Articoli pubblicati altrove e qui raccolti: non il classico, egolaico, ennesimo blog

da teatro.org

a fondo pagina la maschera di ricerca per gli spettacoli

lunedì 28 marzo 2011

Wilde, così non è se vi pare

(da Giudizio Universale)
Una pellicola immaginaria riavvolge una fra le più note commedie dell'autore britannico, Il marito ideale. La regia di Roberto Valerio porta alle estreme conseguenze la satira feroce contro le ipocrisie della società



"È soltanto negli specchi che bisogna guardare. Perché gli specchi ci mostrano solo le maschere". Così sentenzia il disperato e tragicomico Erode della Salomè wildiana, fantasmagorica pièce assurta a emblema del teatro simbolista e di svariati alfieri d’avanguardie vecchie e nuove. E a queste parole sembra ispirarsi la godibile e maliziosa declinazione cui Roberto Valerio sottopone An Ideal Husband, sardonico testo che il dandy irlandese, inserendosi in un felice filone non distante dal miglior Feydeau, ambientava all’interno della upper class britannica di fine Ottocento.

Commedia farsesca, giocata sul feroce slittamento dei piani di verità, in cui niente è mai come sembra: a farla da padrone è il plesso di simulazioni e dissimulazioni cui si trovano costretti a precipitare i personaggi, nell’irrealizzabile velleità d’esser ciò che, puntualmente, non sono. Il piano utopico dell’uomo provetto, consorte ideale, politico idealista e probo, si rovescia nella sarcastica distopia della menzogna, necessaria per non perdere tutto quel che ha accumulato in una vita intera, macchiata da un solo, ma imperdonabile, peccato originale. L’ironia di Wilde, che tutto condisce attraverso una scherma testuale di fulminanti aforismi passati poi alla storia, è però assai più profonda, spietata, corrode dall’interno l’involucro, la forma stessa della commedia, mediante quella che, in apparenza, è una struttura comica perfetta, di precisione e brillantezza apollinee.

S’apre il sipario su un sontuoso interno d’epoca: arredi eleganti (due tavoli di legno lavorato, un ampio canapè, alcune sedie) e un fondale di pannelli mobili che, ruotando, definiranno l’unico cambio d’ambientazione del testo. I sei attori in scena, rigorosamente in abiti acconci, pronunciano alcune battute per poi, sul vorticoso effetto fonico di riavvolgimento d’un nastro audio, muoversi a ritroso: lacerti di commedia, frantumi drammaturgici, come se il susseguirsi degli eventi fosse risucchiato all’indietro da un’irresistibile forza centripeta. Effetto reiterato, che diverte, ma spiazza anche il pubblico domenicale del Manzoni di Pistoia.

marito ideale.jpgL’andamento à rebours trova conclusione, come prevedibile, con l’incipit della recita, in quell’incastro di dialoghi fiorettistici tra sir Robert Chiltern, il marito del titolo, la coniuge Gertrude, il faceto Arthur Goring e la cinica calcolatrice Miss Cheveley. Intreccio tra affari, sentimenti, ricatti e ideali, che vede sotto scacco Robert, nell’interpretazione – riflessiva e dalla battuta rotonda - di Roberto Valerio, spalleggiato, rinfrancato, e infine salvato dalla puntuta lepidezza di Arthur, un Pietro Bontempo in forma smagliante. È lui, in tutto e per tutto, il perno: non foss’altro perché l’equilibrio compromesso dall’avida Cheveley di Valentina Sperlì viene ristabilito, non senza batticuore, dal suo arguto personaggio. Frivolo e profondo, leggero e feroce: Arthur è un perfetto compendio di wildismo, portatore esemplare della Weltaanschaung dell’autore dublinese. Che sia lui, giovane ricco sfaccendato, emblema del disimpegno vacuo, disistimato dal padre (un vigoroso e felice Alarico Salaroli), adorato dalla velleitaria Gertrude (Chiara Degani), insidiato da Miss Chevely, la chiave di volta dell’intera situazione è il perfido paradosso al vetriolo riservato da Wilde al pubblico vittoriano, da un lato, e al teatro borghese, dall’altro.

È in questo senso che si deve leggere l’asciugatura altamente teatrale che Valerio (responsabile di traduzione, adattamento e regia) applica al testo originale, distillandone una geometrica azione scenica da giocarsi con effetti filmici e straniamenti recitativi: "niente è come sembra", e non si tratta del sin troppo semplice, per quanto innegabile, senso politico del testo, a porre in crisi l’irrealizzabile sogno di una correttezza assoluta. "Niente è come sembra" è, a livello strutturale, profondo, il vero segreto di questo gioiello di scrittura, in cui la misera dimensione umana, sovralimentata d’apparenze, d’insoffribile retorica, di slogan tanto ripetuti quanto insensati, viene messa a nudo per quello che è: un’incalcolabile e arbitraria costruzione priva di fondamenta. Un sorriso pieno, e amaro, per uno spettacolo ben fatto e che, col tempo, non potrà che migliorare
28 Marzo 2011
Spettacolo
Un marito ideale, di Oscar Wilde, regia di Roberto Valerio

Scheda
Il resto della locandina: Carlo Sala, scene e costumi; Nando Frigerio, luci; con Roberto Baldassarri (Phipps/Mason); produzione Teatridithalia in collaborazione con Padiglione Ludwig
Tournée: 28/3, Olbia, Cineteatro; 30/3-17/4, Milano, Elfo Puccini
Gli aforismi: "La spontaneità è una posa difficilissima da mantenere"; "Le domande non sono mai indiscrete. A volte lo sono le risposte"; "Volgarità è solo la condotta degli altri, e falsità sono le verità degli altri"; "Si dovrebbe giocare sempre lealmente... quando si hanno le carte vincenti"; "Quando gli dèi vogliono punirci accolgono le nostre preghiere"

Giudizio:

mercoledì 23 marzo 2011

Allo Zoo con i bambini

Dopo il diabolico 666 la compagnia madrilena Yllana porta in giro per l'Europa il suo nuovo spettacolo: la giungla in cui si avventura il loro improbabile gruppo di esploratori è fitta di citazioni "alte", ma pensata soprattutto per divertire i più piccoli


Tra le categorizzazioni più ambigue che si diano, quella più equivoca è quella di arte (o film, o spettacolo) per bambini: con essa, difatti, s’ipotizza o una qualche menomazione cognitiva da parte dei cuccioli di homo sapiens sapiens o, per contro, una loro mai dimostrata propensione per verginità, purezza e candore d’animo. E anche qui, la passione per il Benigni d’annata si rivela proficua: allertando il pubblico d’un monologo dai toni blasfemi, il primo dei toscanacci si giustificava asserendo che il problema sarebbero stati gli adulti, poiché i bambini si trovano da sempre perfettamente a proprio agio con la comicità oscena.

Zoo, ultima fatica dei madrileni e squinternatissimi Yllana, non ha nessun rapporto con sconcezze o parolacce, neppure con le parole in senso proprio, ma, nondimeno, ha ricevuto il premio Max per le arti sceniche in Spagna quale miglior allestimento infantile del 2010 e, in effetti, il bel Teatro di Rifredi (Firenze) pullula di pargoli in sala, ove ad accoglierci troviamo un sipario aperto con alcuni addobbi botanici dalle vaghe reminiscenze di silvestre esotismo. Le luci calano e uno schermo sul fondale proietta i titoli d’apertura d’un filmato, a parodia di certe vecchie pellicole avventurose. Lo spettacolo, però, ha inizio in platea: quattro improbabili figuri agghindati da esploratori s’inoltrano con passo felpato e guardingo tra le poltroncine gremite e la sorpresa degli spettatori: cercano “la loro jungla”, punto d’approdo e svolgimento della loro traversia scenica, il palco.

La breve sequenza d’inizio ben illustra la linea della performance, improntata a una comicità che unisce clownerie, slapstick, assurdità e caratterizzazioni dei personaggi. Juan Francisco Dorado è il leader machista, capo escursione di bell’aspetto, invadenza pelvica e intrepido atletismo: i pugnali gli s’infilano puntualmente nello stesso albero a sinistra della scena, a prescindere dalla direzione verso cui li scagli, ottenendo rispetto e ammirazione dai compagni di ventura. Susana Cortés è la vivace, paffutella lady del gruppo, sospesa tra ammiccamenti ridicolosi e una vocalità sopra le righe. César Maroto è… il “calvo”: sessualmente incerto (ben dosate le sequenze in cui sembra ammaliato dalla mascolinità del capo), ha doti d’inatteso eclettismo, in chiave sia comica sia corporea, mentre Rubén Hernández è lo scienziato della spedizione, con ordinaria lente d’ingrandimento e assai poca baldanza.

L’allestimento procede a sequenze chiuse, i ruoli si mescolano: spassose le parti in cui gli attori recitano travestiti da gorilla (dirette citazioni kubrickiane), così come quelle del “ritorno” in platea con folte criniere leonine. Lo sketch migliore è, probabilmente, quello dei quattro uccelli, non si capisce di che specie, in cui buon gioco hanno le luci soffuse e gli azzeccati costumi che riprendono il classico “trucco del nano”, con le braccia degli attori infilate nei pantaloni del vestito.

È garbato, ben portato, questo Zoo di Yllana, ensemble che ricordavamo, ai tempi del luciferino 666, assai più sfrontato, coraggioso. Non guasterebbe, anche in quest’occasione, qualche rischio in più, a innervare lo spettacolo, rendendolo più sanguigno, foss’anche crudele, senza tradirne l’ispirazione. Yllana è una gran gruppo, la sua storia ventennale lo dimostra, ma in questo caso pecca di timidezza nel costrutto complessivo, rinunciando a una vera e propria stratificazione di riferimenti, privilegiando un concetto, comunque discutibile, di fruibilità: quella per bambini, appunto. Non si negano risate e applausi, ma giusto sarebbe attendersi qualcosa in più.
23 Marzo 2011
Spettacolo
Zoo, di Yllana

Scheda
Il gruppo: http://www.yllana.com/  
Visto a: Teatro di Rifredi, Firenze
Prossimamente: qui tutti gli spettacoli della compagnia in giro per l'Europa
Le opere stratificate: quelle che non rinunciano a nessuno spettatore, sfruttando diversi livelli di lettura; ovvio che i fanciulli non riconoscano 2001 Odissea nello spazio, ma si potrebbe osare di più
Per capirsi: al di là dei riferimenti dichiarati dalla compagnia, in questo caso siamo molto più vicini a Aldo Giovanni e Giacomo (bravi, non diciamo di no) che ai Monty Python (divini)

Giudizio: