
Prossimamente: tenere d’occhio www.motusonline.com
Il progetto: a Parigi, nell’autunno 2010, verrà presentato Syrma Antigónes, lo spettacolo di cui Too Late! è la seconda tappa d’avvicinamento e studio, dopo Let the Sushine In (antigone)contest #1

giovedì 18 febbraio 2010

La zia di Panych non vuole morire

(da Giudizio Universale, versione web)
Debutto italiano per Auntie and me, commedia nera dell'autore canadese
di Igor Vazzaz

Paradossale e nera, umorosa, a tratti cinica, ma non troppo cattiva, Auntie and Me, commedia di Morris Panych al debutto assoluto in Italia. Il drammaturgo canadese, vivente, è tra i più interessanti autori contemporanei di lingua inglese e alla scrittura sposa con successo la pratica d’attore, non solo teatrale.

La pièce in questione è il frutto della rielaborazione d’una commedia del 1995, Vigil, adattata sette anni dopo in occasione del Festival di Edimburgo: protagonisti due "soli", Kemp, uomo deluso, oltre la soglia della maturità, e Grace, la di lui vecchia zia in fin di vita. Alla notizia dell’imminente decesso, lui abbandona tutte le proprie occupazioni per recarsi a casa della parente, nella speranza d’assisterla in occasione del trapasso e usufruire di un’eredità affettiva oltre che materiale. Il piano naufraga miseramente: la donna, per quanto silente e costretta a letto, non mostra la minima intenzione di defungere, portando ben presto all’esasperazione il malcapitato nipote. Si apre un falso dialogo (in realtà è solo Kemp che parla) a investire morte, affetti, delusioni, in cui l’uomo finisce per rammentare le fasi cruciali (mai termine fu più adatto all’uopo) della propria vita. Il tempo passa, inesorabile, e lui inizia a delirare: dai tentativi di convincere la donna a decidersi di morire, passa a ideare veri e propri marchingegni per ucciderla, senza risultato, anzi, subendone le comiche conseguenze, alla stregua d’un novello e umano Willy il Coyote. Non mancano i colpi di scena, che evitiamo di anticipare. Basti dire che la storia, alla fin fine, mette di fronte due individui abbandonati, i loro inciampi emotivi, le loro idiosincrasie, la loro inconfessata fame d’affetto nel cumulo di macerie che è un’esistenza del tutto ordinaria.

Per questa prima italiana, il regista (e scenografo) Fortunato Cerlino crea uno spazio dai tratti metafisici, una vasta camera sospesa nel nero nulla dell’ampio boccascena del bellissimo Teatro Dante di Campi Bisenzio. Un letto sulla destra, un armadio di sfondo, una sola uscita per la stanza che ospita i due attori, Alessandro Benvenuti e Barbara Valmorin. Lui, meno toscano del consueto, è un Kemp caparbio, incattivito, infantile: la rabbia per una vita deludente mai risarcita s’alimenta dell’estenuante attesa di una morte che assume i tratti d’assenza godottiana. Lei è ieratica, sfinge impassibile a celar, come per ogni sfinge che si rispetti, un segreto, la cui rivelazione colorerà di toni farseschi la convivenza coatta e improbabile dei due caratteri.

La commedia procede per lampi drammaturgici, scene chiuse intervallate dal buio, stazioni di un dramma dai toni assurdi: Grace e Kemp ricordano i Vladimir ed Estragon di Beckett, ma anche certi personaggi di Cechov, clown teatrali, nullità perdenti a covare un’infinita rabbia interiore. E sono bravissimi i due interpreti a scavarne le sfumature: Benvenuti, corporeo più che mai, compie gesti rapidi, estenuati e ricchi di comica enfasi, cui fa da contraltare perfetto la crudele placidità della Valmorin, in una contrapposizione irresistibile.
La scrittura di Panych procede a scatti, quasi giocando a sconfessar sé stessa: a momenti di rara intensità si alternano trovate facili, frutto non d’ingenuità drammaturgica, bensì di sapiente gioco d’autore, in grado di giostrare la gamma di toni e sfumature della scrittura. Si ride, e parecchio, ma al contempo si prova tenerezza e simpatia per questi due poveretti, buffi, goffi, specie nell’evidenza delle rispettive meschinità a miserie, costretti da un destino beffardo a condividere la stessa stanza. In fondo, ci somigliano più di quanto si riesca a immaginare.
(23 Dicembre 2009)

Visto a Campi Bisenzio, Teatro Dante, il 19 dicembre 2009

Spettacolo, Auntie And Me, di Morris Panych, con Alessandro Benvenuti e Barbara Valmorin

Giudizio:


Scheda
Il resto della locandina:
Valentina Rapetti, traduzione; Peppe Bruno, musiche; Oriana D’Urso, costumi; Gianluca Cappelletti, luci; prodotto da LungTa film srl, Teatro Dante, Comune di Campi Bisenzio, Benvenuti srl con Rioaltosantambrogio
Prossimamente: 7-17/1, Napoli, Mercadante; 19-20/1, Lecce; 21/1, Putignano (Ba); 22/1, Mesagne (Br); 23/1, Locorotondo (Ba); 28/1, Rosignano Solvay (Li); 29/1, Occhiobello (Ro); 30/1, Barga (Lu); 5/3, Pontedera (Pi)
Morris Panych: classe ’52, nato a Calgary, ha lavorato come autore e attore in Canada, Gran Bretagna e Usa; ha scritto musical e programmi tv, collaborando con l’attore e musicista Ken MacDonald, con cui si è sposato nel 2004
Curiosità: come interprete, ricordiamo Panych in alcune puntate di un cult televisivo quale X-Files

Rom(eo) e Giulietta

(da Giudizio Universale, versione web)
La più celebre storia d'amore del teatro è ambientata in un campo nomadi nello spettacolo di Federico Tiezzi in anteprima nazionale a Prato
di Igor Vazzaz

I classici non possono essere affrontati senza tradimento: questione etica ed estetica. Riproporre Shakespeare secondo i canoni dei suoi tempi (strano a dirsi: il Bardo è stato anche un contemporaneo) non avrebbe altro senso che quello archeologico, là dove il teatro si consuma sempre nel qui e ora della performance, nel non luogo della scena. Per questo l’idea di ambientare la più celebre storia d’amore della scena in un campo nomadi è plausibile e permette a Federico Tiezzi di lavorare su immagini di grande suggestione.

L’incipit vede gli spettatori accomodati sulle gradinate d’uno spazio chiuso, al centro del quale, in basso, s’apre una stretta stanza da letto, con due figure umane. Francesca Benedetti e Franco Graziosi, attempati Giulietta e Romeo, danno vita a uno dei dialoghi più noti del dramma, evidenziando la fissa eternità dello spasimo amoroso, quasi irridendo il tempo lineare nelle forme sfiorite di corpi non più giovani, benché bellissimi da vedere: e l’abbraccio coricato, in cui le gambe della donna intrappolano quelle dell’amato, è figura di grande dolcezza.
Si passa nell’ampiezza d’un Fabbricone trasformato, reso strada con lampioni, polvere, guardrail e due tribune poste ai lati della carreggiata che nel finale ospiterà lo smog d’una reale Bmw magnaccia style. Intorno, cinque roulotte definiscono l’en plen air d’un campo rom: giovani guappi dai costumi trasandati camminano spavaldi, tute da ginnastica, camice aperte, catene d’oro, esibizione orgogliosa e ambigua di potenza sessuale. Si scontrano, ammiccano, si sfidano, sulle note di musiche balcaniche e in coreografie dal sapore pop, strappati dai film di Kusturica, compresa la bionda Giulietta di Caterina Simonelli. Recitazione sofferta, fremente, aggressiva: la prima morte, simulata, col seppellimento nella sabbia, resta il quadro più potente dell’intera messinscena.
Capuleti e Montecchi si fronteggiano in strada, con ombrelli e bare di frassino come suppellettili, oggetti di scena che divengono pedane, scivoli e trampolini per evoluzioni d’ogni tipo, compreso il monologo della protagonista eseguito agilmente su un paio di rollerblade. Roberto Latini è un Mercuzio ancheggiante e teppista, ciarliero come d’obbligo e dall’indomita esuberanza pelvica: schiaccia con la forza d’una vocalità esasperata gli altri bulli, compreso il Romeo di Matteo Romoli, personaggio meno istrionico e gigione e, dunque, più complicato da rendere nelle sue infinite sfumature, specie in questa peculiare ambientazione zingaresca.

Lo spettacolo scorre bene, nonostante le oltre due ore, alternando momenti di grande efficacia ad altri di stallo: il sud del mondo dei rom, condito da influenze latinamericane e inserti en travesti, rischia d’apparire escamotage non privo di senso, ma d’ardua realizzazione. Il conflitto tra lingua shakespeariana e cornice soffre d’una scelta incompiuta: o si percorre la strada della potenza poetica originale o quella, altrettanto forte, d’una lingua sporca, gergale, ma ancor più estrema. Tiezzi ne sarebbe capace, si pensi ai suoi Pasolini e Testori. Il problema è che gli attori del Laboratorio di Prato, pur bravi, non sono zingari, ma fanno gli zingari: gridano, ma non snaturalizzano. Si finisce per non crederci, per non sentire la violenza immane, la hybris, non restando sconvolti come dovremmo e vorremmo, avvertendo un senso d’esteriorità poco aiutata da riferimenti pop non troppo sorprendenti. E nemmeno l’emozione è d’ausilio, bloccata sulla superficie epidermica di un’osservazione tutta razionale: c’è forza, ma non potenza, non quella che meriterebbero testo e allestimento. Spiace, anche a fronte d’altre buone idee, come quell’asfalto colorato di rose rosse che rappresenta il sanguinoso funerale d’una Giulietta in veste da sposa. Nel finale, in scena tutto il cast, compresi i due attori del prologo, a chiudere il cerchio ideale d’una storia d’amore e violenza che non ha ancora smesso di parlare ai nostri cuori. Da rivedere.
(14 Dicembre 2009)
Visto a Prato, Teatro Fabbricone, il 10 dicembre 2009

Spettacolo
Scene da Romeo & Giulietta, di William Shakespeare, regia di Federico Tiezzi

Giudizio:

Scheda
Il resto della locandina: Pierpaolo Bisleri, scene; Marion D’Amburgo, costumi; Roberto Innocenti, luci; Giovanni di Cicco, coreografie; e con: Marion D’Amburgo, Ciro Masella, Graziano Piazza, Alessandro Schiavo, Fabricio Christian Amansi, Giorgio Consoli, Simone Martini, Alessio Nieddu, Francesco Tasselli
Prossimamente: sino al 20/12, Prato, Fabbricone; in tournée nella prossima stagione
Il pregio: l’ambientazione ha un altissimo potenziale
Il difetto: non essere del tutto all’altezza del potenziale
Ipotetica soluzione: sporcare la lingua, aumentare l’eversività (è una parola…) o mettere davvero dei rom in scena
Da applausi: oltre a Benedetti e Graziosi, Marion D’Amburgo e Graziano Piazza

Giorni felici con Adriana

(da Giudizio Universale, versione web)
La dura pièce di Beckett con una splendida interpretazione della Asti
di Igor Vazzaz

Rumore crescente, caotico, misto a sibili di tempesta: l’abbacinante nitore di un velo si solleva. Buio. Lo sguardo sul teatro si carica del suo senso più profondo: vedere le cose che sono nascoste, vertigine azzardata, squarcio allucinato oltre la soglia del quotidiano. Luce. Lo sfondo illuminato a giorno disegna con precisione il profilo aguzzo d’un cumulo al centro della scena. Sembrano lamiere intrecciate o spigolose lingue d’asfalto, come residui stradali d’un terremoto. In vetta all’ammasso, una figura umana: bloccata all’altezza della vita, bloccata, in tutti i sensi, per la vita.
Giorni felici è uno dei testi più ardui di Beckett, successivo sia al periodo francese sia a Krapp’s Last Tape, ritorno alla lingua madre. La critica ne sottolinea sin dal debutto l’asprezza, quasi a rinnegare l’elegante costruzione dei precedenti capolavori absurdisti: Winnie, una donna letteralmente piantata per terra, coltiva la caparbia illusione di un’esistenza felice al fianco, per così dire, del marito Willie, un uomo incapace di deambulare se non strisciando, quasi sempre fuori dalla visuale della consorte. Ironico che, a fronte dei dubbi iniziali, la pièce sia divenuta traguardo per grandi attrici, specie alla soglia della mezza età: Winnie, quasi come Amleto per i colleghi maschi, è il personaggio, sulla scorta degli indimenticabili esempi di Madeleine Renaud, Natasha Perry e, in Italia, di Giulia Lazzarini e Anna Proclemer.

Il dramma pone sin dall’inizio un dilemma: privilegiare la natura estenuante del testo o sottolineare l’assurdità comica d’una così feroce metafora del vivere? Bob Wilson sceglie la prima strada, anche a fronte di alcuni tagli alla partitura originale. Adriana Asti è una splendida Winnie: loquace, sorridente, a tratti materna; il suo volto sbiancato spunta dal centrale intrigo puntuto, sfruttando cromatismi netti e splendenti.
Primo atto insidioso: all’ossessività del testo corrisponde l’assurda serenità della protagonista. Si fatica a entrare nello spettacolo, la fluviale loquela della sciùra giustifica abbondantemente la gutturale laconicità del marito (Yann de Graval) dai monosillabi mugugnati. Il tempo è cristallizzato nell’ininterrotta ciarla della donna, nella sua disperata, commovente felicità. Tutto appare normale, ma niente lo è, né normale né, tantomeno, sensato. Non solo la paradossale esistenza d’una madame infilata nel terreno, ma quella d’ognuno di noi: bloccati in cumuli di terra o macerie, benché illusi di trovar significati o scampoli di presunta serenità.

Secondo atto secco come un rasoio: con Winnie immobilizzata sino al collo, lo strisciare di Willie sino a raggiungerne la vista è sviluppo, canto del cigno, sigillo a un rapporto tanto reale quanto impossibile. Gli accadimenti esterni (i forse eccessivi cambi di luce, il lampo che si staglia immobile nel cielo) non toccano le risibili esistenze quanto quel paradossale momento di contattovisivo, sciolto dal canto del celebre La vedova allegra di Lehàr. La chirurgica costruzione beckettiana, la sua ironia nichilista sono evidenti: cos’è Winnie se non vedova allegra?
La nota migliore di Beckett sta nel feroce senso della misura, nel dire senza dir troppo, pur sfruttando immagini d’inusitata e corrosiva potenza. La regia di Wilson, cui s’accompagna l’ottima prova di Adriana Asti specie nella parte di massima costrizione fisica, ha il gran merito di restituire un testo duro, monologo travestito da pièce dialogata, senza perderne le sfumature profonde, memore forse, per alcune immagini, dell’allestimento che Peter Brook realizzò nel decennio scorso. Avremmo forse potuto, e dovuto, ridere di più, ma a uno spettacolo così ben realizzato non è pensabile chiedere oltre. Da vedere.
(03 Dicembre 2009)

Visto a Prato, Teatro Metastasio, 4 novembre 2009

Spettacolo
Giorni felici, di Samuel Beckett, regia di Robert Wilson, con Adriana Asti e Yann de Graval

Giudizio:


Scheda
Prossimamente: Napoli, Mercadante, fino al 6/12; Bari, Piccinni, 9-13/12; Bergamo, Donizetti, 15-20/12; Jesi, Pergolesi, 15-16/1/2010; Pavia, Fraschini, 19-21/1; Como, Sociale, 23-24/1; St.Polten (Austria), Landestheater, 28-29/1; Aosta, Giacosa, 3-4/2; Cremona, Ponchielli, 6-7/2; Piacenza, Municipale, 16-17/2
Il resto della locandina: Jacques Reynaud (costumi e trucco); A. J. Weissbard (disegno luci); Peter Cerone, Emre Sevindik (suono); progetto di Change Performing Arts, commissionato da Spoleto 52esimo Festival dei 2 Mondi e Grand Théâtre de Luxembourg, prodotto da CRT Artificio, Milano
Robert Wilson: regista, drammaturgo, teatrante totale, scultore, artista. Classe 1941, texano, lavora da anni in tutto il mondo ed è uno dei padri dell’avanguardia contemporanea. Tra le mille cose, ricordiamo l’opera Einstein on the Beach, scritta a quattro mani col compositore minimalista Philip Glass. Si veda www.robertwilson.com
Adriana Asti: primadonna del teatro e del cinema non solo italiani; ha recitato con Visconti, Bolognini, Pasolini, Bunuel, De Sica (quello bravo), Strehler, Gassman, ottenendo premi e riconoscimenti unanimi

Mal di tv

(da Giudizio Universale, versione web)
Il nuovo Recital di Corrado Guzzanti non fa altro che riproporre alcuni dei suoi più fortunati personaggi televisivi
di Igor Vazzaz

Nel panorama comico italiano, nebulosa affollata e da tempo in crisi, la costellazione della famiglia Guzzanti rappresenta un unicum significativo. Non stiamo ironizzando sul capofamiglia Paolo, umorista volontario e non, ma sulla sua prole e in particolare sul miglior fico di tal bigoncio, Corrado. Al contrario della brava Sabrina, il cui livore spesso nuoce, egli brilla per fantasia, forza interpretativa e la singolare paradossalità delle proprie caratterizzazioni.
Pure la sua è satira, munita però di un’aurea coscienza sui doveri d’ogni autore che si rispetti: mettere in gioco tutti e tutto, se stesso incluso. Obbligatorio, dunque, vedere il suo nuovo Recital: da tempo Corrado, grande animale televisivo, manca dal palcoscenico. Ne ricordiamo uno spettacolo, oltre dieci anni fa, applauditissimo benché “malato di televisione”, ed è con questo interrogativo che attendiamo il nuovo lavoro.

È improprio parlare di teatro tout court: la tournée gira per lo più in grandi arene e il maxischermo sullo sfondo della scena spoglia è oltremodo giustificato. Si parte con un Tremonti pveoccupato, le cui ridondanti evve mosce strappano risate: più dell’ottima capacità mimetica, fisica e vocale, s’apprezza la scrittura, la naturalezza con cui l’artista ruba l’anima ai personaggi, traducendo in suono, gesto e parola la loro natura intima.
Al suo fianco, la sorella minore Caterina e il fido Marco Mazzocca: comprimari con un paio di numeri a testa. Lei è un’improbabile e cretinissima Miss Italia, automa d’indottrinamento pavloviano, e un’irresistibile Gelmini calabra fintasi padana per convenienze di carriera; Mazzocca è padre Federico, bistrattato dal Guzzanti presentatore, versione Caso Scafroglia. Numerosi interventi audio e video alternano con la scena reale una sequenza d’interpretazioni celebri: Bertinotti, Vulvia di Rieducational Channel, don Pizarro sino al messia di Quèlo. La forza di Guzzanti è, ripetiamo, lo smascheramento comico: il religioso si rivela ateo, cinico e spietato, l’economista ammette la propria idiozia, sino alla formidabile teoria pseudobertinottiana per una sinistra virale e corpuscolare attraverso scissioni da replicare all’infinito.

A livello teatrale è, però, inevitabile riscontrare le falle d’un tempo: Recital è un mero campionamento televisivo cui manca una strategia scenica. La gente è soddisfatta, ma ottiene “soltanto” ciò che chiede: corretto commercialmente, fatale sotto il profilo estetico.
L’arte dovrebbe stupire, non confermare, specie se vicina all’impegno politico, cui Guzzanti non si sottrae: si rischia altrimenti l’effetto consolazione, peccato mor(t)ale imperdonabile. A salvare il tutto, la genuina cifra satirica di Corrado, bravo, oltretutto, a evitare cadute populistiche.
A fronte di tanta maestria, è però doveroso pretendere di più: un motivo, un’urgenza che giustifichi sborsare soldi per vedere ciò cui si è già assistito. Non è incapacità artistica, forse una certa pigrizia, ma ci (e vi) risparmiamo ingenerose illazioni fuori portata.
Il finale dello show: luci spente, sullo schermo Guzzanti, nei panni di Gianfranco Funari, narra un improbabile aldilà. Interpretazione portentosa: il pubblico segue il respiro del personaggio, le sue pause puntuali. L’atmosfera è sospesa, cristallizzata: sembra una diretta. Ed è un vero paradosso che il momento più magico, più teatrale di tutto lo show sia ottenuto con un video: riuscire a cogliere un tale ritmo, prevedendo evidentemente le reazioni d’una platea reale è dimostrazione d’inusitata padronanza scenica. Questo non perdoniamo a un fuoriclasse come Corrado: l’indubbia qualità non completamente messa a frutto.
A scuola si direbbe: bravo, ma potrebbe fare di più.

Visto a Livorno, PalaAlgida, 9 novembre 2009

Recital, di e con Corrado Guzzanti
con Marco Mazzocca e Caterina Guzzanti

Giudizio: un sole sotto un ombrello

Prossimamente:
26/11, Bolzano; 27-28/11, Padova; 30/11, Napoli; 1/12, Bari; 2/12, Pescara; 4/12, Fossano (Cn); 6/12, La Spezia; 8/12, Sanremo (Im); 9-10/12, Torino; 11/12, Cremona; 12/12, Parma; 14/12; Latina; 15-20/12; Roma; per altre date: http://www.fepgroup.it/artisti/date.php?idart=39
Tutti in famiglia: Paolo, classe ’40, giornalista e politico d’imprevedibili collocazioni; le citate sorelle Sabrina e Caterina; ma anche il prozio Elio, medico, docente, ex ministro e ora commissario ad acta per la Sanità della Regione Lazio
I migliori Corradi: più delle imitazioni, sempre impressionanti, i personaggi creati ex novo, come Rokko Smitherson, Max dj di una radio di sinistra, Gianni Livore, un poco replicato Roberto Baggio, l’indimenticabile Lorenzo
Cinema/dvd: Fascisti su Marte, film del 2006, ispirato alla miniserie interna al Caso Scafroglia e capolavoro di fantarevisionismo storico