Articoli pubblicati altrove e qui raccolti: non il classico, egolaico, ennesimo blog

da teatro.org

a fondo pagina la maschera di ricerca per gli spettacoli

martedì 27 dicembre 2011

Janina Turek e il racconto impossibile, tra Cracovia e Porcari

(da La Gazzetta di Lucca, 23 dicembre 2011)

Porcari e Cracovia: quasi uno scherzo solo a nominarle una di seguito all’altra. Eppure lo spettacolo visto ieri sera all’Auditorium Vincenzo da Massa Carrara (mai nome poteva essere più scomodo da citare in una semplice cronaca teatrale) ha idealmente unito, e in modo opportuno, la bellissima città polacca e il centro, ex rurale, ormai industriale, della Piana di Lucca. Merito di due artisti, Antonio Tagliarini e Daria Deflorian, che partono dalla danza contemporanea per poi mutare, contaminare diverse forme sceniche, mescolando le carte, giocando con le discipline allo scopo d’emozionare emozionandosi, aprire varchi, stimolare gli spettatori.

Il festival Quello che forse vorresti vedere propone infatti Il pomeriggio conosce cose che il mattino nemmeno sospettava, nell’ambito di un ardito progetto cui la coppia di artisti sta lavorando da qualche tempo (chiacchierando abbiamo carpito un Reality senza show a proposito del quale non metteremmo la mano sul fuoco) e che prende le mosse da un peculiarissimo caso d’autobiografia, protagonista una donna polacca vissuta a Cracovia, appunto, tra 1922 e 2000. Verrebbe da dire un’anonima signora, se non fosse che il suo nome ci è noto, Janina Turek: la vera particolarità non risiede neppure in una vita avventurosa o ricca di spunti narrativi, quanto piuttosto nell’aver registrato per intero, con algida lucidità e impressionante metodo, la propria esistenza in una serie di dati raggruppati in trentatre categorie. In breve: Janina, dall’inizio degli anni Quaranta, comincia a scrivere e fissare su carta ogni volta che mangia, cosa mangia, chi vede per strada, cosa vede a teatro, le telefonate in entrata o in uscita, i programmi visti in tv, in un afflato da catalogo che potrebbe far impallidire i più paradossali narratori. Ancor più incredibile: Janina accumula tale gran copia di dati esclusivamente per sé; la dimensione della scrittura è privata, quindi inconcepibile per noi, assuefatti all’esibizionismo implicito da reti sociali, bacheche virtuali, condivisioni coatte. Janina scrive per sé, in preda a quella che ci pare (e forse lo è) un’ossessione, forse la ricerca d’un controllo sul proprio vissuto. Nel glaciale catalogo dei suoi quaderni, non tutto è tradotto, anzi: le emozioni non compaiono mai, affidate invece alle cartoline, più di tremila, che riceve o, addirittura, si spedisce da sola. A rendere il fatto ancor più bizzarro: Janina compie questa titanica opera di campionamento nel rigoroso silenzio, giacché nessun famigliare (divorziata presto dal marito, è comunque madre tre figli) scopre niente. Consumata la morte della donna, una figlia scopre l’armadio stracolmo di quaderni certosinamente compilati. Da lì, l’intuizione di avere una fotografia iperreale della vita quotidiana polacca in un arco di quasi sessant’anni: un patrimonio di informazioni che, giustamente, non è passato inosservato alla stampa nazionale, e non solo.

Antonio Tagliarini da anni lavora sul concetto di biografia, attanagliato ai dubbi e ai paradossi d’un racconto, quello della vita, che nel suo farsi o, meglio, tentarsi di fare, trova l’immancabile scacco, più o meno cosciente, più o meno consapevole. Inevitabile che, complice Daria Deflorian, un caso come quello di Janina Turek, concittadina e contemporanea (coincidenza?) di un gigante del teatro novecentesco quale Tadeusz Kantor, abbia fatto scattare un interesse che non si limiterà certo al viaggio di ricerca a Cracovia (narrato nel diario cibernetico http://realitydiario.tumblr.com/) né alla performance appena vista. E il laboratorio che i due artisti hanno svolto presso il Centro Anziani “Il Girasole” a Porcari è risultato essere un’ottima occasione per compiere un ulteriore passo nella definizione di questo “viaggio” alla scoperta (impossibile) di questa utopia narrativa, sisifeo tentativo di traduzione del vivere. Sono nove (sette donne, due uomini) i partecipanti all’iniziativa, sotto la guida dolce e sorridente di Deflorian e Tagliarini: luce sparata in scena, una registrazione audio rompe il brusio della sala, ottenendo un giusto silenzio. È un uomo a parlare, un ottantenne che racconta, a suo modo, l’amore per una coetanea che vorrebbe sposare e che un infortunio ha costretto in ospedale. Entrano poi i nove protagonisti: uno per uno guadagnano il centro della scena, salgono su una piccola bilancia elettronica e dichiarano il proprio peso. Inizia lo spettacolo, che spettacolo non è: è indagine, interrogativo, sfida già persa, ma che vale ugualmente lanciare.

E i corpi di questi signori attempati, i loro volti fieri d’una sicurezza conquistata con la progressiva fiducia nei loro “istruttori”, si piegano alla rappresentazione dell’irrappresentabile: la vita di Janina. Non c’è recitazione, non è teatro, non è neppure finzione, e di questo c’è da esser grati a Tagliarini e Deflorian: non c’è la sicumera del narrare, l’incauta perversione dell’aver qualcosa da dire. Tutt’altro: v’è il dubbio tarlato di cosa sia traducibile o, ancora meglio, l’enigma di un racconto sul raccontare stesso, in un gioco di scatole che somiglia alle matrioske russe.

Inutile pretendere dall’esito spettacolare di un laboratorio il taglio netto d’una lettura artistica: è l’apertura a contare, a essere preziosa, come traccia di un cammino che s’imprima nella memoria emotiva di chi ha assistito e che rimane arrovellato a interrogarsi su cosa vi sia mai d’interessante in una vita, di come sia inevitabile, dato un racconto di qualsiasi natura possa essere, l’inusitata violenza della selezione dei dati. Anche Janina, nel suo utopismo razionale, cita alcuni dati per tacerne altri e segna, volente o nolente, d’una profonda impronta autoriale il suo racconto. E, forse, la dimensione artistica sta (anche) in quell’atto di presunzione, hybris, follia, superbia, che è il decidere, a un certo punto, di dare vita a un’opera.

Applausi agli “attori”, a chi li ha guidati in una performance tanto lieve quanto densa di contenuti e a questo piccolo, gustosissimo festival che nella prossima settimana (giovedì 29 allo Jenco di Viareggio, venerdì 30 a Porcari) chiude i battenti con il divertentissimo Il ritorno di Hula Doll del Tony Clifton Circus.

lunedì 26 dicembre 2011

Carne trita, quando la danza trova voce

(da La Gazzetta di Lucca, 22 novembre 2011)
La rassegna Quello che forse vorresti vedere, organizzata da SPAM! Rete per le arti contemporanee in sinergia con ampio numero di soggetti, tra cui Regione Toscana, Provincia di Lucca e i comuni di Lucca, Porcari, Viareggio, Massarosa e Pietrasanta, ha visto andare in scena, sulle tavole del Teatro Jenco di Viareggio lunedì 21 novembre, la performance di danza contemporanea Carne trita, progetto, regia, coreografia di Roberto Castello. Dopo i debutti, in forma di vari studi segmentati tenutisi a Torino, Bassano del Grappa e Roma tra luglio e ottobre, l’originale allestimento non ha mancato di riscuotere un notevole successo dinanzi alla nutrita platea viareggina, accorsa ad assistere all’ennesimo lavoro del gruppo guidato da uno dei maestri del panorama italiano.

Bentornati in Casa Gori

(da Giudizio Universale)
Le scene italiane riaccolgono il mitico testo scritto a quattro mani da Alessandro Benvenuti e Ugo Chiti nel 1987, un classico della comicità (non solo) toscana. Se l'ex Giancattivo firma ancora la regia, a vestire i panni di Giorgio Gori è ora Carlo Monni, con differenze e varianti del caso
di Igor Vazzaz

Sembra un paradosso, ma il teatro italiano, così come cinema e tv, ha un debito in sospeso nei confronti della Toscana in tema di comicità. Non ci riferiamo a Benigni, alfiere induscusso, né tantomeno ai “miracolati di Cecchi Gori”, la generazione dei Pieraccioni, Panariello e Conti, lanciata nel corso degli anni Novanta e che ha avuto il merito (o la colpa) di sfruttare l’onda, scadendo quasi costantemente nel cartolinismo umoristico, perpetrazione asfittica d’un modello edulcorato, standardizzato e svuotato d’ogni pregnanza.

Romeo, Giulietta e poco più

(da Giudizio Universale)

Il copione più famoso di William Shakespeare destrutturato dalla regia di Claudio Autelli, che lascia i due leggendari amanti soli in scena, con pochi comprimari e senza le scenografie veronesi ad accompagnare. Nel concentrarsi esclusivamente sull'ossessione amorosa, però, va perso un po' del quadro generale
di Igor Vazzaz


Non pare una coincidenza il fatto che uno dei capolavori scespiriani più ripresi negli ultimi anni - quello del Bardo è ben a ragione il repertorio più frequentato dell’intero teatro occidentale - sia Romeo e Giulietta: parliamo d’un classico dei classici e siamo certi che se, da un lato, l’inflazione del “sentimentale” contribuisce non poco al successo della tragedia veronese, dall’altro, le infinite declinazioni possibili d’un testo tanto conosciuto da risultar iconico giustificano a sufficienza il gran numero di messe in scena. Solo andando a memoria, e limitandoci alla presente testata, rammentiamo il musical di Cocciante (e Panella), la versione rom di Tiezzi (leggi), il recente Mercuzio non deve morire della Compagnia della Fortezza (leggi), senza contare le altre concretizzazioni di cui, per qualche motivo, non abbiamo avuto modo di parlare.

Teatro civile, un'altra Storia

(da Giudizio Universale)
Il centocinquantenario dall'Unità d'Italia ha spinto i protagonisti della narrazione teatrale a rinnovarsi: cerchiamo di capire cosa cambia e cosa resta attraverso un parallelo fra gli spettacoli di due grandi affabulatori. Ascanio Celestini, con il suo Pro Patria. Senza processi, senza prigioni e Fabrizio Saccomanno, impegnato in Iancu. Un paese vuol dire
di Igor Vazzaz


Croce e delizia della nostra contemporaneità scenica, il teatro di narrazione sembra attraversare un momento di profondo ripensamento, con i suoi principali alfieri impegnati in ricerche espressive a rigenerare una forma per ovviare a un momento di stasi. Il centocinquantesimo anniversario dell’Unità italiana non poteva che rappresentare un notevole stimolo per i teatranti tutti, e in particolare per coloro che da anni si cimentano nell’arte del racconto: abbiamo così assistito a una serie di allestimenti caratterizzati da tentativi d’evoluzione stilistica della narrazione scenica che non mancheranno, ce lo auguriamo, di dare frutti, anche al di là dei risultati presenti, non di rado contraddittori.

La vecchia gioventù di Lavia

(da Giudizio Universale)
Per celebrare fasti e violenze della verde età, il regista romano riporta sulle ribalte lo spettacolo che lo consacrò nell'82. In questo I Masnadieri di Schiller lui non va in scena, ma lascia spazio agli attori della Giovane Compagnia del Teatro di Roma. A suonare datata, però, è l'idea stessa delle nuove generazioni
di Igor Vazzaz



I giovani, strana entità: mobile, mutevole (quelli di ieri, oggi sono adulti, forse; quelli di oggi, adulti lo saranno, magari), eppure sempre evocata, blandita, costantemente puntata da un mercato che, a sessant’anni dall’invenzione del rock’n’roll, l’ha eletta peculiare riserva di caccia.

Shakespeare a pezzi

(da Giudizio Universale)
Dopo Amleto, Mercuzio non vuole morire il nuovo "studio" del regista Armando Punzo sui testi del bardo inglese. Nella rappresentazione degli attori detenuti della Compagnia della Fortezza, la vicenda di Romeo e Giulietta viene frammentata e ricomposta da capo. L'abbiamo visto per voi al Festival di Volterra
di Igor Vazzaz



Se il teatro da sempre si lega al rito, reiterazione d’un atto cristallizzato nel suo (dis)farsi, è del tutto comprensibile che la replica, intesa come calco di un’impronta estetica che si rende forma precipitata e ritornante, possa essere non solo ammessa, ma plausibile, nel percorso di un artista, di un gruppo, di una situazione. È con questa certezza, dunque, che ce ne torniamo dalla doppia visione di Romeo e Giulietta - Mercuzio non vuole morire, ennesima impresa della Compagnia della Fortezza capitanata da Armando Punzo, spettacolo (o, meglio, studio) offerto nel corso dell’ultima edizione, quella delle nozze d’argento, del festival Volterrateatro.

Punta Corsara: dalle chiacchiere all'azione

(da Giudizio Universale)
La compagnia di Scampia diretta da Emanuele Valenti diventa un'associazione culturale indipendente, e festeggia portando in scena il Convegno. Una piece che prende in giro il teatrino di parolai e dei sedicenti interpreti della società
di Igor Vazzaz



Restiamo fermamente convinti che il teatro, da disciplina estetica, debba giustificarsi esclusivamente con l’estetica medesima, senza sfruttare appigli esterni, ricatti morali, maquillage sociopolitici a rivendicarne giustezza, plausibilità, valore. Non si tratta di negare la dimensione politica della scena, tutt’altro: la miglior politica possibile, a teatro e in generale nell’arte, è realizzare opere vere e belle, formalmente coerenti, che non gabbino né sottovalutino (sport oltre misura diffuso) lo spettatore. Ed è per questo che siamo felici d’occuparci di Punta Corsara, iniziativa socioartistica coraggiosa, per niente banale e dagli esiti espressivi più che pregevoli.

La premessa: anno domini 2007, Fondazione Campania dei Festival promuove un progetto di impresa culturale presso l’Auditorium di Scampia (sì, il quartiere napoletano di cui si parla diffusamente in Gomorra e che tanto ha interessato Balotelli) affidandone la direzione artistica a Marco Martinelli (regista e responsabile del Teatro delle Albe, tra le principali compagnie di ricerca italiane, foto sotto a destra). A dimostrazione che, se affidate alle persone giuste, le cose possono addirittura funzionare, Martinelli fa convergere presso il celebre sobborgo partenopeo nomi del calibro di Motus, Marco Paolini, Ascanio Celestini, Danio Manfredini, Armando Punzo e Arturo Cirillo, avviando un percorso d’altissima professionalizzazione con un gruppo di ragazzi tra i 18 e i 23 anni.

Vengono realizzati alcuni spettacoli piuttosto interessanti: X.04 (ics) Racconti crudeli della giovinezza, quarto episodio d’un progetto di Motus sulle periferie europee, il bellissimo Fatto di cronaca di Raffaele Viviani a Scampia diretto da Arturo Cirillo e il sorprendente Il signor di Pourceaugnac, di Molière, per la regia di Emanuele Valenti, da sempre responsabile “sul campo” del progetto Punta Corsara. Risultati più che incoraggianti: la "cantera" corsara è formata da attori puntualissimi, interpreti persino scafati, e finisce per vincere, nel 2010, i premi Hystrio-Altre Muse e Ubu. Date le premesse, è ovvio attendere al varco una compagnia giovane eppur rodata, specie alla notizia che, a gennaio, si è costituita come associazione culturale indipendente, come a dire: da ora camminiamo sulle nostre gambe.

Allestimento per il debutto “in solitaria”, Il convegno – un’azione teatrale, testo pastiche sul tema delle periferie e del disagio: anzi, sul tema delle tavole rotonde, ossia della chiacchiera, a proposito delle zone depresse, praticando un malizioso taglia e cuci testuale su scritti di Karl Valentin, Achille Campanile, Rem Koolhas e Kurt Vonnegut. In una reale sala congressi (quella del Castello Pasquini, cuore pulsante del Festival Inequilibrio di Castiglioncello) ecco che s’apre un improbabile consesso, ove il pubblico viene accolto da un mellifluo Mirko Calemme: affabile, gentile, tipico esemplare di politicante ingiacchettato, s’arrocca puntuale su un vocabolario di cristallina vacuità, fornendo una campionatura pressoché completa di luogocomunismo socialmilitante.

Introduce i partecipanti al dibattito, e già s’intuisce come Punta Corsara voglia accanirsi con una congerie di tipi umani per niente sconosciuta ai suoi componenti: c’è la storditissima assistente sociale (Valeria Pollice), il garrulo studioso di Vincenzo Nemorato e una varia antropologia di sedicenti esperti, inservienti annoiati e persino, udite udite, lei, la rappresentante in persona del disagio sociale, un’irresistibile Giuseppina Cervizzi. Esibita a mo’ di trofeo stile King Kong, donna barbuta d’un risibile circo da disagio sociale, la ricciuta presenza s’impone col suo ostinato e sofferto mutismo a oltranza, ottenendo dalla platea (dello spettacolo, non del “convegno”) scrosci e rovesci d’inusitata, e puntualissima, ilarità.

È uno spettacolo rapido, anzi, come precisato dal sottotitolo, un’azione teatrale e, come tale, si consuma nell’immediatezza d’una proficua ed encomiabile insolenza. Il tutto brucia in meno di un’ora, nel forno d’una comicità mai fine a sé stessa, ben calibrata nel lavoro di un gruppo che non finisce di stupirci, in particolar modo sul piano della recitazione: tempi comici affilatissimi, mimiche salde, gestualità misurata, per una performance priva, di fatto, di scenografie e apparati di rilievo, il che costringe gli attori a concentrare tutto sulla pura interpretazione.

E non smette di solleticarci la linguacciuta perfidia d’un teatro che si fa metateatro di sé stesso, innescando un complesso sistema di manomissioni, sottrazioni e slittamenti di senso il cui bersaglio dichiarato (e ampiamente affondato) è proprio quel plesso di pose sociali che, in nome del sociale, non fanno che perpetrare sé stesse. Di certo, gli attori di questa Punta davvero corsara, sanno a chi si riferiscono. Applausi e ancora applausi.

01 Agosto 2011


Oggetto recensito:
Il convegno – un’azione teatrale, Punta Corsara, regia di Emanuele Valenti
La locandina: cast: Mirko Calemme, Giuseppina Cervizzi, Christian Giroso, Vincenzo Nemolato, Valeria Pollice, Tonino Stornaiuolo, Emanuele Valenti, Gianni Rodrigo Vastarella collaborazione artistica di Antonio Calone e Marina Dammacco; produzione Punta Corsara
Prossimamente: controllare il sito www.puntacorsara.it
Visto a: Castiglioncello, Festival Inequilibrio, 7 luglio 2011, organizzato da Armunia – Festival Costa degli Etruschi
Il migliore: forse non è corretto, perché la squadra gioca e gioca bene, ma è da tempo che vogliamo segnalare Vincenzo Nemolato come attore e maschera (per noi è un gran complimento) sopraffina; ha tempi perfetti, mimica, gesti di puntualità abbacinante; gemma assoluta del vivaio di Scampia: bravo tra i bravi, per noi è il miglior fico del bigoncio. Complimenti.
giudizio:


Dante risciacquato in Arno

(da Giudizio Universale)
Una parodia della Divina Commedia recitata da un barchino che naviga sotto i ponti di Firenze: sembra un banale spettacolino per turisti, invece è una godibilissima performance dello Zauberteatro
di Igor Vazzaz


S’arriva da Ponte a Santa Trinità e, prima ancora, da quelli di Vespucci e alla Carraia: l’estate fiorentina è stranamente indulgente e non s’accanisce afosa, come spesso accade. Lo scorcio mozza il respiro, abbiam voglia di sottilizzare noi detrattori del Giglio: Ponte Vecchio, anzi, il complesso di finestrucole, pertugi, terrazze esigue e variopinte che lo incoronano, offre una vista incomparabile. La scarpinata, però, ci porta oltre, sino a Ponte alle Grazie, percorrendo prima il lungarno degli Acciaiuoli e poi quello intitolato ad Anna Maria Luisa, gran donna, ultima esponente della prima linea medicea, adorata dai sudditi per non aver concesso ai Lorena di depredar la città degli inestimabili tesori.

Si digrada verso il fiume, appena storditi dagli odori rifritti delle trattorie, dalle note intrecciate dei pianobar, per entrare in tutt’altra atmosfera, ieratica e misteriosa. Saremo in venticinque, quando arrivano i barchini dei renaioli, due natanti in legno condotti con destrezza da nocchieri eredi d’una tradizione antica, quando gli scafi trasportavano sabbia e non allampanati spettatori in cerca d’emozione. Maneggiano lesti le stanghe, pertiche in legno leggero, e non remi: immerse nella torbidità dell’Arno sino a raggiungerne il fondo, fungono da leve e accompagnano il docile rollio a filo d’acqua.

Dal punto di vista scenografico, siamo già messi bene: guardare una città, qualsiasi città, dal fiume che l’attraversa è, di per sé, un vedere rinnovato, figuriamoci se questa è Firenze. La prospettiva rovescia gli assunti e la situazione carontea oblitera la molestia sonora dei locali che strombazzano canzoni vecchie e nuove. Stige o Arno che sia, siamo di nuovo verso Ponte Vecchio, quando un terzo naviglio ci affianca rapido, poco prima di giungere sotto una delle tre arcate del capolavoro fluviale. Tre ombre per equipaggio: il barcaiolo, un musicista seduto di lato e una figura ricciuta, eretta in prossimità d’un ampio leggio. Guadagnatosi pronto il silenzio, declama un prologo rimato d’impronta dantesca, parodia e tributo (ché poi non son così distanti) dei versi divini a introdurre un viaggio del viaggio, succinto percorso delle tre auree cantiche. Siamo sotto l’arco: la parete è punteggiata di nicchie, minuti tabernacoli da cui occhieggiano le fiamme d’alcune candele. I barchini si fermano, incastrandosi all’uopo per offrire ai silenti passeggeri l’ascolto. 

È un Dante ridotto, dimagrito, reso agile e a tratti banale, ma sempre innervato d’asprezza ruvida, irridente, come i cornocchi duri riempiono le sacche dei buoni sanguinacci di qua. I versi di Venturino Camaiti, fiorentinesco poeta vissuto a margine dell’Accademia come del Novecento, son grezzi e al contempo nervosi, lepidi, maligni, a perfetto agio nel pelago infernale di cui ben riprendono l’indugio al basso corporeo, quella poetica lorda e materica ch’è linfa prelibata dell’umoraccio toscano. E l’Inferno scorre in un baleno, tra zotiche insinuazioni e strizzate d’occhio a quel che san tutti, ché la Comedia, ormai, è carne da pop, fatta a tranci e bocconi per il pubblico da lenire e mai umiliare.

Si scivola oltre, sino a Santa Trinità, tra i flash terrestri dei turisti che si sbracciano a salutare quelle strane imbarcazioni in notturna crociera: il Purgatorio tiene, del resto la salvezza, ancorché certa, è lungi dal farsi vedere, e la pettegola caricatura dantesca disegna sorrisi in volto a coloro che, son molti, stan dietro al verseggio declamato da Sandro Carotti. È lui che ghigna, bocia, arringa, in un gesticolar fulmineo, spezzato, quasi granuloso, e gli educati clarinetti di Luca Becorpi tracciano fraseggi mai invadenti né fuori posto. Si naviga ancora, verso il fianco sinistro, nei pressi di Borgo San Iacopo, per un Paradiso che, prevedibilmente, è il meno acconcio dei tre traslati: pur si ride, ché almeno in questo caso, non si fa il verso ai magnifici versi e, anzi, la poetica dell’ineffabile dimostra d’esser concepita, benché rifiutata da una prospettiva antipodica e bernescante. Si chiude in bellezza, nella notte fiorentina, con due barche d’anime a raggiungere la terra, che non è il Paradiso, troppo in alto, ma la riva d’una città inondata di un’estiva luna piena.

L’arte "per turisti" è sempre considerata di lega men che bassa, eppure certe categorizzazioni lasciano il tempo che trovano: una Comedia conscia del suo farsi bignami è, invece, risultato più interessante di tanti spettacoli laureati, banalizzazioni a uso di pubblici da ammansire, lisciare, consolare. Ed è per questo che applaudiamo Carotti, Becorpi, Zauberteatro e anche Camaiti, senza minimamente irritarci per l’ipotetico affronto. A salvarli, comunque, basterebbe la scenografia. 
28 Luglio 2011

Oggetto recensito:
La Divina Commedia: oratorio burlesco, di Zauberteatro
Il testo: La Divina Commedia, esposta e commentata in cento sonetti fiorentineschi umoristici e satirici da Venturino Camaiti nel VI centenario dantesco, Firenze, Tipografia Giuntin, 1921
Locandina: regia di Niccolò Rinaldi; ideazione scenica di Mario Librando; allestimento di Massimo Carotti; produzione Zauberteatro
Prima di Sandro Carotti: le voci recitanti sono state Beltranto Mugnai e Altamante Logli, forse l’ultimo grande esponente degli improvvisatori in ottava rima
Per vedere lo spettacolo: www.zauberteatro.com
giudizio:



Ma i bimbi non ridono

(da Giudizio Universale)
Il Teatro delle Briciole affida ai veronesi di Babilonia Teatri un allestimento per i più piccoli. Forte di lavori apprezzati come Made in Italy e Pornobboy, con Baby don't cry la compagnia si produce nel suo repertorio esplosivo di luci, musica e citazioni pop. Ma per sorprendere e divertire i giovanissimi ci vuole ben altro di Igor Vazzaz


Questione annosa, già proposta in queste lande (leggi): come devono essere gli spettacoli per bambini, quali parametri comprendere, quali (e quanti) livelli di lettura proporre? Interrogativo insidioso perché sempre aperto, problematico e declinabile all’infinito. È così che Teatro delle Briciole, in occasione d’un progetto rivolto ai ragazzi, commissiona a Babilonia Teatri, formazione veronese che da qualche stagione fa discutere pubblico e critica, un allestimento per e sui bambini. Titolo Baby Don’t Cry, tema, peraltro intrigante, il pianto. Valeria Raimondi ed Enrico Castellani, principali volti "babilonesi", non esitano e - sull’onda di un’inchiesta svolta nelle scuole primarie parmensi - piegano l’argomento secondo la propria peculiare poetica fatta d’emorragie verbali, giochi blobbistici e un innegabile furore da pop-punkers del Nuovo Millennio.

Ne risulta uno spettacolo rapido, a tratti affilato, rigorosamente sopra le righe, secondo la gamma dei registri utilizzati pure per i precedenti made in italy e Pornobboy (leggi la recensione). Nello spazio rettangolare dominato da un’iniziale penombra, Marco Olivieri e Francesco Speri prestano corpi e voci al dedalo delirio d’istanze infantili d’una ricerca disperata sul senso del pianto, la sua natura profonda e contraddittoria. Il Grand Guignol di significanti esplosi nel quadrante scenico rende una performance caotica, in cui ogni elemento procede secondo criteri d’ipertrofia: gli accostamenti, violenti, bizzarri, creano frazioni lessicali, frizioni semantiche, siano essi sonori (il pianoforte suonato da Olivieri, il pop a tutto volume, il ridicolo MIDI d’una stonata canzonetta d’un improbabile karaoke), visivi (il lampeggiante sulla tastiera durante le esecuzioni al piano, i grembiuli scolastici appesi e poi strappati, le luci sparate verso il pubblico a mo’ di concertone rock) o testuali.

http://www.giudiziouniversale.it/sites/default/files/images/BabyDontCry-Img.jpgE proprio la costruzione, per così dire, letteraria è, forse, il testimone più lucido d’una abitudine che, se da un lato evidenzia la fedeltà a una precisa poetica del gruppo, dall’altro rischia d’ingabbiare Babilonia in un prevedibile sistema di stilemi dati. La congerie di immagini, buffe e paradossali sequenze non estranee a certe litanie simile a quelle di un vecchio gruppo punk italiano come i CCCP, è l’emblema di un complesso di strategie che, se nelle prime applicazioni poteva sorprendere, interdire, financo divertire (pensiamo alle bestemmie di made in italy), in questa circostanza ci pare frusta sopravvivenza d’un far teatro che reitera sé stesso senza troppo interrogarsi.

Il problema s’estende, di fatto, all’intera costruzione del testo scenico, alla tessitura musicale, alla dinamica fratturata d’accelerazioni vorticose e dilatazioni esibite: posto che, l’abbiamo capito, Babilonia sbatte in faccia al pubblico le purulente escrescenze di un’Italia trasfigurata nel contemporaneo grottesco (operazione che, di per sé, non ci parrebbe neppure l’inusitata novità di cui capita talvolta di leggere), tutto questo industriarsi all’accumulo, sommando gesti su voci, luci su presenze, alla fin fine incappa nello scacco più mortifero: non sorprende. E, se al punk (comprensivo d’ogni sua variopinta appendice: pre, post, new e via andare) manca la dimensione dello stupore, cui prodest? A chi giova tutto ciò?

S’aggiunga, peraltro, che lo spettacolo avrebbe da rivolgersi non tanto a un pubblico di noiosi spettatori scenici - osservatori scafati e adusi agli uzzoli dei teatranti di moda - ma a platee bambine, ed ecco che il problema ci pare ben serio. Non perché gli infanti siano nani idioti da proteggere o difendere dalle insidie dell’estetica, tutt’altro: i bimbi sono osservatori impietosi, raramente mendaci e non li si può ammansire con le moine pop, le trovate postmoderne, le strizzatine d’occhio d’un anticonformismo essenzialmente di facciata e, alla fin fine, da sbadiglio. 


È un peccato, però, ché questo Baby Don’t Cry qualche qualità ce la potrebbe pure avere: nelle visioni magrittiane (la scena dei megafoni che coprono i volti degli attori è forse la migliore dell’intera recita), in alcuni “absurdismi”, nei giochi gestuali e naïf di Olivieri (non vedente, ma lo si percepisce solo a spettacolo inoltrato), in una dolce squinternatezza che sarebbe la giusta cifra dell’allestimento se solo si pensasse allo spettacolo e non alla perpetrazione d’uno stile, contraddicendo il dichiarato intento di sperimentare. Si resta con le orecchie ingolfate dalla musica degli INXS, qualche immagine e, in coda, a poco valgono i Cure per rassicurarci che, in realtà, Boys Don’t Cry.
14 Luglio 2011


Oggetto recensito:
Babilonia Teatri, Baby Don’t Cry, testo e regia di Valeria Raimondi ed Enrico Castellani
Prossimamente: tenere d’occhio il sito www.babiloniateatri.it
Produzione: Babilonia Teatri/Teatro delle Briciole - Solares Fondazione delle Arti
Durata: 50 minuti circa
Visto a: Castiglioncello (Li), Castello Pasquini, il 7 luglio 2011, festival Inequilibrio 2011
Altro spettacolo recente: The end (leggi la recensione)
La coincidenza: a Verona, città di Babilonia Teatri, negli anni Novanta esisteva una rivista giovanile intitolata I ragazzi non piangono, traduzione del celebre disco dei The Cure
giudizio:


Il rivoluzionario e la farfalla

(da Giudizio Universale)

Norberto Presta interpreta Bucharin, protagonista della Rivoluzione d'Ottobre giustiziato nel 1938 da Stalin dopo un processo farsa. Il beniamino delle farfalle parte dalla sua ultima lettera, che arrivò alla moglie più di cinquant'anni dopo
di Igor Vazzaz
 
Scherzi del destino, o dei sistemi postali: a volte capita che una lettera impieghi quasi cinquantacinque anni per giungere a destinazione, poco importa se è l’ultima epistola amorosa che un rivoluzionario russo scrive alla moglie. Escamotage letterari, si dirà, eppure non si dovrà per forza scomodare Wilde per rammentarsi come, talvolta, la vita superi l’arte: Nikolaj Ivanovič Bucharin, esponente di primo piano di quella grande esperienza storica che fu la Rivoluzione d’Ottobre, incontra la morte dopo un processo politico dai contorni tuttora indefiniti, tanto che non è chiaro quanto il regime staliniano abbia piegato lui o quanto egli stesso si sia, in qualche modo, voluto piegare per restare fedele a un’idea. La lettera, sì, la scrisse, nel 1938, e arrivò nel 1992 ad Anuska (Anna Michailovna Larina), che, da sposa fedele ed eterna amante, rispose con parole struggenti e appassionate. 
beniamino grande.jpgNorberto Presta, attore argentino, poliglotta, viaggiatore, presta (e mai verbo sarebbe più preciso) corpo, sudore, voce e movenze a Bucharin, in un monologo ricco di piegature, di flessioni e riflessioni, tra amara ironia, momenti di umorismo alla russa e un’ininterrotta, atroce interrogazione sul senso stesso del narrare, del rappresentare. Andiamo con ordine: lo spettacolo è del 1993, nasce in tedesco, e viaggia per il mondo da quasi vent’anni. Il titolo italiano è Il beniamino delle farfalle, noi lo vediamo al Cacilda Becker di Rio de Janeiro, in occasione della Settimana della lingua italiana nel mondo, con l’ausilio del locale Istituto Italiano di Cultura (e voi potete vederne un assaggio qui).

beniamino media.jpgIn scena poco o niente, fasci luminosi dall’alto che tagliano le tavole del palco, rendendo una luce ora neutra ora più stretta, a isolare l’attore. La musica è diffusa dai lati, a volte con suono volutamente rétro, ad accompagnare le movenze sinuose del protagonista: ballerino, narratore, corpo in movimento. La sedia, unico arredo, è trampolino, arma, scala per quella figura flessuosa che nella plastica motoria individua una matrice teatrale profonda. Direttamente rivolto al pubblico, Nikolaj parla della propria storia di rivoluzionario traditore e tradito, in quel rapporto vischioso, inesplorabile, intessuto con Stalin e il resto del regime sovietico. Non vuole, lui, raccontare l’amore per Anna, per il figlio, la corrispondenza con gli amici: si sofferma, piuttosto, su curiose riflessioni naturalistiche e una ficcante metafora tra l’appartenenza rivoluzionaria e la vita dei più bei lepidotteri, le farfalle. Insetti simbolo della metamorfosi più profonda, sono il doppio e dello sforzo rivoluzionario e di questo corpo d’attore in costante mutazione di postura, posizione, gestualità.

beniamino piccola.jpgIl ritmo vocale è rotto, alterna soliloquio frammentato e recitazione fluente, sempre accompagnato da passi di danza degni di un tanguero e da un giocare flessuoso con il corpo di un uomo già maturo. La quarta parete crolla sotto i fendenti di un continuo rivolgersi al pubblico, porgendo fotografie per poi richiederle indietro, sfiorando, toccando gli spettatori. Al contempo, la medesima, eterna e invisibile separazione attore-spettatore viene fatta a brandelli dal contrasto tra interprete e personaggio: Nikolaj, infatti, si rivolge a Norberto sfidandolo, motteggiandolo, rifiutandosi di raccontare ciò che il pubblico vorrebbe, la storia d’amore. L’attore ingaggia col carattere fittizio un corpo a corpo serrato, fatto di battute e lacrime, ma non c’è storia: è la storia stessa a non esserci. Illusi sono coloro che pensano di poter raccontare qualcosa: l’essenziale, lo diceva Walter Benjamin a proposito dell’arte, lo riprendiamo noi declinandolo anche alla vita, l’essenziale è incomunicabile, e ciò che è comunicabile è fatalmente inessenziale. In barba all’infinita presunzione di rappresentare, all’infinita presunzione di mettere in scena, di poter significare mai qualcosa, al punto da cannibalizzare esistenze, amori, storie per dilettare il tranquillo pubblico pagante. Presta gioca benissimo questa partita a perdere, e il suo italiano sporcato d’ispanismi acquisisce un senso straniante che rafforza ulteriormente uno spettacolo di grande purezza e onestà, poetica e teatrale.

Si resta col fiato sospeso, la testa colma di riflessioni e le farfalle rosse distribuite dall’attore, frutto del delirio di Bucharin nel tagliare con le forbici un libretto rivoluzionario. Si resta col cuore riempito e, in mano, un pugno di mosche. Pardon, di farfalle.  
07 Giugno 2011


Oggetto recensito:
Il beniamino delle farfalle, di e con Norberto Presta
Il resto della locandina: regia di Lambert Blum; produzione Transito Produçoes; durata 60 minuti; lo spettacolo, nato in Germania, è proposto abitualmente anche in italiano, spagnolo e portoghese
Prossimamente in Italia: date in divenire sul blog di Norberto Presta e qui
Nikolaj Ivanovič Bucharin: Lenin, nel proprio testamento politico, lo definiva "il figlio prediletto del Partito"; la sua vita è stata intensa e travagliata; è, peraltro, corresponsabile della fondamentale teorizzazione del "socialismo in un solo paese" che spiana la strada alla dottrina stalinista
La condanna: è avvolta nel mistero, perché, alla fine, è egli stesso ad accusarsi di attività controrivoluzionaria, al punto da risultare convincente persino per gli osservatori internazionali che presenziavano al processo
Il sospiro di sollievo: si può fare teatro monologico senza cadere né nel "teatro di parola" né in quello "di narrazione"
giudizio: