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da teatro.org

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giovedì 24 febbraio 2011

Calcio spettacolo

(da Giudizio Universale)
Maurizio Di Giovanni porta in scena Juve Napoli 1-3. La presa di Torino, che rievoca la mitica partita del 1987, rivincita di un'intera città. Il monologo di Antonio Damasco ruota tutto intorno a Maradona, ma senza mai nominarlo
Da tempo il calcio è tema sdoganato in scena, non senza motivo: lo sport in genere, specie se a vocazione popolare, è tra le poche attività che riescano a evocare un vero e proprio orizzonte mitico moderno. Se il riferimento si perde poi nel passato, in trascorsi per qualche ragione aurei, l’effetto è ancor più travolgente: non solo giacché giovinezza e infanzia lasciano solchi indelebili nella memoria, ma anche perché, più prosaicamente, il calcio italiano, in particolare negli anni Ottanta, ha registrato la più grande concentrazione di classe (e danari) disponibile all’epoca e, altro dato non secondario, una delle più avvincenti alternanze di vertice mai viste nella pelota domestica. Ovvio che prima o poi qualcuno attingesse al miracolo napoletano del 1987, primo riscatto per un Meridione fornitore storico di talenti, ma privo di rappresentanza nel palmarès nazionale: sono i torinesi del Teatro delle Forme, con un monologo di Maurizio De Giovanni, a proporre un allestimento su quella magica, e ripetuta, esperienza.

Una voce registrata spezza il buio silenzio in platea: la luce rossastra scontorna una figura umana dondolante da una poltrona; alle spalle, una stesa di bianco bucato, icona d’una Napoli popolana, sulla cui cima occhieggia la casacca azzurra della squadra del ciuccio. È un discorso, non facile, articolato, presupposto e cornice all’azione scenica vera e propria che poi, più che azione, sarà racconto, anch’essa discorso, nell’interpretazione in corpore dell’attore. La leva è il ricordo, tra sport e dimensione domestica, a riallacciare fili, rapporti forse sfibrati dalla troppa vicinanza, da quella dimensione, benedetta e maledetta, della famigliarità.
Antonio Damasco s’erge al centro della scena: bel guaglione, tuta blu (divisa esemplare dell’altra urbe evocata nel titolo), postura in lieve disequilibrio, curva in avanti, fare conciliante, un filo pretesco. Rievoca una mitica trasferta pallonara, la prima dei tifosi azzurri a Torino da primi in classifica, pur in coabitazione: una sorpresa, non fosse per Lui, innominata divinità argentina, india e pagana, deus ex machina dello spettacolo, di quella squadra, di un’intera antropologia plebea.

Al dialogo intimo, accennato, tra figlio e padre, con lo sfondo di una storia d’emigrazione e mala accoglienza in quella città odiata/amata dai suoi figli adottivi, si sostituisce il racconto di viaggio, on the road al ragù su per lo Stivale. Damasco tipizza i compagni di ventura in caratterizzazioni dal crescendo fantozziano, con iperboli ed enfatizzazioni: non forza mai, sempre a debita distanza dalla sguaiatezza. Frange la quarta parete, dosando un poco di cabaret sulla spiccata natura teatrale della recita. La partita è il nucleo: ovvia la mitizzazione, coi “belli” bianconeri, alti, eleganti, degni di quella raffinata proprietà industriale da orologio sui polsini, pur’essa mai dichiarata, e i brutti, disarmonici terruncielli, ben rappresentati dal terzino Bruscolotti e dall’innominabile sudaca, trionfale esempio di meridionale all’ennesima potenza. In alcuni momenti irrompe il video: la scena si cristallizza, i panni bianchi sono schermo per proiezioni con stralci di considerazioni calcistiche miste a lacerti esistenziali. S’intravede il padre del protagonista, che coincide con quello dell’attore.

Riprende il narrato, l’epopea si compie: alla complicazione (il gol di Laudrup, esponente perfetto della razza superiore bianconera), segue lo svolgimento, le tre “pere” azzurre, epilogo trionfale. I poveri vincono, i ricchi piangono e, a chiudere, una sequenza filmata senza parole di padre e figlio riuniti in un parco, pallone tra i piedi, explicit non privo di prevedibilità retorica.
Non convince la dissimmetria fin troppo evidente: se la cornice iniziale coincide con un’elucubrazione, peraltro in apparenza slacciata dal prosieguo, si renderebbe necessaria una chiosa in sintonia, a chiudere una parentesi altrimenti incongruente. Lo stesso discorso comico appare, in complesso, debole, senza azzardo: apprezzabili certi passaggi rotondi, aggraziati, ma solo se calati in una dinamica maggiormente variata, mossa. La comicità non può sussistere senza una sua peculiare vocazione selvaggia, o corrosiva, che non è villania, ma lavoro sul limite, sulla crisi del linguaggio, dei suoi simulacri. Così come sono abbozzati, mai o mal sviluppati, i riferimenti sociali, in potenza carichi di risonanze, eppure lasciati cadere in un finale che ci regala, purtroppo, uno spettacolo a rischio d’anemia. La stessa scelta di non nominare mai Lui, eroe e nume della vicenda, non pare dotata di vera sostanza: si resta sorridenti, ma perplessi, perché ci saremmo aspettati il taglio improvviso, un’esplicitazione dolorosa, un’incisione emotiva a rendere necessario e sorprendente uno spettacolo che non deve accontentarsi d’essere carino.
A giustificazione, chiariamo d’aver assistito al debutto di una tournée, che il teatro è da sempre fatto di correzioni in corsa e che ci auguriamo che questo Juve Napoli 1-3 possa crescere, trovare centratura, compasso: non foss’altro perché Lui non merita niente di meno.
24 Febbraio 2011


Spettacolo
Juve Napoli 1-3. La presa di Torino, di Maurizio Di Giovanni

Scheda
Prossimamente in scena: 27-28/2, Torino, Cavallerizza Reale Manica Corta; 21-22/4, Roma, T.Parioli
Locandina: Antonio Damasco, drammaturgia, ideazione e regia; Valentina Padovan, aiuto regia; Raffaele Posa, video; Bruno Miguel Ferreira da Veiga, tecnico; in video, Alberto Damasco
Visto: a Bientina (Pisa), Teatro delle Sfide, il 29 gennaio 2011
Il precedente (ormai illustre): Italia-Brasile 3-2 di Davide Enia, in cui l’attautore sicuro rielaborava la tecnica del cunto evocando il trionfo del Sarrià
Juventus – Napoli 1 a 3: 9 novembre 1986, Stadio Comunale di Torino, marcatori: 50' Laudrup (JU), 73' Ferrario, 74' Giordano, 90' Volpecina
“Lui” in musica: da Santa Maradona dei Mano Negra (non il dimenticabile film di Marco Ponti) all’omonima canzone del connazionale Andrès Calamaro, da Maradò dei Los Piojos a Diego Armando Maradona del nostro Baccini e Maradona dei Mau Mau, continuando con Diego querido (Willy Polvorón), Dale Diez (Julio Lacarra), Para Siempre Diego (Los Ratones Paranoicos), Capitán Pelusa (Los Cafres), Y dale alegría a mi corazón (Fito Páez), Yo te sigo (Los Calzones), La cumbia del 10 (Tambo Tambo), El baile de Maradona (Riki Maravilla), Maradona Blues (Charly García), La Cueca de Maradona (Guillermo Guido), sino alla struggente La vida tombola di Manu Chao, colonna sonora del film di Emir Kusturiça dedicato al Diez. El Pibe de oro, infine, ha cantato Querida Amiga con i Pimpinela e Hacer el tonto, duetto con l’amico Andrés Calamaro; la lista potrebbe però continuare, forse all’infinito
“Lui” a teatro: El Diego – Concerto n.10, “musica d’autore per goal e orchestra”, progetto andato in scena in occasione dell’ultima edizione del Napoli Teatro Festival, regia video di Carlo Alvino su musiche di Niccolò Paganini e di Roberto De Simone, direzione orchestrale di Pietro Mianiti

Giudizio:

lunedì 21 febbraio 2011

Una perfetta (e spietata) macchina teatrale

(da teatro.org)
È ormai con una certa consuetudine che attori resi celebri da schermi piccoli e grandi, per motivi più o meno sinceri, più o meno dichiarati, decidano di saggiare i legni del palcoscenico, “tornando”, come si suol dire in tali circostanze, al teatro, “vecchio amore mai tramontato”. Non di rado, si tratta di malcelati ripieghi, ingloriose ritirate, strategici arretramenti in attesa d’un nuovo rilancio a riassestar carriere e finanze: in questi casi, raggiunto lo scopo, la scena, sedotta e abbandonata, viene puntualmente rimessa da parte, ché l’argent sta altrove e non c’è tempo da sperperare; in questi casi, i risultati estetici sono riprovevoli e drammaticamente evidenti.

Non sempre lo schema è questo, per fortuna, e siamo felici di poterlo affermare all’indirizzo di Nicoletta Braschi, attrice discussa, non foss’altro per la duplice veste, spesso penalizzante, di first lady e unica musa ispiratrice d’un nostro altrettanto discusso premio Oscar. È, infatti, da quattro anni che l’artista cesenate calca le scene con spettacoli per niente facili, per niente banali, raccogliendo un giusto successo con, supponiamo, grande soddisfazione. Dopo due stagioni di tournée con Il Metodo Grönholm del catalano Jordi Galceran i Ferrer, eccola alle prese con Tradimenti di Harold Pinter: stessi compagni di scena, regista diverso (prima Cristina Pezzoli, ora Andrea Renzi), testo differente.

Betrayal è un esempio chiave della drammaturgia pinteriana: azione minimale, asettica, personaggi inchiodati in dialoghi che sono ciarla inciampata, blasé, ostensione umana, troppo umana, di debolezze, lapsus, meccanismi reiterativi e, al contempo, massacro chirurgico, distillato di miseria behaviouristica a tracciar continui e spietati ribaltamenti di forza. E questa storia di corna, inflitte e subite, nascoste e dichiarate, è solo in apparenza la rappresentazione amara d’una civiltà dagli istituti sociali in irreversibile dissolvimento: piuttosto, è una perfetta macchina teatrale, tornita, levigata, fin troppo meticolosamente settata secondo criteri funzionali e retorici da apparir quasi insostenibile. Non è la società inglese, contemporanea o occidentale, il vero, o il solo, obiettivo poetico, quanto il congegno, tutto scenico, tutto drammaturgico, e umano, della ricostruzione fallata, del tempo da ritrovare, del percorrere a ritroso una vicenda, che già in Edipo Re è carne viva e pulsante del nostro grande teatro. Con il pubblico, unico e solo testimone onnisciente delle patetiche magagne di questo terzetto allargato altoborghese: lei, lui, l’altro e, in aggiunta, alcune figure mai fisicamente presenti, eppure ritornanti protagonisti nei discorsi del trio.


La scenografia di Lino Fiorito ben rispetta l’economia verbale del dramma: due schermi, scientemente sghembi, ospitano retroproiezioni ora mimetiche ora ai limiti dell’astrazione. Lo spazio è largo, indefinito, absurdista nel sapore quasi metafisico, anche quando le fotografie che lo colmano di colore paiono raffigurazioni realistiche, per sfumare lente in chiazze cromatiche d’indubbia suggestione. E la scena si fa teatro di scontri e incontri, sempre a doppio senso, a doppiofondo, nel disequilibrio d’informazioni e verità, asciutto Stationendrama con didascalie temporali che a inizio quadro scandiscono la retromarcia cronologica degli eventi. Ogni sintagma è un round pugilistico in cui i colpi sono tutti da assaporare, interpretare, capire, calati nella quotidianità desolata di parole vacue eppure vischiose. Nicoletta Braschi è a proprio agio con la peculiare tessitura del lessico pinteriano: la sua recitazione paratattica, secca nel portare il dettato del testo, staglia la battuta dandole una profonda ambivalenza. È bella, fasciata nelle vesti che evidenziano le forme di Emma, nome malignamente bovariano, donna affascinante e perno principale della tresca. Enrico Ianniello, prestante amoroso, è Jerry, agente letterario di successo, di lei amante e, soprattutto, miglior compare del marito, Robert, editore “arrivato”, interpretato da uno smagliante Tony Laudadio, specie nelle sequenze veneziane.

La macchina del tempo scivola a ritroso, e ogni fermata è un tradimento nuovo, di natura e peso sempre diverso: la scherma verbale, lasca o serrata a seconda della sequenza, dipana verità elastiche e flessuose, intreccia vite ridicole, prive di buongusto o decenza. È l’identità, il centro di tutto: la memoria, nostra e degli altri, è quel cumulo di macerie rubate, malmesse, sistemate (quasi sempre) in malafede, che ci costruisce, che ci rende evidenti e imperdonabili. Pinter tratteggia questa caduta, non morale, ma esistenziale, in un ralenti impietoso, con sguardo da entomologo. A tratti si ride, ma amaro, ché la commedia è, s'è detto, umana, troppo umana. Pièce difficilissima, ad alto rischio: il testo è un inganno continuo, pure per gli interpreti, che han da calibrare fiati, respiri, il minimo cenno gestuale. Non sempre l’orchestrazione risponde alle esigenze: ne risente il ritmo, che in alcuni momenti si dilata,  con una tendenza alla dispersione che mette a rischio la centratura. Manca, ci pare, l’ultima scorta di sangue, quel graffio a strappar la carne per incidersi nell’animo degli spettatori: nondimeno, questo Tradimenti resta godibile, forte d’una sua propria veracità, senza cadute e senza trucchi. Non è poco.

Visto il 16/02/2011 a Colle Di Val D'Elsa (SI) Teatro: Del Popolo


Spettacolo
Tradimenti, di Harold Pintertraduzione Alessandra Serra
con Nicoletta Braschi, Enrico Ianniello, Tony Laudadio
e Nicola Marchitiello
regia: Andrea Renzi
scene e costumi: Lino Fiorito
luci: Pasquale Mari
suono: Daghi Rondanini
produzione: Fondazione del Teatro Stabile di Torino - OTC Onorevole Teatro Casertano
(fotografie: Giorgio Sottile)

Un Machiavelli tutto da ridere

(da Giudizio Universale)
La compagnia di Ugo Chiti mette in scena La Mandragola, commedia nera del nostro Cinquecento. Umorismo ruvido e musiche ataviche per una storia di corna e intrighi in cui la parola è protagonista
Fotografie di L. Bojola


Una commedia austera, acuminata, solenne e tesa come la corda d’un arco, geometrica, fine d’una stilizzazione sofisticata e mai gratuita, così coerente con la lingua desueta e moderna, inconfondibile, di Ugo Chiti. Inutile sperperar tempo e fiato in sguerguenze: Arca Azzurra è, da decenni, tra le migliori realtà della scena italiana, compagnia di giro quasi all’antica, quasi famigliare, così periferica, resistente e orgogliosa, portatrice di un mondo, di un teatro, di un idioma, da sempre frutti di lavorio profondo e rigoroso. E i risultati, non da ieri, si vedono: come questa Mandragola, perfetta macchina teatrale allestita secoli or sono dal geniaccio viperino di Machiavelli, aspra commedia nera e, al contempo, disincantato dramma filosofico sull’umanità o, meglio, sulle di lei inevitabili miserie.

mandra.JPGIl capolavoro del nostro teatro cinquecentesco è filtrato con abilità, capo e piedi inzuppato nella poetica chitiana del grottesco, secondo i codici spietati d’un umorismo ruvido, che non offre requie né liberazioni, tanto si fonda su una smaliziata coscienza della fisiologia e su una ben peggiore sfiducia a proposito della presunta moralità dell’uomo. In un quadro scuro, predominato dalle fosche tinte del fondale e da un’inquietante linearità, si dà un piano inclinato discendente verso la platea, al cui termine opposto troviamo l’entrata principale, portale e passaggio d’evidente astrazione. Ai lati della rampa, figure umane sedute su blocchi vermigli, al centro, un personaggio solitario, femmineo demone teatrale, coagula in sé le ninfe e i pastori a cantar l’argomento. Illustra al pubblico i protagonisti uno a uno, ogni volta lanciando verso l’interessato un lungo bastone ligneo, rito d’evocazione scenica, come se quel passaggio d’oggetto vivificasse anime e corpi altrimenti immoti nell’obliata fissità del testo. Che la recita inizi.

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La vicenda è nota, o almeno dovrebbe esserlo: sapido intreccio d’appetiti sensuali, corna e coglionamenti, al termine del quale nessun valore si salva alla chirurgia drammatica machiavelliana: Callimaco (che l’autore presenta quale amante meschino) riesce a giacere con la bella e coscienziosa Lucrezia, sposa di Nicia, vecchio bacucco con velleità di riproduzione tardiva. Il tutto grazie alla connivenza pelosa del servo Siro, dell’amico Ligurio, di un frate corrotto, Timoteo, e della madre della fanciulla, Sostrata, inconsapevole dell’inganno, benché decisiva nella sua messa in atto. La conclusione non dà scampo a nessuno: Lucrezia scopre l’intrigo e decide di prendere il giovane lascivo come amante segreto, punendo così l’idiozia del marito e perpetrando quindi una vita di foia e inganno. Ma è nel farsi carne e sangue d’attore che il verbo di ser Nicolò acquisisce la meritata profondità d’una lingua terrosa, d’organica concretezza, in cui gli inediti innesti firmati da Chiti trovano agio e spessore: la recitazione d’Arca Azzurra, così aderente all’idioma, in emorragico contatto col personaggio eppure in grado di creare interstizi tra attore e carattere, brilla nella sua mai sufficiente lodata differenza rispetto alla media nazionale di un’asettica ed esangue standardizzazione linguistica.
 
mandra4.JPGDimitri Frosali è uno splendido Nicia, con quella voce a tratti gutturale, stolto vecchiaccio pronto a farsi buggerare, così come lodevoli sono, al solito, il fratesco Massimo Salvianti nei panni di Timoteo e, per non poter citare tutti, la magnifica Lucia Socci nella parte più affascinante, spigolosa e luciferina, quella del citato Prologo. Ottima la selezione musicale nell’alternanza di temi medievali, così atavici da scavar dentro rivoli d’emozioni sepolte, e sinistre sonorità dissonanti: modulazione indovinata e coerente ai colori e i ritmi della messinscena. Tempi e movimenti sempre esatti, concedendo nulla al ribobolo superfluo, ottimamente calibrati in una scenografia antimimetica e rarefatta.

Ride il pubblico del bel Teatro Dante di Campi Bisenzio, forte d’una complicità linguistica evidente, ma non indispensabile: ride e, se proprio si vuol muovere un minimo rilievo a uno spettacolo che corre lungo il limite dell’inappuntabilità, potrebbe ridere di più, ché materia da sghignazzo feroce e mai consolatorio ve n’è a sfare. Chiti, non rinunciando a un umorismo cupo e disincantato, a tratti verde, tannico, preferisce far di questo reticolo di pulsioni, meschinerie e imbrogli, un impietoso groppo rappreso, triste eiaculatio senza godimento: dopo tutto, ha ragione Nicia, quando, giusto in tema, si chiede a che pro valga tutta quest’uggia, questo affannarsi miserabile, risolto in quello che, alla fin fine, è solo un vano "sputo di piacere".
10 Febbraio 2011

Oggetto recensito:
Mandragola, di Nicolò Machiavelli, regia di Ugo Chiti
La locandina: Ugo Chiti, ideazione dello spazio, adattamento e regia; Giuliana Colzi, costumi; Marco Messeri, luci; Vanni Cassori e Jonathan Chiti, musiche; e con Giuliana Colzi, Andrea Costagli, Lorenzo Carmagnini, Giulia Rupi, Paolo Ciotti; produzione Arca Azzurra Teatro
Prossimamente in scena: 12/2, San Gavino (Vs); 13/2, Lanusei (Og); 17/2, Campiglia Marittima (Li); 26/2, Scansano (Gr); 6/3, Città della Pieve (Pg); 18/3, Porto Ferraio (Li)
La mandragola: solanacea dai fiori violetti o bianchi, le cui radici, invero tossiche, sono state per secoli considerate medicamentose; nell’imbroglio, è alla base della pozione che renderebbe fertile Lucrezia, comportando però la morte del primo che giacesse con la fanciulla
giudizio:

E pensare che c'era Giorgio Gaber


(da Giudizio Universale)
La brava Maddalena Crippa riporta in scena il genio del teatro canzone. L'attrice cerca di smarcarsi dall'inarrivabile modello e ci riesce meglio di altri: ma non basta

A scanso di fraintendimenti, ribadiamo quel che abbiamo detto altre volte: il teatro è il regno della reintepretazione, della reinvenzione, della resurrezione di testi, corpi e rapporti di forze un tempo cuciti addosso ad altri corpi, altre voci, altri attori. Quello di Gaber, a nostro avviso, era ed è tuttora grande teatro, originale, urgente e, benché legato a doppio filo con la realtà dell’epoca in cui veniva concepito, ancora in grado di parlare agli spettatori.

Questo non implica che le ultime rivisitazioni abbiano colto nel segno, tutt’altro: pensiamo a Giulio Casale, Neri Marcorè, artisti che, per una ragione o per l’altra, si sono infranti contro il simulacro del primo interprete, fallendo, al di là di bravura e applausi. Il punto, però, non è, come si potrebbe pensare banalmente, che Gaber possa venire interpretato solo da se stesso: idea semplicistica, ingiusta, pure nei confronti d’una scrittura autentica, ricca di sponde e piegature ancora da esplorare del tutto. La stessa accusa, del resto, era rivolta a Dario Fo, salvo poi accorgersi che, già negli anni Settanta, i testi del futuro Nobel erano allestiti ogni sera in lingue e luoghi sparsi in tutto il mondo. Per questo motivo, innanzitutto, siamo incuriositi e ben disposti nei confronti di Maddalena Crippa, attrice di gran curriculum e indubbia statura, che porta in scena E pensare che c’era il pensiero.

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Una donna nei panni di G, bella idea: vuoi vedere che uno scarto fisico tanto netto non garantisca il successo a un’operazione che ha visto naufragare quotati colleghi maschi? La scelta del testo, peraltro, conferma personalità: non un greatest hit come per Marcorè né uno spettacolo mitico come il Polli d’allevamento riproposto da Casale, bensì un lavoro del 1994, il primo inedito degli anni Novanta da parte del duo Gaber–Luporini. Testi insidiosi, non facili, che il cantattore lombardo portava sapientemente, sfruttando quell’inconfondibile vocalità piena, intensa, e la caratteristica flessuosità corvina d’una corporeità sghemba e perfetta.

Al centro dello spettacolo, una riflessione ironica e amara sull’individuo post–riflusso
, l’enigma rappresentato da un poco onorevole rientro all’ordine e la non totale rassegnazione nei confronti d’una realtà ormai immutabile. Mi fa male il mondo, urlo di dolore tra ironia e frustrazione, refrain d’uno show cui si sovrappongono dubbi viperini (Destra-Sinistra), vecchi temi e una serie d’acute osservazioni sulle menzogne che ci raccontiamo. Paradossale e beffarda, l’utopica soluzione alle trappole della nostra cattiva coscienza coincide, per Gaber, con un egoismo "antico e sano", ma, per una volta, autentico.

Si inizia con La sedia da spostare: un fascio luminoso illumina dall’alto una scranna in legno e due voci identiche si fronteggiano dai lati opposti della scena. È Gaber, ma non è lui. Il timbro è femminile, la calata lombarda, le frasi, le ricordiamo a memoria, sono le stesse, ma i tempi, le esitazioni sono nuove, differenti. Ecco la musica: un piano sulla sinistra suona, dal vivo, su una base registrata. Entra l’attrice, microfono in mano, vestito nero, anfibi ai piedi: Mi fa male il mondo. Si agita, percorre il palco più volte, accompagnata da tre coriste coi corpi in ombra, sullo sfondo bianco. L’amalgama sonoro è inedito, il tempo più rapido, troppo, si perde qualcosa.

L’idea, confermata nel corso della performance, è che l’attrice ingaggi un costante corpo a corpo con il modello originale: Maddalena si smarca, dribblando melodie, aggiungendo acuti, svariando sulla partitura. Ha ragione: non può fare Gaber, e di questo le siamo grati, a prescindere dal risultato.
Non va male, infatti, su certi soffiati, quando la modulazione s’abbassa, trovando una propria intensità. E se nei monologhi si salva da attrice, pur non convincendo appieno, le canzoni risultano la parte più critica: l’impiego dei cori non è malvagio, ma la miscela tra suoni live e registrati è telefonata, insufficiente, il canto spesso impreciso, a fronte d’un modello che più passano gli anni e più appare insuperato. La strategia, scientemente adottata, degli scarti nell’esecuzione e di lavorare d’accumulo sulla gestualità, se, da un lato, rappresenta uno sforzo encomiabile, dall’altro, lascia sin troppe perplessità.

Monologhi e brani musicali s’inseguono, con qualche anomalia rispetto al testo adottato: ecco Il dilemma, bella canzone da Anni affollati (1981), iniziata con un recitativo, poco dopo, Qualcuno era comunista, monologo del 1991, in un gioco di ricomposizione lecito, ma non provvisto di una sufficiente congruenza. E, infatti, manca quella Canzone della non appartenenza che della messinscena originale rappresenta la chiave, lo spiraglio, la timida soluzione proposta da Gaber. Le si preferisce, invece, L’attesa, sempre da Anni affollati, anch’essa riproposta in forma recitativa.
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Lo spettacolo purtroppo non funziona, non decolla: non per questioni d’ordine filologico teoricamente trascurabili, ma perché mancante d’una coerenza estetica che dev’essere il principe cardine di qualsiasi allestimento scenico. Riportare in scena Gaber, ormai s’è capito, non è uno scherzo: occorre bravura nel canto, nella recitazione, nonché quell’indescrivibile autorità artistica che sembra davvero la qualità più forte, e ancora poco indagata, del compianto Gaberscik. E spiace che a rimetterci sia, tutto sommato, una brava attrice, protagonista, per una volta, di uno spettacolo comunque non ruffiano, non furbetto e, alla fin fine, pure onesto.
08 Febbraio 2011

Oggetto recensito:
E pensare che c’era il pensiero, di Giorgio Gaber e Sandro Luporini, con Maddalena Crippa, regia di Emanuela Giordano
Il resto della locandina: Massimiliano Gagliardi, pianoforte e arrangiamenti; Chiara Calderale, Miriam Longo e Valeria Svizzeri, coriste; produzione Tieffe Teatro Milano Stabile di Innovazione in collaborazione con la Fondazione Giorgio Gaber
Prossimamente: 8/3, Cesano Boscone (Mi); 12-13/3, Brescia, T.Sociale; 13-14/3, Savona, Chiabrera Sociale; 19-20/3. Jesi, Pergolesi
Indicativo/1: che il pubblico non "prenda" il finale dello spettacolo e l’attrice debba, con strizzata d’occhio furbetta, segnalarlo agli spettatori
Indicativo/2: che le parti migliori siano, a sorpresa, i due bis canori, con un pot-pourri gaberiano a cappella invero godibile
E pensare che c’era il pensiero in cd: due versioni, una registrata all’Alfieri di Torino, nel 1994, e l’altra al Regio di Parma, a fine 1995
Chiusa della Canzone della non appartenenza: "E non ci salva l'idea dell'uguaglianza/né l'altruismo o l'inutile pietà/ma un egoismo antico e sano/di chi non sa nemmeno/che fa del bene a sé e all'umanità"
giudizio:

Se Dona Flor ha perso la passione

(da Giudizio Universale)
Nella sensuale Bahia, una donna si divide tra un marito mascalzone, morto, e uno amorevole e noioso, vivo. La buona notizia è che il capolavoro di Amado a teatro potrebbe fare scintille. La cattiva è: non in questo spettacolo



Abbiamo una certezza, dopo aver assistito alla versione teatrale di Dona Flor e i suoi due mariti: il capolavoro di Amado regge alla grande la traslazione scenica. Singolare che tale convinzione, tanto più ferrea rispetto ai dubbi pregiudiziali, sia risultato tetragono d’uno spettacolo mal compiuto. Chiariamo: le trasposizioni sono non solo possibili, ma da incoraggiare, e non v’è da disturbar Nekrošius per dimostrarlo. Necessario, però, è che lo spirito del modello ben si coaguli, s’impreziosisca nel filtraggio d’un differente mezzo espressivo e non si limiti a una sterile proposizione dell’inessenziale dell’opera adottata, alla sua scorza. Il piacere, infatti, dovrebbe moltiplicarsi: alla memoria dell’originale s’aggiunga il godimento dell’invenzione proficua, dell’interpretazione copiosa, gioco di risonanze che è la bellezza della fruizione estetica.
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Il romanzo di Amado è trionfo di colore e vita, rappresentazione carnevalesca e romantica d’un amore infinito che ha per teatro quell’esplosione musicale che è Salvador Bahia, pulsante cuore africano del Brasile. Ora, può anche essere improponibile che una compagnia italiana si brasilianizzi, snaturandosi, allo scopo di cercar un’anima di cui è sprovvista, ma questo non può risolversi nel mero abdicare da un elemento fondante un’opera d’arte determinata. Non si può fare Bahia? Si prenda Napoli. Ma vi sia senso magico, mitologia invadente, vi siano rumori, colori e, soprattutto, odori, profumi: quelli della cucina di Flor, quelli del desiderio carnale. Vi sia sostituzione coerente, equipotente, non la sospensione pavida d’una scelta mozzata.

Lo spettacolo: bella l’idea dei tre schermi giganti come scena, con infinite possibilità di suggestioni. Buono pure il primo quadro, con stuolo di candele replicate a video per la veglia funebre di Vadinho, canaglia di marito eppure adorato dalla protagonista. Peccato, però, che la potenzialità visiva resti poi inespressa, con prevedibili simbolismi iconici, senza forza espressiva, senza genio né nerbo. Buone le musiche del trio in scena (chitarra, violoncello, contrabbasso), ma siderale la distanza con la temperie romanzesca, bruciante di samba e ritmi africani.

Il lutto di Flor, donna dabbene cresciuta in rispetto e pudicizia, è sofferenza reale di carne e spirito: quell’irresistibile puttaniere di Vadinho, tradendola, sperperando soldi, deludendola puntualmente, l’amava davvero, a suo modo, e non v’è dubbio. Così come, in altra maniera, la ama il nuovo marito, Teodoro, letargico farmacista, eppure animato d’ogni sincera attenzione, d’ogni riguardo verso quel fiore che il matrimonio precedente aveva, strapazzandolo, condotto alla vita: quando il fantasma del primo torna dall’aldilà per le torride invocazioni della vedova, la faccenda si complica.

dona-flor-1.JPGÈ sensuale, Dona Flor, creola formosa dagli appetiti scoperti, ma al contempo misurata, mal contenuta in una disciplina che non può frenare pensiero, desiderio, memoria. Eppure Caterina Murino è algida, mai in parte, mai sbranata di voglia rappresa e continenza autoinflitta. Macchiettistico, ingiusto, è poi il Teodoro di Paolo Calabrese, intrappolato in effettacci che niente hanno da spartire col personaggio: Amado ci fa ridere del farmacista compunto che desidera la moglie (risparmiandole però quelle pratiche per cui esistono apposta "le donne di strada"), ma lo rispetta, ce lo fa amare, comprendere: Teodoro siamo noi, nostra proiezione d’affidabilità. E invece si cerca la storpiatura inerte, il riso facile, digestivo, ignorando quanto Teodoro sia denso, abbia spessore, e non la bidimensionalità d’una figurina farsesca. Meglio il Vadinho di Max Malatesta, carattere più facile, mai però conturbante, mai sfrontato in senso proprio.

La storia dovrebbe eccitare, turbare, mettere in ambasce lo spettatore, intrappolarlo in due amori paradossali e veri, in una corporeità debordante: nelle scene a tre, Flor dovrebbe baciare in bocca entrambi, e non limitarsi a un quadretto da interno borghese. A sfangarla, il coro muliebre d’amiche di Flor, al netto di qualche ribobolo superfluo, la megera Dona Rosita (Simonetta Cartia), un po’ troppo giovane per la parte. Poco, troppo poco per rendere giustizia a un romanzo tanto profondo e bello. Manca la magia: quella bahiana, sincretica, tra orixà africani e misticismo cristiano, quella d’un sesso irresistibile e inebriante che regali al pubblico il sorriso e la convinzione che l’amore, quello vero, sia qualcosa di incontenibile e difforme, quasi mai adatto alle categorie d’una convivenza regolata e borghese. Peccato, perché Dona Flor merita una traslazione scenica, quasi la invoca: il romanzo contiene un’irresistibile natura teatrale e pure una messinscena fallata ce lo conferma chiaramente. Speriamo di vederla, un domani, non chiederemmo di meglio.
04 Febbraio 2011

Oggetto recensito:
Dona Flor e i suoi due mariti, di Jorge Amado, regia di Emanuela Giordano
Prossimamente in scena: fino al 6/2, Brescia, T.Sociale; 10-13/2, Monza, T.Manzoni; 15-27/2, Roma, T.Quirino-Vittorio Gassman; 28/2-2/3, Pavia, T.Fraschini; 3-6/3, Bolzano, T.Comunale; 8-13/3, Bergamo, T.Donizetti; 14/3, Legnago (Vr), T.Salieri; 15-17/3, Vigevano (Pv), T.Cagnoni; 18-20/3, Lucca, T.del Giglio; 23-27/3, Messina, T.Vittorio Emanuele; 29-31/3, Fano (Pu), T.della Fortuna
Il resto della locandina: Andrea N. Cecchini, scene; Claudio Garofalo, installazioni visive; Juan Diego Puerta , coreografie; Michelangelo Vitullo, luci; con Claudia Gusmano, Serena Mattace Raso, Laura Rovetti; musiche originali eseguite da Bubbez Orchestra (Massimo De Lorenzi, Ermanno Dodaro, Giovanna Famulari); produzione Compagnia Mario Chiocchio/Emmevu Teatro
Visto: a Pistoia, Teatro Manzoni, il 30 gennaio 2011
L’anatema di Stanislavskij: "Non ci credo", terribile verdetto con cui il regista russo ossessionava i suoi attori. Aveva ragione: ben vengano gli orgasmi simulati, ma che riescano a imbrogliarci
L’anatema di Benjamin: nell’arte, l’essenziale è incomunicabile, mentre ciò che è comunicabile è inessenziale; questo il tarlo che dovrebbe animare qualsiasi traduzione, linguistica ed espressiva
Sulla lingua: l’italiano, a volte, non aiuta; a proposito del francese, ma vale pure per la nostra lingua, George Brassens sosteneva come sia ingiustificabile che un così "sublime strumento di piacere" fosse indicato con impropri nomi d’ortaggi o animali. Patatina, pelatina nel testo originale, in traduzione, perdono ogni carnalità, sono caricature senza neppure la forza del triviale
Amore per i personaggi: prima regola della recitazione, a meno di non voler fare caricature. Il Teodoro di Calabrese (attore che amiamo e non solo per lo strepitoso Biascica nel serial Boris, quello sì personaggio buffo, ma dotato di spessore) ricorda più il Furio di Verdone (macchietta voluta e ottimamente riuscita) che il farmacista del romanzo
Al cinema: Dona Flor e seus dois maridos (Bruno Barreto, 1976), nei panni della protagonista una smagliante, e sensualissima, Sonia Braga
giudizio:

Con Garcia Lorca, Madama Butterfly non si suicida

(da Giudizio Universale)
Donna Rosita Nubile, nata dalla penna del poeta spagnolo, ha consumato tutta una vita aspettando un uomo che non tornerà. La dignità e la forza di un personaggio a suo modo epico vengono esaltati da uno splendido cast, tutto al femminile. Dirige Lluis Pasqual

Conta i giorni che passano, scivolati via a far settimane e mesi e anni. Quasi senz’accorgersene, lasciandosi sorprendere dalla fanciulla linguacciuta che le rammenta, per caso, il tempo trascorso da che lui se ne andò. Quel tempo scivolatole addosso come una condanna, pena comminata senza pietà o condizionale, reclusione dell’anima, prima che del corpo, autoinflitta e cosciente. 
Donnarosita1.jpg
La Rosita lorchiana è l’eroina di un’attesa ostinata, donna di forza titanica alle prese col solito, consueto, mezzo uomo. Anzi: col solito uomo, ché mezzo è per natura o vocazione, che, quando ama, fa del proprio amore un simulacro d’eterna saldezza, destinandolo poi al puntuale inciampo, al naufragio così spesso inglorioso. Nel caso di Rosa, a una vita lontana, un oceano più in là, mentre egli ripara tra le braccia di un’altra; in circostanze più comuni, il gramo epilogo è una cattività congiunta, quando la convivenza diviene miscela di malumori di giorno e mali odori la notte.

In fondo, la storia d’abbandono di Donna Rosita nubile è un topos sin troppo semplice: due innamorati che la vita strappa dall’abbraccio; lui se ne va per non tornare, lei l’attende, novella Butterfly senza orizzonti di suicidio. Garcia Lorca s’ispira al dolore reale della zia Clotilde, al suo amore disertato, cui lei, per una vita intera, non abdica, opponendo un’indifferenza severa allo sguardo insolente e volgare della borghesia granadina. Ne vien fuori un testo fine, pulito, distillato di sentimenti, situazioni, e, sullo sfondo l’ambiente ispanico degli anni Trenta, in una lingua pulita e tesa che non soffre la traslazione italiana.

donna-rosita3.jpgLluís Pasqual, già di casa al Piccolo di Milano - che produce l’allestimento - disegna un quadro d’estrema eleganza per una commedia affranta il cui vero tema è il tempo: una teoria di pannelli scorrevoli dai toni cerei rende cangiante lo spazio unitario, interno borghese di suggestiva stilizzazione. La scena algida è luogo ideale per la recitazione di un cast d’eccezione, ove a farla da padrona non è tanto la Rosita di Andrea Jonasson, ma la vivacità a tratti arlecchinesca della splendida Giulia Lazzarini, la cui governante è il vero motore interno della recita. Dramma muliebre, si diceva, che nella Zia ben tratteggiata di Franca Nuti trova altra scelta felice, così come per le varie zitelle che punteggiano il coro che assiste al progressivo disfacimento del sogno d’amore della protagonista.

Messinscena austera, calibrata, a tratti maestosa: vi risaltano i pastelli dei costumi donneschi, nell’intermezzo musicale che conferisce all’insieme un bel movimento cromatico, ancor prima che ritmico. La storia si dispiega come lama di rasoio, inesorabile, con cadenza sin troppo misurata, come se l’intenzione fosse quella di giocare sulle dilatazioni, i vuoti, rischiando però di penalizzare l’andamento nel suo complesso.

È infatti il quadro finale a ricuperare quel brio dolente che ci appariva necessario, scossa emotiva in grado d’assestare il colpo di grazia: Rosita domina finalmente la scena che s’apre verso la platea mediante una scaletta praticabile, trovata che sin qui pareva mero vezzo stilistico. La soltera abbandonata, in una progressione dal retrogusto pirandelliano, si rivela eroina sciente e tragica, interprete regina d’un dolore rappreso nella sua dignità, che solo una mentalità convenzionale e minuscola può considerare, in qualche modo, risibile. E resta il dubbio se quel dolore, quella pena che goccia a goccia le ha consumato l’anima erodendola negli anni, valesse davvero la pena: in fin dei conti, parliamo pur sempre di poca roba, di uomini o, evitando sessismi di sorta, di grama, sconfortante umanità.
20 Gennaio 2011

Oggetto recensito:
Donna Rosita Nubile di Federico Garcia Lorca, regia di Lluis Pasqual
Tourneè: 19-23 gennaio, Trieste, Politeama Rossetti; 26-30 gennaio, Udine, T.Nuovo di Giovanni; 1-3 febbraio, Pavia, T.Fraschini; 5-6 febbraio, Cremona, T.Ponchielli
Il resto della locandina: Elena Clementelli, traduzione; Ezio Frigerio, scene; Franca Squarciapino, costumi; Claudio De Pace, luci; Josep Maria Arrizabalaga, musiche; Montserrat Colomé Pujol, movimenti coreografici; con (in ordine alfabetico) Andrea Coppone, Gian Carlo Dettori, Pasquale Di Filippo, Martina Galletta, Alessandra Gigli, Eleonora Giovanardi, Rosalina Neri, Stella Piccioni, Franco Sangermano, Sara Zoia.
Produzione: Piccolo Teatro di Milano - Teatro d'Europa
Il convitato di pietra: Giorgio Streheler, dato che lo spettacolo unisce tre generazioni, di attori e non solo, legati o direttamente al Piccolo o al suo principale artefice
Il giudizio: il livello degli interpreti meriterebbe (almeno) tre soli, l’eleganza idem. Il passo dello spettacolo, però, non riesce a convincere del tutto
giudizio:

Beppe Grillo e la politica da spettacolo

(da Giudizio Universale)
Le telecamere che lo seguivano durante le scorse tournée non ci sono più, e i giornali l'hanno abbandonato da un bel pezzo. Ma lui è tornato con un nuovo show, Grillo is back

Come si può recensire uno show di Beppe Grillo? Domanda prevedibile, ma necessaria: l’analisi di un oggetto, qualsiasi esso sia, può sperare d’avere uno straccio di senso soltanto a patto d’accordarsi su una definizione quanto più univoca del medesimo, pena il fraintendimento sicuro o la totale inutilità dell’analisi stessa - ammettendo che questa abbia un valore in sé, cosa che diamo scontata, non senza una pallida speranza.

Ebbene, la natura ondivaga del Grillo–personaggio (è un attore? un comico? un autore satirico? un controinformatore? un politico? un blogger? tutte queste cose assieme?) ci pone sin da principio dinanzi al quesito sul come o, meglio, su cosa andare a cercare assistendo a un suo spettacolo. Il che, in tutta onestà, è di per sé una gran cosa, dal momento che sono sempre interessanti i fenomeni volti a porre in crisi le forme predeterminate.

Per dirla tutta, non si nega d’esser giunti al Nuovo Teatro Verdi di Montecatini armati di qualche pregiudizio a proposito del Nostro, ovvio risultato della costante sovraesposizione - ma sarebbe opportuno dire malaesposizione - mediatica degli ultimi anni. Da un lato lui, un po’ santone, un po’ paraculo, di certo abile e nella comunicazione come nel saperla aggirare (il costante rifiuto di confronti diretti e la tendenza al monologo unilaterale lo mettono a contatto in modo sorprendente col suo nemico d’elezione, il PresDelCons), dall’altro i giornali che, quando son punti nel vivo (la questione dei finanziamenti statali alle testate è una ferita emorragica assai taciuta dalla categoria), mordono più dei cobra, prescindendo da colori, padroni o schieramenti.

beppe-grillo-verdi.jpgUn palco vuoto, uno schermo gigante alle spalle, su cui vengono proiettate immagini a corredo dei temi, moltissimi, toccati nelle due ore abbondanti di one man show. Nessuna telecamera a seguirlo, a differenza di alcuni spettacoli precedenti, nessun orpello particolare, solo lui, il suo corpo, la sua testa ricciuta, sempre più sale e sempre meno pepe. Arriva e giù l’applauso. Non un’ovazione, a dire il vero: ci aspettavamo uno di quei raduni in stile motivatori all’americana, con gente in delirio, replicante ad libitum il verbo impartito e, al contrario, vediamo una sala certo "calda", ma lucida.

Lui, furbescamente, gigioneggia proprio sulle accuse (di popolismo, di demagogia, addirittura di fascismo) che gli piovono quotidianamente addosso. "Italianiii!!!", sbraita ergendosi con le braccia sui fianchi, in una posa plastica che sa di parodia (del modello mai nominato) e di sberleffo (agli autori dell’accostamento). Sarà il solo, neppure abusato, tormentone dello spettacolo, a testimonianza che chi sa fare il mestiere del comico - e su questo dubbi non ve ne sono - i trucchetti li usa, ma non ne abusa.
 ergendosi con le braccia sui fianchi, in una posa plastica che sa di parodia (del modello mai nominato) e di sberleffo (agli autori dell’accostamento). Sarà il solo, neppure abusato, tormentone dello spettacolo, a testimonianza che chi sa fare il mestiere del comico - e su questo dubbi non ve ne sono - i trucchetti li usa, ma non ne abusa.

Si agita, meno di altre volte, e anche la voce denota qualche fatica: non s’aggira più in platea come un ossesso, cingendo gli spettatori impreparati, bagnandoli di sudore. Non che stia calmo, sia chiaro: la veemenza è indiscutibile e certi suoi climax fanno quasi temere (siamo in Toscana) all’inenarrabile eccesso linguistico di cui s’è discusso qualche tempo fa (leggi qui). La realtà, del resto, lo fa imbufalire. Ci fa imbufalire. E, come di consueto, nel finale di una carrellata senza sosta di temi, di dati, di consigli, arriva anche la speranza, rappresentata, dice lui, dalla partecipazione diretta, dai “suoi” Movimenti a Cinque Stelle, dalla presa di responsabilità individuale, perché è necessario rischiare in prima persona se davvero si vuol cambiare qualcosa.

Non c’è dubbio: è uno spettacolo, coi suoi trucchi, le sue contraddizioni (la quantità di informazioni è tale da generare più confusione che chiarezza di idee…), qualche furberia. Nemmeno tra i suoi migliori (altre volte l’abbiamo visto più forte, più efficace, più divertente), ma è uno show. Il che non vuol negarne l’importanza, tutt’altro: troviamo anche una certa onestà di fondo nel cercare di far capire ai plaudenti in sala che sono loro a doversi alzare, organizzare, lottare, e nessun altro lo potrà mai fare in vece loro.

Che poi serva un comico per rivolgersi alla coscienza della gente, non ci stancheremo mai di ripeterlo, è un problema di un paese da barzelletta, di un’epoca confusa, d’una classe intellettuale vacante, e non certo una colpa (l’ennesima) da attribuire ad una categoria - quella dei comici - cui un tempo si rifiutava persino sepoltura consacrata.
28 Dicembre 2011

Oggetto recensito:
Grillo is back, di e con Beppe Grillo
Tournée: 31/12, Udine, PalaCarnera; 12/1, Palermo, T.Golden; 14/1, Agrigento, T.della Valle; 15/1, Trapani, T.Tito Marrone; 17/1, Messina, T.Vittorio Emanuele; 18/1, Catania, Metropolitan; 22/1, Bellinziona, Palasport; 23/1, Legnano, T.Galleria; 24/1, Varese, T. Mario Apollonio; 28/1, Bergamo, Creberg; 31/1, Parma, PalaRaschi; 2/2, Piacenza, Politeama; 4/2, Verona, Palasport; Le altre informazioni sul sito ufficiale

Il fatto: la reiterazione non giova, mai, e anche l’effetto Grillo pare integrato in un sistema dell’informazione che regolarizza, anestetizza, neutralizza qualsiasi cosa; bisogna però ammettere che la Woodstock a 5 Stelle organizzata a Cesena lo scorso settembre, con la partecipazione di oltre 150.000 persone è stata praticamente oscurata dai media “tradizionali”

Il giudizio: non va riferito al politico, ma all’uomo di spettacolo; il primo non ci entusiasma, benché sia difficile preferirgli anche un solo nome degli attuali “professionisti” in campo
giudizio:

Il resto di Gomorra va a teatro

(da Giudizio Universale)
In Terra Padre, Eugenio Allegri e Neri Marcoré leggono racconti di Saviano precedenti e successivi al romanzo, con cui condividono tematiche e toni. Un testo di denuncia ringhiato e rabbioso, cui poco riescono ad aggiungere attori e regia




Se, negli ultimi mesi, un risultato irritante s’è ottenuto, malgré soi, all’indirizzo di Roberto Saviano, è proprio quello di rendere impossibile, quando non vischioso e contraddittorio, esprimere un qualsiasi giudizio sulla sua persona o la sua opera. E la colpa, questa colpa, non è certo sua, d’uno scrittore che cerca di fare il proprio mestiere, nella non banale posizione di chi è destinato a spaccare in due l’opinione pubblica ogniqualvolta respiri. Con tale sentimento, dunque, ci accingiamo ad assistere a Terra padre, spettacolo che Giorgio Gallione trae dal “materiale narrativo scritto attorno a Gomorra”, volume monstre dell’autore campano che rappresenta, volenti o nolenti, uno dei casi letterari più clamorosi e discussi degli ultimi anni.
Non che l’idea sia del tutto originale, a dire il vero: il peculiare romanzo–saggio di Saviano, impasto di racconto intimo, cronaca iperrealistica e saggio antropologico, è già stato oggetto di varie riduzioni, teatrali e cinematografiche.

F02092010151726.jpgLa luce illumina la scena, una teoria petrosa, parete di roccia che l’andamento irregolare dei contorni minerali rende labirinto dai richiami arabescati. Intorno, un fondale scuro, quasi un cielo nero che le luci punteggeranno di riflessi quasi stellati, in alcuni momenti (salienti?) della recita. Due postazioni, fisse, con rispettivi leggii, da cui compaiono Neri Marcorè ed Eugenio Allegri. Le voci, rigorosamente microfonate, s’alternano nella crestomazia di letture, dando sostanza vocale alla narrazione di Saviano: storie che se non son direttamente calchi da Gomorra, paiono comunque rappresentare materiale per una sorta di sequel del libro o, volendo esser maligni, quel che la Mondadori non ha incluso, all’epoca, nel futuro successo editoriale. Vicende di un’umanità sofferente e compromessa, alle prese con soprusi, criminalità, nefandezze tragicamente ordinarie d’un Meridione, e un’Italia intera, sempre più distratti, indifferenti, egoisti.
Terra padre, dal canto suo, non si presenta come una pura e semplice traduzione scenica del celebre libro, ma come un reading–spettacolo a proposito (anche) dei suoi scritti successivi, appunti narrativi che condividono con Gomorra le tematiche, l’ambientazione e una torrida necessità di racconto, aspetto stilisticamente più forte, a nostro parere, del romanzo.

La denuncia, ringhiata e rabbiosa, ai limiti della disperazione, quasi contrasta con la sonorità piena e rotonda delle due voci misurate, ben portate dagli attori. Non che manchi il pathos: s’avverte, però, un sottile scollamento tra la lingua di Saviano, tutta sangue, lacrime, dolore, e quella dei due dicitori, tornita, a tratti apollinea. Non sarebbe stata idea balzana, forse, proporre due attori napoletani, portatori d’un idioma più vicino a certe intonazioni originali, ma, evidentemente, s’è voluta evitare, non si sa se a ragione, un’ipotetica ridondanza.Alla fine, però, i limiti sono abbastanza evidenti e di natura molteplice: la costruzione complessiva è piuttosto debole, e poco possono fare i due interpreti, ingabbiati in una struttura che pare limitarne le potenzialità. Allo stesso modo, la regia di Gallione è sospesa tra l’impalpabile esteriorità d’una scenografia che non incide, al di là delle inutili enfatizzazioni luminose, e una scelta di fondo che sembra, comunque, destinata a uno scacco inevitabile.

La domanda sorge spontanea: sono davvero necessarie queste operazioni teatrali? O, meglio: quali sono gli scopi reali di allestimenti come questo? Solo rispondendo a tali interrogativi è possibile avanzare analisi compiute. Non avendo certezze in tal senso, possiamo però assumerci la responsabilità critica di affermare che no, certe messinscena non servono: non servono perché non propongono niente di nuovo, o di indimenticabile, dal punto di vista teatrale, cosa che, invece, si dovrebbe chiedere a ogni opera d’arte. Non servono neppure in quanto operazioni politiche, allorquando non ottengono effetti di sorta: finiscono puntualmente per lasciare le cose come stanno, confermando le convinzioni d’un pubblico che già condivide certe posizioni, lasciando indifferente, invece, chi non è d’accordo e, con tutta probabilità, non si prende neppure la briga di assistere alle recite. Non servono, infine, perché da uno spettacolo teatrale, specie se, implicitamente o meno, di natura politica, si devono pretendere dubbi, domande, e non certo la terribile e insidiosa sensazione di “essere dalla parte giusta”.

09 Dicembre 2010

Oggetto recensito:
TERRA PADRE, reading-spettacolo DAi racconti di ROBERTO SAVIANO, REGIA DI GIORGIO GALLIONE
Prossimamente in scena: 9 dicembre Teatro Fabbri, Vignola (Mo), 10 dicembre Teatro Comunale, Carpi (Mo), 11-12 dicembre Arena del Sole, Bologna; per ulteriori informazioni riguardo la tournée vedere il sito del Teatro dell’Archivolto di Genova
Gomorra oltre la pagina/teatro: nel 2007, Saviano ne trae, con Mario Gilardi, un copione per uno spettacolo, acerbo ma apprezzabile, realizzato dallo Stabile di Napoli; non si battevano le strade più semplici, quelle della narrazione o della lettura, preferendo un teatro drammatizzato e corale
Gomorra oltre la pagina/cinema: nel 2008, Matteo Garrone, sempre di concerto con l’autore, ne ricava un film pregevole che, al di là della candidatura all’Oscar (fenomeno che solitamente pertiene più al potere distributivo che al valore estetico), ebbe l’effetto di far gridare, in concomitanza con Il Divo di Sorrentino, con cui condivideva l’attore Toni Servillo, a un’utopistica e ben presto smentita rinascita del grande cinema italiano
Saviano oltre la pagina: non solo le recenti trasmissioni al fianco di Fazio, ma, nel 2010, anche protagonista di un a solo scenico intitolato La bellezza e l’inferno, ispirato al suo omonimo libro, per la regia di Serena Sinigaglia e la produzione del Piccolo Teatro di Milano
giudizio:

giovedì 10 febbraio 2011

La doppia prova dei Promessi Sposi

(da Giudizio Universale

Ha il fascino da scatola magica pirandelliana, il rigore drammaturgico di un classico qual è, ormai, Testori, e una lingua, parlata, bisbigliata, tornita, tutta da (ri)scoprire, di una modernità sorprendente. Ci riferiamo a I Promessi Sposi alla prova, l’ultimo spettacolo diretto da Federico Tiezzi, che s'avvale, come di consueto, del grande interprete e amico, Sandro Lombardi. I due ex “criminali” riannodano numerosi fili della comune poetica che, negli anni, ha visto proprio in Testori un autore frequentato con passionale assiduità e che, in quest'occasione, offre il destro per un doppio confronto con due titani della nostra tradizione quali Pirandello e Manzoni.

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Il sipario si apre e appare subito un'ulteriore scena teatrale, più sgarrupata, modesta del Metastasio di Prato che ci ospita. In una costruzione dai contorni essenziali, geometrici, dalle tetre tonalità grigioblu, si staglia, in posizione centrale e rialzata, un sipario rosso, malconcio, con una scritta circense d’un triste giallo scolorito. Ai lati, riflettori a vista. Oltre il drappo, una tavola grande e, sulla parete, due segnalazioni d’ordinaria funzionalità: “Vietato fumare”, prescrizione puntualmente disattesa dai personaggi che vedremo in scena, e “Uscita d’emergenza”.


Mettere “alla prova” il più importante romanzo del nostro Ottocento è impresa quanto mai complessa, ricca di declinazioni e sottigliezze: significa sperimentare il testo manzoniano come traduzione drammaturgica, ma anche, al contempo, sondarne la forza rappresentativa nella sua (doppia) attuazione scenica (quella “reale” dello spettacolo offerta a noi pubblico, e quella delle prove contenute nel racconto teatrale) e, infine, nelle obbligate letture implicate da simili operazioni.

promessi4.jpgLa prova è, di fatto, quella inscenata dagli attori/personaggi, in un gioco di matrioske finzionali che rimanda direttamente ai Sei personaggi pirandelliani. Sandro Lombardi è il Maestro (non regista, anche in questo particolare Testori s’accorda col Nobel girgentino) e si trova a dirigere una scalcagnata compagnia di giro nella messinscena dei Promessi sposi: la situazione rappresenta l’ideale presupposto per un’approfondita messa a nudo del lavoro e del gioco teatrale, praticaccia fatta di prove, attori svogliati, primedonne nervose, elementi che il capocomico deve riuscire ad armonizzare. Tutto, senza lesinar suggestioni, considerazioni e spunti a proposito degli snodi e dei temi toccati dal romanzo e da questa versione drammatica.

È un gioco di specchi vertiginoso quello condotto dal paziente-direttore, composto di riflessioni e rifrazioni che schiudono feritoie, rivoli di senso, innervando di nuova linfa la partitura originale: il Seicento lombardo deflagra nel Novecento, perché i dialoghi tra gli attori diventano confronti inediti, aporie romanzesche, in un continuo slittamento di piani narrativi. È una costante mise en abîme di vicende e caratteri, a saggiarne la tenuta, la praticabilità in un’estenuante dialettica tra fuori e dentro, tra finzione di primo e secondo grado, a ricordare certi bizantinismi delle narrazioni di Borges.

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Ma siamo in Italia, in Lombardia, terra amata e odiata da Testori, genio difficile, pieno di fertili contraddizioni: e, per paradosso, dopo le riscritture classiche (Ambleto, Macbetto. Edipus) in cui prevaleva un linguaggio materico, dialettale e sporco, in questi Promessi Sposi alla prova è proprio la lingua manzoniana a trionfare per modernità. Non i personaggi, a fronte d’una buona prova specie dei giovani attori (Francesco Colella, Debora Zuin, la brava Caterina Simonelli) affiancati da interpreti più navigati (l’attrice che fa Gertrude di Iaia Forte, che pure denota qualche pausa di troppo, Massimo Verdastro, nei panni del buffo interprete di Don Rodrigo, Marion D’Amburgo e Alessandro Schiavo). È il dettato manzoniano, troppo spesso relegato a repertorio scolastico malsopportato e inerte, a segnalare la propria forza, un’indomita vitalità, sbucando nella congerie di lingue, registri e piani rappresentativi.

Si arriva a ridere, in certi sintagmi sospesi tra amara parodia e improbabile pastiche, quasi che questo testo, piuttosto recente (datato 1984), anticipi nei fatti ben altre riscritture del romanzo: se non fosse che Testori sceglie lucidamente d’esser antimoderno, amante ostinato della parola e di un teatro il cui destino, egli ne era forse conscio, è quello di soccombere sotto gli spietati colpi dei mass-media contemporanei. Proporre oggi questo dramma è una sfida ardua, se non tentativo disperato: alla prova di speranza, proposta con utopia dall’autore lombardo, s’affianca, da parte di Lombardi e Tiezzi, una forma, encomiabile e coraggiosa, di resistenza.
Igor Vazzaz


(07 dicembre 2010)
Oggetto recensito:
I PROMESSI SPOSI ALLA PROVA, DI GIOVANNI TESTORI, REGIA DI FEDERICO TIEZZI, DRAMMATURGIA DI SANDRO LOMBARDI E FEDERICO TIEZZI
Prossimamente in scena: Torino, Carignano, 7-19/12; Napoli, Mercadante, 12-23/1/11; Cortona (Ar), 25/1/11; Ravenna, Alighieri, 27-30/1/11; Genova, Corte, 2-6/2/11; Bologna, Arena del Sole, 10-13/2/11; Modena, Storchi, 16-20/2/11; Roma, India, 22/2-6/3/11; Piombino (Li), Metropolitan, 7/3/11; 09/03/2011 Grosseto (Gr), Teatro degli Industri; 10/03/2011 Barga (Lu); 11-13/03/2011, Massa (Ms), Teatro Guglielmi
Produzione: Metastasio Teatro Stabile della Toscana, Teatro Stabile di Torino, Compagnia Sandro Lombardi
Il resto della locandina: Pier Paolo Bisleri, scene; Giovanna Buzzi, costumi; Gianni Pollini, luci; Giovanni Scandella, assistente regista; Francesca della Monica, maestro di canto
Citazione (quasi) iniziale: "So bene che vi siete venduti tutti a quelle fandonie televisive che hanno finito per togliervi ogni senso di che sia il mestiere dell’essere, qui, attore" (il Maestro)
Citazione finale: "A voi, superata questa prova, cosa può dirvi, congedandosi, il vostro maestro? Che, se nella vita o qui, sulla scena, incontrerete, com’è giusto, difficoltà, dolori, ansie e problemi, battete alla sua porta. A quella di lei. La speranza" (il Maestro)
A proposito del recente "fango" di Saviano: "che io, non tu, e men che meno lei, nella nostra storia, io sono il personaggio veramente nuovo, illuminato, anticonformista, rivoluzionario. Quello che farà precipitare a terra i tabù; li scioglierà, come fa il sole con la neve, in marciume, broda, fango, fanghiglia, sotto la sua, cioè mia, scarpa”. Parola di Don Rodrigo
giudizio:

John Malkovich killer e la strage di fine stagione

(da Giudizio Universale)
Presentato in Piazza del Duomo a Prato, Infernal Comedy ha visto l'interprete croatoamericano nei panni dell'assassino Jack Unterwerger. Ma il contesto teatrale non gli dona e lo priva delle sue doti migliori



Anno sfortunato, in ambito teatrale, per gli hollywoodiani in Italia: dopo il tentativo non del tutto centrato di John Turturro con le Italian Folktales da Calvino, Pitré e Basile, tocca a John Malkovich deludere le aspettative del pubblico accorso per assistere alla sua interpretazione di Jack Unterweger in The Infernal Comedy dell’autore e regista viennese Michael Sturminger.
Si sfida la calura dell’entroterra toscano, incuriositi da uno spettacolo di fattura internazionale (debuttato in California nel 2008 e passato al Festival dei Due Mondi di Spoleto), fiduciosi nel chiudere al meglio un anno denso di visioni e spettacoli.

ohn-malkovich-2009-7-1-5-50-41.jpgSi dà il caso che il celebre attore (quello che in molti vorrebbero essere, stando alcelebre film del 1999) abbia aperto un atelier a Prato, città che, negli anni, ha manifestato una vita culturale assai più attiva delle nobili città limitrofe. Si dà, inoltre, il caso che, in occasione dell'apertura di questo centro (che si occuperà di moda, arte contemporanea e altre cose che non abbiamo ben capito), il comune cittadino è riuscito ad assicurarsi l'inserimento nel cartellone estivo dell’allestimento teatral-musicale che vede il tenebroso interprete d'origine croata nei panni di un serial-killer austriaco realmente esistito, protagonista d'una paradossale e sanguinosa storia di condanna, apparente riabilitazione e conclusiva morte per suicidio.
Lo spettacolo si annuncia interessante e ambizioso: non solo teatro di parola, dato che ad accompagnare il monologo dell’assassino vi sono una formazione orchestrale barocca (nella fattispecie la Wiener Akademie Orchestra, diretta da Martin Haselböck) e gli interventi di due soprano (Laura Aikin e Aleksandra Zamojska), a testimonio d’uno sforzo produttivo tutt'altro che irrilevante.
L'idea, poi, che a vestire i panni di un assassino scaltro, dalla storia movimentata e piena di sorprese, sia uno dei volti più ambigui del cinema mondiale fa sì che il pubblico della bella piazza pratese sia predisposto ad assistere a un vero e proprio evento.

Eccolo, dunque: John, abito bianco e nero, figura esile, affilata, traiettorie dirette. Il teatro, e specialmente il teatro nelle piazze, dove le distanze sono destinate ad aumentare, lo privano della sua arma attorica principale, il volto. Non si può giocare sull'increspatura delle sopracciglia, sulla minima, minuziosa variazione dell'espressione, quel tocco impercettibile e magico che dettagli e primi piani amplificano a dismisura: il teatro è arte del gesto rotondo, della biacca sul volto, dell'ampiezza dei movimenti. Se a questo si aggiunge un testo esile - giocato su un sense of humour quasi mai ben portato, che resta sempre distante e dal macabro più schietto e dalla scherma più raffinata, ecco che Malkovich si ritrova a giocare in un campo ignoto, costretto a un'interpretazione a metà strada tra lo stand up comedian e il personaggio-che-dovrebbe-essere. Non turba e neppure fa ridere, portando peraltro una vocina per niente consona col "suo" carattere e che, calata nell'inglese zoppicante del killer austriaco, risulta senza centro, senza profondità, senza spessore.

infernal-comedy-malkovich.jpgDinanzi a cotanto spreco di mezzi, la spalla musicale, pessimamente amplificata, risulta un lusso del tutto superfluo, così come gli interventi delle due soprano (meglio la Zamojska), dato che testo teatrale e partiture s'amalgamano male, dando vita a un insieme scomposto: gli inteventi canori sono spesso pesanti, mal gestiti nella durata (qualche taglio alle forme ritornellate tipiche del barocco avrebbe di certo giovato alla fruizione) e nell'economia d'una sinossi scomposta, mal supportata dalla recitazione satireggiante del protagonista.

Uno sfacelo. Sfacelo cui poco o nulla può fare Malkovich, anche a fronte di qualche sparuto passaggio in cui il testo sembrerebbe toccare qualche spunto degno: niente di sconvolgente, riflessioni in nuce sul concetto di verità, di colpa e innocenza, che restano comunque l'oggetto d'indagine della gran parte delle opere teatrali e narrative.
Gli applausi non mancano, è vero, ma sono quasi timidi, specie se rapportati alla statura del cast. Si notano sorrisi tirati, sogni infranti, una platea muliebre apparecchiata all'orgasmo che è stata puntualmente tradita. Peccato: non tanto per le attese deluse, ma per uno spettacolo mal pensato e mal realizzato, che potrebbe aspirare a grandi risultati e, invece, si trova impantanato nello stanco e rivisto schema della superstar in pasto al pubblico. É andata così, poco da aggiungere, se non un arrivederci a tutti, a settembre.
Igor Vazzaz
29 Luglio 2010

Oggetto recensito:
The Infernal Comedy – Confession Of A Serial Killer, di Michael Sturminger, con john Malkovich
Informazioni e repliche: www.theinfernalcomedy.org
Il testo: lo trovate qui
Le musiche: brani variamente selezionati da opere di Gluck, Boccherini, Vivaldi, Mozart, Beethoven, Haydn e Weber
Suoni dell’altro mondo: al netto della peculiare composizione d'un ensemble barocco, com'è possibile dover sentire un suono del tutto privo di frequenze basse, in cui i contrabbassi sembrano uscire da una radio d'epoca?
La delusione/1: la voce, e la pochezza di un interprete che ci saremmo attesi titanico
La delusione/2: uno spreco di mezzi simile è insopportabile, soprattutto se si considera che gli americani sanno fare teatro e di grandissima fattura. Forse è il nostro anno sfortunato
Sadismo: il piacere voluttuoso contemplando la delusione delle signore e signorine presenti
giudizio:

Il Don Giovanni in versacci

(da Giudizio Universale)
Ricantare la celebre opera di Mozart a cappella, con i rumori e le pernacchie che fanno i bambini e un'espressione imperturbabile sul volto. E' l'ultima trovata de I Sacchi di Sabbia, la compagnia tosconapoletana che riporta nei capolavori della lirica un po' di sana malizia


foto_dongiovanni.jpgIn un impeccabile completo scuro, una figura maschile, magra, dai tratti daliniani, accoglie il pubblico in silenzio, al centro d’una scena spoglia. Unici arredi, uno schermo sul fondo e, qualche passo più avanti, un doppio gradino di legno. Impettito, l’uomo in completo scuro reca con sé una borsa a tracolla, in compunta attesa che il pubblico prenda posto e cessi l’ordinario brusio precedente le performance teatrali. Buio. Una voce fuori scena, femminile e neutra, fornisce una scarna sinossi del Don Giovanni, citando situazioni e snodi del capolavoro di Mozart (e Da Ponte): alle parole diffuse dalle casse corrispondono i movimenti secchi e ben portati dell’uomo, sorta di stewart aeronautico. L’espressione imperturbabile, rapportata ai gesti e alle frasi in sottofondo, genera risate ora timide, ora più sonore, ora deflagranti: terminata l’esposizione della trama, o argomento che dir si voglia, si può dunque iniziare.

Entrano sei figure: i due maschi prendono il posto più in fondo; di fronte a loro, le due coppie di ragazze, disposte su altrettanti gradini. Tutti vestiti da scolaretti, camicina bianca, calzoni al ginocchio scuri o gonna d’uguale stoffa e lunghezza, reminiscenze quasi deamicisiane (ma a quei tempi le classi erano separate), tocco rétro che sorprende e diverte la sala. Giulia Solano, la prima in basso alla sinistra del pubblico, caccia un minuto flautino per dare il la e, armata di bacchetta da direzione orchestrale, batte il tempo.
 
Le sei gole si aprono. Concerto. Sconcerto. I figuranti biancovestiti intonano un coro d’onomatopee, inciampi vocali, stridii nasali fusi in una plastica sonora da lasciar interdetti. Per il primo minuto buono il pubblico è basito: "È lui o non è lui?", viene da chiedersi e la risposta - appena l’orecchio s’adusa alle impennate virtuosistiche della partitura del Wolfango- non può che essere affermativa. L’Ouverture si snoda, flessuosa, innervata di modulazioni che, non rinunciando all’umorismo sottotraccia del suo magistrale autore, lasciano comunque presagire la cupezza tragica della vicenda: e questi cantano come sei adulti che una felicissima regressione infantile ha ricondotto nel ventre molle e accogliente della lallazione. Il pubblico capisce, sente, si sintonizza sulla frequenza di questo spiazzante dissoluto punito e le risate giungono puntuali come temporali monsonici: prima scrosci timidi, cui seguono ondate d’irrefrenabile orgasmo comico.

E sia chiaro: l’adattamento a sei voci (che spesso sono tre, accoppiate) è gustoso, nient’affatto dilettantesco; rispettoso, anzi, di taluni incastri metrici e melodici, al punto da non evidenziare le inevitabili mancanze rispetto a un’esecuzione orchestrale. Merito anche delle facce. Sì, delle facce: affilate, serie, secchioncelle, quelle in prima fila (con la già citata Solano, una meravigliosa Giulia Gallo), più morbide  Arianna Benvenuti e Maria Paciosi, semplicemente irresistibili Matteo Pizzanelli e Federico Polacci. L’uno, tenorile e aereo, mimica sottile e tempi comici nei rapidi cenni del volto, l’altro serafico, placido, baritonale, dotato d’una grazia paradossale e felice nelle ciglia spioventi: un perfetto Perozzi-Philippe Noiret nell’indimenticabile esecuzione madrigalista di Amici miei – atto secondo.

Esaurito il prologo sinfonico, ecco che lo schermo riporta le parole del dramma musicale, cui s’accoppiano in un felice matrimonio d’amore, i versi e versacci dei nostri cantanti rumoristici. È un Don Giovanni pulsante, vivo, strappato a certi (non sempre) barbosi consessi lirici. E vien da urlare: "Questo è Mozart! (e Da Ponte)", ricreato nella sua spinta inguinale, nel suo spiritaccio malizioso, nella corrosiva potenza di un estro incontenibile. Ma non solo: c’è Zappa in questa performance che è teatro, lirica, musica, lo Zappa di certe direzioni orchestrali, lo Zappa di certi boleri raveliani, rispettati profondamente, eppure smontati dall’interno come i giocattoli dai bambini curiosi.

Il rischio è - sarebbe - la lunghezza, ché un gioco (e non uno scherzo) simile  ha un tempo endemico: Giovanni Guerrieri cesella però ottimamente una riduzione che niente tralascia pur snellendo il tutto. Le altre trovate sono gag, sempre ben portate, a mo’ di variazioni sul tema, secondo un’ottica musicale ancor più carsica e indovinata.
S’arriva in fondo ricreati, nell’umore e nei muscoli, felici che una compagnia quale i Sacchi di Sabbia resti sempre in grado di stupirci, di evitare le strade battute e che dimostri ancora, se ve ne fosse bisogno, che la fedeltà massima a un’opera d’arte si esprime soltanto in una miracolosa e necessaria reinvenzione.

Igor Vazzaz12 Luglio 2010

Oggetto recensito:
Don Giovanni di W. A. Mozart, interpretato da I Sacchi di Sabbia; progetto di Giovanni Guerrieri, Giulia Gallo, Giulia Solano
Produzione: I Sacchi di Sabbia/Compagnia Sandro Lombardi, in collaborazione con Teatro Sant’Andrea di Pisa, La Città del Teatro, Armunia Festival Costa degli Etruschi, con il sostegno della Regione Toscana
Visto: a Cascina, La Città del Teatro, Festival Metamorfosi, il 5 giugno 2010
La tourneè: 21/7, Calci (Pi), Certosa; 5-9/9, Roma, Teatro India; 21-24/9, Castiglioncello (Li), Festival In-Equilibrio; 6/11, Torino, Teatro Stabile; novembre (date da definire), Lucca, Teatro del Giglio; 9-10/12 Pisa, Teatro Verdi; 18-30/1/2011, Milano, Crt
Sospetto: non è che Mozart non avrebbe apprezzato questa versione; lui il Don Giovanni l’ha scritto proprio così, ma sarebbe stato improponibile per quei tempi
I Sacchi di Sabbia: compagnia tosconapoletana che da anni propone spettacoli a cavallo tra ricerca e comicità, con impagabile rigore e bravura; hanno vinto il Premio Ubu 2008
Da (ri)vedere: Sandokan (o la fine dell’avventura), 1939, senza dimenticare Essedice, in collaborazione con il disegnatore (e per l’occasione attore) Gipi
Per info: www.sacchidisabbia.it
giudizio: